Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VI/Capo II
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CAPO SECONDO.
Arrivo in Napoli dell’esercito francese; poi di Giuseppe Bonaparte. Fatti varii di guerra e di regno.
VII. Fuggente per mare il re, In regina e la famiglia, i principi Francesco e Leopoldo ritirandosi coll’esercito per le Calabrie, una reggenza in Napoli timida ed inesperta, il regno aperto alle schiere nemiche, la città non difesa, i partigiani del re fuggitivi o nascosti, la plebaglia ondeggiante tra l’avidità delle rapine e ’l timor del castigo, gli onesti in arme a difesa della propria vita ed a sostegno degli ordini della città: tal era lo stato del regno ai primi di febbrajo del 1806; nel qual tempo cinquantamila Francesi, guidati dal maresciallo Massena, conducevano al trono Giuseppe Bonaparte col nome di luogotenente dell’imperatore Napoleone. Quello esercito, superata senza contrasto ta frontiera, avanzando per le vie di Aquila, Ceperano e Fondi, intimò arrendersi ai comandanti di Civitella, Pescara, Capua e Gaeta: che non però si arresero, benchè le consuete trascuratezze di guerra, e non so quali speranze di pace, avessero ritardato i provvedimenti di assedio. Intanto l’esercito procedeva. La città di Napoli aveva in quel tempo vergognoso privilegio, per far sicura se stessa rassegnar le chiavi al vincitore giunto in Aversa, e patteggiare ignobile passeggiera quiete a prezzo di durevole servitù. Perciò la paurosa reggenza concordò per ambasciatori, come ho narrato nel precedente libro, rimettere al nemico le fortezze, i castelli, i luoghi fortificati trasgredendo il comando lasciatole dal re Ferdinando di non mai cedere (qualunque fosse le estremità dei casi) le fortezze del regno. Dopo L’accordo Peseara e Capua furono date ai Francesi; Civitella che per virtù del comandante colonnello Woed ricusò di obbedire, assediata pochi giorni, bloccata tre mesi, per estrema povertà di vettovaglie si arrese, e fu da’ vincitori smurata. Gaeta si apprestò alle difese, perciocchè il principe Philipstadt, che teneva il governo, rispose alla reggenza ch’egli disobbediva al comando di lei, per comandi maggiori e onor di guerra.
VIII. A’ 14 febbrajo le prime schiere francesi occuparono la città, ma l’ingresso preparato, magnifico per suoni militari, vesti ed insegne, fu guasto da stemperata pioggia. Il qual temporale sforzò a tornare nel porto sette navi, che il giorno innanzi avevano sciolto per la Sicilia, cariche di ricchezze e di persone, