Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VI/Capo IV
Questo testo è completo. |
◄ | Libro VI - Capo III | Libro VI - Capo V | ► |
CAPO QUARTO.
Nuovi provvedimenti e nuovi codici: molti miglioramenti nella città e nello stato.
XXXIV. La città fu nella notte illuminata da mille e novecentoventi lampadi lucentissime; essendo per lo innanzi così buja, che nascondeva furti ed oscenità. Imitarono il bell’esempio le città maggiori del regno.
Si aprì nuovo cammino da Toledo a Capodimonte, colle amenissimo, in cima del quale si erge magnifica villa innalzata da Carlo III; ma non compiuta da lui, nè da’ re successigli. Per far largo e diritto il sentiero si demolivano alcuni edifizii, mentre per ampliare il foro del real palazzo si abbatteva il convento e la chiesa di San Francesco di Paola. Le quali rovine, biasimate dal volgo, erano applaudite da’ migliori, aspettandone effetto di utilità e bellezza: ed allora fu edificato il ponte della Sanità, magnifico per mole, difettivo per arte. Pervenuta la nuova strada alla real villa, geminandosi, incontra con un ramo il gran cammino d’Aversa, e con altro, serpeggiando per l’oriental pendice della collina, mette capo al Reclusorio. Quell’opera chiamata, per omaggio al nome, Corso-Napoleone, fu detta, dopo il rovescio della gran fortuna, strada di Capodimonte.
XXXV. Il giuoco, vizio di ogni popolo e di ogni età, moderato e ristretto dove i costumi sono civili, era smodato ed arrischioso nella nostra città. Nè meno grande del giuoco la vaga libidine, figlia pur essa di corrotti costumi, in Napoli più che altrove abituale per gli ardori del clima e le antiche leggi del celibato. Nuovi provvedimenti del governo vietavano i giuochi privati, permettevano î pubblici, col profitto al fisco di ducati cento ottantamila all’anno, indi a poco salito a duecentoquarantamila. Ed alle disoneste donne, numerate e descritte in un libro, l’infame traffico era concesso con un foglio da rinnovarsi in ogni mese, a prezzo vario come di merce. dipendendo la misura del pagamento dalla bellezza e dal lusso della meretrice.
Ne’ di prefissi le due ordinanze ebbero effetto. In un vasto e ricco palagio destinato a’ cimenti della fortuna esposero a mostra del pubblico in varie stanze tutti i giuochi: danaro in copia su i tavolini, pegno ed incitamento alle smodate speranze; l’appaltatore ed i suoi ministri splendidi per gemme e vestimenti; i magistrati del governo in abito di uffizio; e poi giocatori e curiosi a folla. Ed in altro luogo della città convennero le meretrici, che medici prescelti ricercavano sul corpo, mentre un uffiziale di polizia prendeva pensiero delle inferme, altro rilasciava alle sane le patenti, esigendone il prezzo; ed altro, di maggior grado, a quegli atti osceni presedeva. I quali vizii meno osservati, allorchè sparsi e nascosti nella città, ora uniti, manifesti e legittimi, comparivano più grandi e disonesti. Ma frattanto di mese in mese scemavano le meretrici ed il morbo, i giocatori ed il giuoco; e perciò quelle ordinanze e quelle pratiche, al volgo attestatrici di sfacciati costumi e di reggimento licenzioso ed avaro, erano veramente per la corruttela de’ tempi necessità di governo.
XXXVI. Spesso il re a diporto, o per visitar le province, si partiva di città. Percorrendo i colli Flegrei, volendo mostrarsi dotto delle romane istorie, biasimò in Baja il temerario ponte e le crudeli feste di Cajo; inorridì a Lucrino della infame memoria del matricida; e disse sulla distrutta Cuma: «Così pure col volger de’ secoli i monumenti dell’imperatore Napoleone saran sepolti.» Visitò in Sorrento la casa del Tasso, e vistane la povertà, ordinò che a rincontro con denaro pubblico si ergesse magnifico monumento, In Amalfi largì doni a’ discendenti di Gioja. In Pompeja comperò le terre che sotterravano la città, essendone in quel tempo poca parte scoperta.
Viaggiò negli Abruzzi ed in Molise, dipoi nelle Puglie. Fermavasi nelle città, spesso ne’ villaggi a mostrarsi benefico, liberale, clemente. Chiamava a consiglio pubblico i notabili; e per loro voto premiando gli uffiziali commendati, mutando gli odiosi, punendo gli accusati, rinviò in Francia un general francese, rivocò un intendente, elevò oscuro prete a consigliere di stato: creava i magistrati come tra comizii. Sperava l’amor de’ sudditi, che non ottenne; avvegnachè la popolarità e la clemenza sono pompe de’ re, e solamente la giustizia e il contegno sono istromenti d’impero.
XXXVII. Si fece lunga legge per le cerimonie pubbliche, altra per quelle di corte, uniformi alle leggi di Francia dettate da Bonaparte, che al fasto degli antichi re francesi aggiungeva l’alterezza dell’indole propria, e la superbia de’ campi: modi sconvenienti a re nuovi, nati nel popolo, dal popolo innalzati, ed aventi con esso interessi e fato comune. Il lungo esercizio delle monarchie europee, la pazienza de’ soggetti ridotta in costume, la corruttela de’ tempi, il bisogno di riformare le società, facevano e fanno necessario l’uffizio de’ re. Ma si voleva a re nuovi potenza regia, modestia di cittadino, mancando ad essi il prestigio degli antichi. E però la vecchia monarchia esser poteva una dignità, la monarchia nuova non doveva essere che magistratura: quella procedendo da nascita, indi da caso e fortuna, questa da scelta o conquista, indi da merito o da virtù; e l’una sostenendosi per fasto, nomi e vana superba aristocrazia, e l’altra per forza, popolo ed aristocrazia si ma sociale e chiara di opere e di servigi. I re nuovi potevano migliorare gli antichi re, ammodernandoli con l’esempio de’ successi e della ragione; ma ne furono corrotti con l’esempio del fasto e del comando, così che da proprio fallo i nuovi caddero, gli antichi vacillano; e l’autorità regia e la ragione de’ popoli combattono, a modo di fazioni, con le armi usate delle ribellioni e della tirannide. Vi ha nella natura delle presenti società, e per fino nel genio del secolo un’arte che giovi a’ popoli, un’altra che giovi a’ re; chi prima la scuopre e l’adopera avrà vittoria sull’altro. E qui mi arresto perchè lo sdegno de’ tempi tronca il mio stile.
XXXVIII. Altra legge compose lo stemma reale che nel mezzo dello scudo aveva l’arme imperiale francese, intorno a questa le insegne delle quattordici province del regno, ed una, in maggior campo, della Sicilia; la collana della Legione di Onore di Francia contornava lo scudo sostenuto da due sirene; il manto normanno per foggia e colori sosteneva in cima la corona regia; ciò che più risplendeva, non era delle Sicilie, ma di Francia. Se per emblemi si rappresentavano i nuovi codici, l’ordinata finanza, la migliorata amministrazione, l’abolita feudalità, i disfatti conventi, l’accresciuta civiltà, la collana di quei segni era conveniente a principi nuovi; ma costoro ch’esser potevano del piccolo eroico numero degli ordinatori e riformatori degli stati, preferirono di confondersi nella moltitudine de’ vecchi re, benchè vi fossero male accolti, abbietti, ultimi e traditi. Il quel tempo furono coniate monete d’oro e di argento con la effigie e ’l nome di Giuseppe re delie due Sicilie, mentre Ferdinando IV con lo stesso titolo, nell’anno istesso, faceva coniare in Palermo altre monete di egual valore. Due re di un regno contemporanei confonderebbero la mente dei posteri, se le medaglie non le istorie si conservassero.
XXXIX. Pure tra i fatti or ora descritti, le novelle instituzioni, generate da positivi interessi di società e dal genio del tempo, assodavano; e le guerre esterne, le intestine discordie ritardavano solamente, senz’arrestare il natural progresso del bene. La fazione del governo di giorno in giorno aggrandiva, la contraria scemava, e causa non poca del doppio guadagno era il dar fede, impiego, autorità, stipendio a’ settarii della opposta parte, de’ quali parecchi tradivano i nuovi impegni e n’erano castigati; molti presi da comodo ed ambizione servivano il governo con maggior zelo de’ suoi partigiani. Così la mescolanza delle opinioni civili spegne ne’ governi forti le passioni e gl’interessi di parte; ne’ deboli, i governi.
Concorrevano al miglioramento delle nostre cose le vittorie dell’esercito francese in Alemagna. La battaglia di Eylau preparò quella di Friedland, e questa pose fine alla guerra; perocchè disfatto appieno l’esercito prussiano, sconfitto il russo, presa Conisberga, spinto il re Federigo fuor dei suoi stati, risospinto l’imperatore Alessandro verso la sua Moscovia, la pace chiesta da’ vinti fu conchiusa in Tilsit. Si fondò per essa il regno di Vesfalia dato a Girolamo Bonaparte, si aggrandì il regno di Sassonia degli stati polacco-prussiani, ed il regno di Olanda della signoria di Tever; furono riconosciuti la confederazione del Reno, e Giuseppe re di Napoli, Luigi di Olanda, Girolamo di Vesfalia, se non che per il primo non si faceva motto della Sicilia, ed a noi piaceva il silenzio come speranza di pace con la Inghilterra. Perciò dopo Tilsit, gli stati nuovi si afforzarono; parve necessità di destino l’imperio di Bonaparte, e tutte le menti amiche o nemiche, pensatrici o insipienti, credendo compita la nuova civiltà europea, videro ne’ tempi appena scorsi e negli attuali, per diversità di re, di leggi, d’interessi, due differenti secoli della società.
Ma vicino all’alto, come è costume della fortuna, stando i precipizii, cominciarono in quel tempo istesso gli sconvolgimenti della casa di Spagna; la quale debole verso le nazioni esterne, avvilita ne’ suoi stati, corrotta nella reggia, nessuna aveva delle qualità regali fuorchè la cupidità di regnare, ed a modo barbaro: il figlio congiurando contro il padre, il padre di sua mano imprigionando il figliuolo, il favorito armandosi contro l’erede del trono, la madre, la istessa madre accusando il figlio, e questi rivelando lo trama e cagionando aspre pene a’ congiurati; risuonarono nel regno le turpitudini della reggia, più invilì l’autorità de’ supremi, si confusero gli interessi pubblici e le private ambizioni, parteggiavano i soggetti, s’agitò la Spagna.
Lo scaltro imperatore de’ Francesi vide in quei disordini la opportunità di facile conquista, e la bramò. Il suo esercito che tragittava per la vecchia Castiglia onde arrecar pene al Portogallo dell’amicizia britanna, il sentimento d’irresistibile forza per le recenti vittorie di Freidland e di Jena, il nessun sospetto di vicina guerra dopo i trattati e le conferenze di Tilsit, il motivo di assaltare la Spagna dall’editto di guerra del principe della Pace, il benefizio o il bisogno di sottoporre que’ popoli guerrieri a principe della sua casa e discacciarne la stirpe borbonica pericolosa e nemica, infine l’ambizione, la insazietà d’imperii gli posero in animo il proponimento di aggiungere a’ suoi dominii la penisola, da’ Pirenei all’Oceano. Scala dell’ardito disegno furono le passate fortune, sì che la impresa di Spagna e le succedenti rovine si trovano legate agli stessi eventi che lo avevano menato a quell’altezza, e formano la impercettibile necessaria catena di cause e di effetti regolatrice del mondo: quindi ogni opera umana se portasse impresso lo stato morale dell’operante, assai più esatti sarebbero i nostri giudizii; parecchie azioni, credute errori, apparirebbero necessità, e molto di maraviglia perderebbe la istoria. Napoleone stabilì di condurre al trono di Spagna il re Giuseppe, il quale essendo della stirpe francese e passandovi dal trono di Napoli rammentava i fasti di Luigi XIV e di Carlo III, ed appagava la insana napoleonica voglia d’imitare i Borboni. Giuseppe nell’ultimo mese del 1807 recatosi a Venezia e avuti con l’imperatore segreti abboccamenti, ritornò in Napoli.
Seco trasse il decreto imperiale dato in Milano nel dicembre, più ampio dell’altro di Berlino del precedente novembre, ambendue relativi al blocco continentale, divenuti leggi europee. Se in quei decreti alcuno cercasse le regole della economia pubblica, fremerebbe al vedere spezzato il commercio fra nazioni, tolto premio all’industria, menomati alcuni valori, altri distrutti; e direbbe, nel rogo dove ardevano le manifatture inglesi bruciare i libri dello Smith e del Say, Ia bussola di Gioja, i frutti dell’opera prodigiosa del Colombo. Perciò ii blocco sembrò alla moltitudine nuovo delirio dell’umano spirito; ma sebbene suggerito da sdegno e da vendetta, fu ponderato concetto di Bonaparte, sapienza di stato, e mezzo tale di guerra che fiaccava le armi più potenti del nemico, le ricchezze. Per esso le industrie, chiamate dal bisogno ed allettate da smisurato guadagno, multiplicarono; e però cresciute in Europa le produzioni, il commercio nuovo disordinò l’antico, ma le condizioni della vita e della civiltà migliorarono. E per le stesse cause fu visto con meraviglia nell’anno 1815 nazioni ricche in guerra impoverire nella pace.
XL. In una lunga e fosca notte del gennajo, scoppio come di mina, secondato dal romore di fabbriche rovinanti, destò dal sonno ed impaurì gli abitatori della riviera di Chiaja: e veramente per esplosione di polvere precipitarono ventidue stanze del palagio di Serracapriola, abitato dal ministro di polizia Saliceti. Egli stando in altro braccio dell’edifizio sentì solamente scuotere le mura come da tremuoto; ma la figlia gravida di sei mesi, ch’era in letto ancor desta, fu tirata con le rovine della camera nella corte, cd ivi coperta di sassi e di calcinacci; lo sposo, duca di Lavello, cadendo si divise da lei e restò tramortito sulle rovine: precipitavano dall’altezza di quarantasei palmi, che sono metri dodici.
Il ministro, che momenti prima era entrato in casa, sollecito della figlia, seguito da un servo, salì all’appartamento ov’ella dimorava; ma sì denso era il fumo, e più del fumo il polverio, che la luce di un doppiero sembrava morta, ed egli camminava per pratica del luogo, gridando: Carolina, Carolina (era il nome di lei). Ad un tratto mancò il suolo; egli cadde col servo sulle ammassate rovine, e sollevato da parecchi nel palagio accorsi, trascurante di sè benchè ferito, non ristava a cercare della figlia.
Un famigliare di lui, Cipriani, lo stesso che anni dopo morì in Sant’Elena servendo Bonaparte, prega da tutti silenzio; e montando sopra quei cumuli, abbassa a terra il capo, e da luogo in luogo, da fesso a fesso tra le rovine va chiamando con voce altissima e prolungata, Carolina; e tosto dove ha messo il labbro adatta l’orecchio per sentire o risposta o lamento. Alla quarta pruova pargli udir voce; e più attentamente ascoltando, grida verso i molti che pendevano da lui: È qui, correte. Tutti accorrono, e sì ch’è inciampo lo zelo, tardanza la sollecitudine; ma quella misera disotterrata, trasportata come morta in una vicina stanza del terreno, risensata dopo alcun tempo, vedendosi nelle braccia del padre, esclama a lui troncamente: Ricerca del marito.
Fra le angosce di poco innanzi trovato sulle rovine un corpo nudo creduto morto, portato fuor del palagio, erasi lasciato sulla strada. Quegli era il duca di Lavello, che dipoi conosciuto e confortato riebbesi, e si raccolse nella camera istessa col suocero e la moglie: tutti e tre in vario modo, con diversità di pericolo, feriti; il servo caduto col ministro n’ebbe infrante le gambe; altro servo che dormiva in una delle dirupate stanze, vi fu morto; cinquantatrè persone abitavano il palagio, e, purchè l’uno morisse, non furono di ritegno al delitto. Nella mattina, trentuno di gennajo, la città di quei casi informata intimori; i nemici di Saliceti, che molti ne conteneva la corte di Giuseppe, ragionavano dell’avvenimento con sorriso e dileggio; la polizia ne fu svergognata, Saliceti da cento punte trafitto; delle quali asprissima era l’offesa vanità, e il vedersi vinto in astuzie, ch’erano a lui tesoro di antica fama e mezzi presenti di uffizio e di ambizione, Tal uomo che partigiano di libertà, o ministro di re, fra gli sconvolgimenti di Francia e d’Italia, intrepido aveva affrontato mille pericoli di rivoluzione o di guerra, ora largamente piange di affetto comune, la vergogna.
XLI. Disgomberando le rovine, si trovarono i resti di una macchina tessuta di corde intrise nel catrame, avvolte a molti doppii, capaci di trentamila rotoli di polvere (kilogrammi 29 ⅓). Era stata collocata sotto l’arco di una scaletta interna dell’edifizio, alla quale avendo solamente accesso un tal Viscardi, settario dei Borboni, nemico a’ Francesi, uomo tristo e di mala fama, lasciato in quel luogo con la sua farmacia per trascuranza o fatalmente, fu insieme a due figli e tre discepoli carcerato. Molte altre ricerche nella città e nelle province usava la polizia, più che non mai vigile ed operosa, famelica di vendetta; ella spiando ogni casa, ogni uomo, scoprì altre congiure ordite contro lo stato, e criminose corrispondenze con la regina di Sicilia, con la Villatranfo, col Canosa; e trame, combriccole, disegni atroci. Molte persone, per lo più ree, e pur taluna innocente, furono imprigionate; più molte fuggirono o si nascosero, tutti tremavano: un misfatto di fazione si slargò in calamità pubblica.
Alcuni degl’imprigionati, e sopra tutti i Viscardi, erano governati aspramente dagli uffiziali di polizia, e perciò il padre per debolezza di età, numerando settantasei anni di vita, o per abituale perfidia, rivelò, avuta promessa di perdono, tutte le parti del delitto. Disse essere opera della regina di Sicilia e del principe di Canosa; emissarii, alcuni venuti di Palermo, ed altri tenuti in pronto in Napoli; scopo, la morte di Saliceti per odio e perchè inciampo al preparato rivolgimento del regno: descrisse la macchina e dove collocata, e quando (all’entrar del ministro nel palagio) diedero fuoco alla miccia onde colpirlo mentre passava per la camera soprapposta, e come la esplosione fu ritardata dalla timidezza dell’incendiatore, ed in qual modo fuggirono i colpevoli sopra barca verso Ponza o Sicilia. Rivelò nomi, tempi, particolarità; mescolò cose false alle vere; incolpò un figlio assente e sicuro in Palermo; ma giorni appresso, non più lui in potere della polizia, non istraziato o minacciato, ma sol temendo che la promessa impunità non sarebbe attenuta se tutto non rivelasse, accusò i due figliuoli carcerati con seco e sopra i quali pendeva la scure della giustizia, Ma quell’accusa, scritta di pugno dell’empio padre, gli fu resa dal compilatore del processo; e se del fatto si ha contezza si debbe al Viscardi stesso, che nel dibattimento, rimproverato di alcun suo mendacio, egli in argomento di sincerità citando il foglio, lo fe’ palese al tribunale ed al pubblico.
Sulle tracce delle rivelazioni di lui, e sopra altri documenti scoperti per industria degl’inquisitori, compilato il processo in pubblico dibattimento, furono condannati a morte due complici, l’uno de’ quali figlio del Viscardi. Mantenuta al padre la promessa, visse infamemente breve scorcio di vita; ed alla occasione di quel giudizio si scoprì che nel 1799 egli aveva tentato l’avvelenamento del pane che amministravasi alle schiere francesi; e che nel 1800 se ne fece vanto, e dimandò premio del servigio al governo che succedè alla repubblica. Benchè il giudizio per la rovina del palaggio fosse pubblico e stampato il processo, alcuni dissero, altri credettero ingiusta la condanna: essendo condizione de’ potenti far sospetta, se a loro pro, la giustizia.
XLII. Caduti con la stirpe gli ordini cavallereschi de’ Borboni, fu instituito, ad esempio della Legion d’onore di Francia, l’ordine reale delle due Sicilie, che aveva per fregio una stella a cinque raggi color rubino, in mezzo alla quale da una faccia l’arma di Napoli e ’l motto Renovata Patria, dall’altra la effigie del re con lo scritto Joseph Napoleo Siciliarum rex instituit,' sormontata da un’aquila d’oro appesa a nastro turchino. N’era il re gran maestro, cui succedevano cinquanta dignitarii, cento commendatori, cinquecento cavalieri. Il gran maestro nel consiglio dell’ordine concedeva le nomine o gli avanzamenti per virtù militari, per pubblici servizii, per ogni merito o talento, al generale, al soldato, al dotto, al principe, all’artiere; e perciò seguendo la civiltà nuova, si creavano le sociali distinzioni dal seno della eguaglianza. Ne furono fregiati i primi uffiziali della corte e della milizia, i più celebri artisti, i più sapienti del reame, i più grandi tra’ nobili; e si riserbò buon numero di croci per i futuri servigi. Il merito già noto delle prime persone decorate diè pregio a quell’Ordine nuovo, e dipoi l’Ordine diede pregio alle nuove persone: così viziosi essendo i circoli della vanità.
XLII. Già da due anni l’esercito francese era nel regno e tutte le province obbedivano al nuovo re, fuorchè Reggio, Scilla ed alcuni paesi dell’ultima Calabria soggetti a Borboniani e agli Inglesi. Le città di Seminara e Rosarno con la vasta pianura sino a Nicòtera, non presidiate da quelli o questi, erano più afflitte delle terre soggiogate; perocchè servivano di campo alle battaglie de’ due eserciti, che ordinandosi a guerra chetamente nelle proprie linee, venivano improvviso ad assaltarsi. Così ne’ piani di Seminara sboccò l’oste guidata dal principe di Philipstadt, che forte di numero ed impetuosa per prima mossa, respinse perditori i Francesi a Monteleone ed accampò a Mileto. Ma il general Regnier, radunate le squadre, riassaltò il campo, lo disfece, fugò il nemico sino a Reggio, e ritornò a’ suoi posti, non avendo forze bastevoli a mantener quelle nuove terre e a cingere di assedio la città di Scilla che gl’Inglesi guardavano.
Afforzatosi al cominciare di febbrajo con nuovi reggimenti andò contro Reggio, e poichè parte di strada che mena alla città costeggia il mare, ivi quattro navi inglesi, remando vicino al lido, facendo fuoco vivissimo di cannoni, uccidendo soldati francesi, rompendone le file, tardavano il cammino all’esercito. In quel mezzo volle fortuna che si alzasse temporale di mare, sì che i legni tenevansi a stento fra le procelle; ma tanto importava il combattere che non si slontanavano dal lido, benchè arte di navigare il consigliasse, nè cessavano di tirar colpi, che per i moti delle onde raramente offendevano.
Crebbe il vento; ciò che sino allora era stato zelo di guerra diventò necessità, dappoichè le navi, furiosamente spinte verso terra, non più potevano girar largo; e le ciurme intendevano non più a combattere, ma a salvarsi. A que’ pericoli veduti da Messina, dove stava sull’àncore l’armata inglese, il capitano Glaston comandante di un vascello imbarcò sopra legno corridore, un brick, veleggiò verso Calabria. I Francesi osservando gl’impedimenti delle piccole navi e l’altra più grande oramai vicino a soccorrerle, gittansi a nuoto, pervengono, portando in bocca la spada, a que’ legni, ed ivi si uncinano con la sinistra mano al bordo, con la destra combattono, si rampicano co’ piedi, trionfano; e così quattro navi armate di cannoni sono predate da fanti nudi. Il brick, cacciato sulla costa di Calabria da furioso libeccio e dalle correnti, si arrena; i Francesi, vedendolo in quello stato, corrono al vicino lido, altri mettonsi a nuoto; si combatte due ore; muore il capitano; il legno che aveva quattordici cannoni, non pochi soldati e numerosa ciurma, si arrende.
XLIV. Per questa vittoria, nella quale combatterono col valor francese i venti e la fortuna, inanimito il vincitore, debellò nel giorno istesso la città di Reggio, spingendo il presidio di ottocento soldati nel piccolo castello che al dìi seguente si arrese. E subito Regnier, voltate a Scilla le schiere, le artiglierie, gli instrumenti di guerra, il dì 4 di febbrajo ne cominciò l’assedio che ai 17 terminò, ritirandosi gl’Inglesi sopra le preparate navi per una scala coperta, intagliata con gran fatica nel sasso vivo ne’ diciotto mesi che colà dominarono. I Francesi trovarono il castello vuoto d’uomini e guasto men dalla guerra che dalla prudenza e dal dispetto de’ fugati presidii. E poichè nessun fatto memorabile dell’assedio mi trattiene su quel subietto, finirò notando che dopo la espugnazione di Reggio e di Scilla non rimase alla bandiera borbonica nel reame alcuna sede, nè all’antico re alcun segno di dominio o di speranza.
XLV. Ebbe il regno nuove leggi, le stesse di Francia componenti il codice Napoleone, così chiamato perchè Napoleone primo consolo e legislatore gli aveva dato a comune gloria il suo nome; erano le civili, le penali, di commercio e di procedimento criminale e civile. Il codice civile raccogliendo le dottrine legislative della sapienza antica, greca e romana, e della moderna europea, dividevasi nelle due parti cui si annodano le sociali relazioni, persone e cose; di ogni parte un principio vero ed eterno reggeva tutte le leggi di quel titolo ad esempio della natura, che da cause semplici e sole deriva innumerevoli effetti. Del titolo delle persone era principio il matrimonio, patto civile in alcuni codici e perciò variabile come ogni altra civile transazione, sacramento in altri ed immutabile come cosa di Dio; ma nel codice Napoleone era vincolo naturale, insito all’umana specie, non fortuito, non fugace, ma pensato da conjugi e durevole. Era principio in quanto alle cose la eguaglianza fra le persone nella quale risiede la giustizia più stretto o necessaria, non potendo essere ingiuste le leggi civili che agguagliano veramente i debiti e le ragioni de’ cittadini.
XLVI. Delle due parti del codice di commercio, la esterna mancava, la interna fu diligentemente ordinata, le frodi antivedute o punite, le perdite provenienti da avversa fortuna soccorse. Sembrerebbero eccedenti le regole o legami imposti ai commercianti, ma il lungo uso degl’inganni, la rilassatezza delle antiche ordinanze, l’avarizia crescente, la corruttela de’ tempi esigevano quel rigore. Speriamo giorno in cui sieno soperchie quelle catene, che ora per vergogna del secolo appena bastano. Concetto sapientissimo del codice fu la instituzione de’ tribunali di commercio, giudici i commercianti, eletti da commercianti, e mutabili a tempo; giury di commercio. La parte esterna del codice, la internazionale, trasandata per furor di guerra e di sdegno con la Inghilterra, speravasi nella pace.
XLVII. Il codice penale, comunque fosse in Francia, non era per noi adatto e giusto; perocchè comportabile e forse lodevole ad un popolo è prender leggi civili di altro popolo, essendo oramai comuni in Europa i sociali artifiziati interessi. Ma le cagioni delle leggi penali trovandosi nella natura fisica e morale delle società, ed essendo vario il sentire, vario il soffrire delle varie genti, non è uguale a tutti gli uomini la colpa ne’ misfatti, la pazienza al dolore; perciò i castighi adatti per gli uni sono per altri o soperchi o leggeri. E difatti erano per noi difettive le scale de’ delitti e delle pene, aspri soperchiamente i supplizii, prodigato quello di morte, tali dovendo essere nella Francia gli effetti del troppo rivolgersi per venti anni e del morir troppo; così come conservata per alcuni misfatti la confiscazione, si puniva de’ delitti degli avi la innocente ignota posterità, ingiustizia pur derivata dalle abitudini della rivoluzione, ossia dall’avarizia e cupidigia di lei, e dall’aver visto a migliaja patrimonii spogliati, opulenze disfatte, e figliuoli poverissimi di ricchi padri. Era serbato l’uso per parecchi casi di governo di lasciare in custodia della polizia l’uomo assoluto da’ magistrati, necessità o miseria di tempi, subietto di passaggera ordinanza non di codice. Si abusava la pena della berlina, forse giusta dove è comune fra cittadini il senso di vergogna, ingiustissima tra noi dove la vergogna è nulla per guasti costumi, 0 troppa per natura come provano due fatti che narrerò.
Per ladronecci fu condannato alla berlina ed a’ ferri un uomo della più bassa plebe, di persona sconcia oltre ogni credere e goffa, e per quella bruttezza molti del popolo bellandolo alla berlina lo motteggiavano, ed egli sfrontatissimo e pronto rispondeva a’ motteggi, confondeva i beffatori, ridea con essi, convertiva in giuoco e scena il supplizio.
E al tempo stesso, in altra parte del regno, avveniva caso contrario e miserevole. Una donzella di onorata famiglia e di padre rigidissimo, presa di amore per ardito giovane e incintasi, vergognosa più che onesta procurò di abortire; ma da vigorosa salute impedito l’effetto, chiusa in casa per nove mesi, tristamente visse, ajutata dalle cure pietose di una zia. Sgravatasi (madre infelice e snatorata) tollerò che il figliuolo fosse esposto in una notte d’inverno su la via dove miseramente morì; sì che avutasi del delitto contezza e pruova, fu condannata a lunga prigionia ed al supplicio, secondo il codice, della berlina. Nel giorno fatale, la infelice con infame corteggio per le strade più popolose della sua patria, preceduta dal banditore che divolgava il misfatto, giunta al luogo dello spettacolo fu trattenuta dal carnefice che le impose al capo il cartello indicativo del nome, con l’aggiunto «uccise il figlio.» Ed allora furono viste tremar tutte le dilicate membra, e ad un tratto arrestarsi, così che lo spietato assistente credendola ributtante al castigo, la minacciò e la spingeva; ma quella cadde bocconi alla scala del palco, perchè soffocata dalla vergogna era morta. Non dirò chi ella fosse acciò del tanto desiderato mistero goda almeno il suo nome.
XLVIII. Il codice di procedimento criminale, non legato come il penale alle condizioni di luogo e di tempo, ma tenendo principio dall’umano giudizio e dalla ragione, è immutabile, eterno. Si vorrebbero codici penali quanti sono i popoli e le età, ma un sol codice di procedimento (purchè ragionevole) basterebbe per sempre a tutte le genti. Non fu dunque per noi errore o pericolo il prenderlo di altra nazione, ima sventuratamente era imperfetto. Bonaparte, primo console, tollerò in Francia la instituzione de’ giurati, imperatore, ne vietò a noi l’esercizio, e Giuseppe per necessaria obbedienza non ne fece motto nel nuovo codice.
Altro difetto era ne’ magistrati di eccezione, tribunali di polizia, corti speciali e prevostali, commissioni militari. La falsa ed iniqua dottrina che il criminal processo è l’agone dove combattono la legge e l’accusato, ha prodotto e produce danni gravissimi alla società; perciocchè di quella immagine sono effetti necessarii togliere nell’ira armi al nemico, aggiungerne alla propria parte, e ne’ misfatti più odiosi alla società ed al governo scemar difese agli accusati, accrescere agli accusatori mezzi di offesa. Questa è l’origine de’ tribunali di eccezione. Ma se il processo fosse creduto, qual è, il sillogismo per discoprire il delitto, non cercherebbonsi modi varii, lunghi o brevi di argomentare; chè siccome in prova di certezza un sol ragionamento è il più giusto, tal nella scienza criminale un solo è il vero fra tutti i possibili procedimenti. Numerati gli errori del nostro codice con animo più allegro ne discorro i pregi.
Principal pregio il pubblico dibattimento, mezzo di giustizia più giovevole del giurato, che è mezzo di civiltà, avvegnachè più della civiltà la giustizia è il bisogno de’ popoli. E pregi gli effetti necessarii di questo atto istesso, la pubblicità dei giudizii, il convincimento morale ne’ giudici, il ritegno alle inique sentenze dal grido pubblico; perciocchè tra Napoletani sospettosi e torbidi, quanto scarsi di animo e di politica virtù, una (non già le mille che i moderni novatori immaginarono) è la guarantigia della civile libertà, la manifestazione di ogni opera del governo.
Ed altro non minore pregio del codice fu quella parte della giustizia che puniva i piccoli falli, ingiurie, batltture leggiere, violenze al pudore; innanzi tollerate perchè il duro governo vicereale, e la feudalità, e la divisione di ceti, avevano abbiettata la plebe. Ma l’amor di eguaglianza fervido a’ giorni nostri, l’abolita feudalità, e re nuovi innalzati al trono di mezzo al popolo, vietavano che quelle soperchiatrici costumanze reggessero. Intendevano ad estirparle le leggi dette correzionali, specie di censura troppo severa ne’ tempi civili, mite e santissima ne’ corrotti.
XLIX. Del procedimento civile, che per brevità unisco alla legge costitutiva de’ magistrati, erano difetti avaro spirito di finanziero guadagno, e troppa mole di atti e corso troppo lungo di tempi giuridici; ed erano pregi la competenza assicurata e sollecita, i mezzi di giustizia locali, la proprietà accertata da un registro pubblico degli atti civili e delle ipoteche, la scala de’ giudizii non interrotta, la indipendenza de’ magistrati, la instituzione di un magistrato supremo detto corte di cassazione, sostenitore e garante delle leggi, frutto delle novelle scienze filosofiche e legislative, documento per sè solo dell’altezza del nostro secolo sopra i passati.
L. Al tempo stesso si ordinarono i tribunali per l’amministrazione, e furono, un consiglio d’intendenza per ogni provincia, magistrato di prima istanza nelle cause amministrative; la regia corte de’ conti, di revisione a’ consigli d’intendenza per alcune liti, e di primo giudizio per alcune altre; il consiglio di stato, di appello ai consigli d’intendenza ed alla corte de’ conti. Le regole di giustizia amministrativa erano le comuni del codice, il procedimento diverso, tendente a favorire le persone e le cose dell’amministrazione; e quindi per natura e difetti erano magistrati di eccezione, tollerabili in uno stato nuovo perchè moltiplicavano gli strumenti operosi de’ non ben noti metodi governativi, non comportabili agli stati già formati; provvedimenti però passeggieri indegni del nome e del decoro di codice o di legge. Intanto l’arbitrio piacque a governanti; o sebbene il napoleonico reggimento si afforzasse de’ nuovi interessi e degli usi del popolo, le dispotiche ordinanze dell’amministrazione non mutavano.
LI. Compiuti, pubblicati, messi in pratica gli enunciati codici, si vide nel regno spettacolo magnifico; magistrato in ogni comunità, magistrati maggiori nel circondario e nella provincia; cominciare le cause sopra luogo e terminarle, i giudizii e i giudici star sempre a fianco degl’interessi e de’ bisogni del popolo; dismessi gli usi assoluti, gli scrivani sbanditi, vietati gl’inganni e i tormenti agli accusati e a’ testimonii. E così la immensa congerie degli errori e vizii dell’antica giurisprudenza, frutto di diciotto secoli d’italiane miserie, fra sconvolgimenti politici, domestiche guerre, desolatrici conquiste, invasioni di barbare genti, superbia de grandi, servitù de’ popoli ed imperii lontani spensierati di noi, in breve tempo abbattuta e scomparsa. Dopo di che a’ nostri sguardi cambiò di aspetto la legge, atto già di potenza, ora di ragione; prima imperava, oggi governa; voleva l’obbedienza, ora cerca la persuasione e ’l favore de’ popoli. Strumento perciò ne’ passati tempi (quando fosse perfetta) di quieto e di giustizia; negli avvenire, di civiltà.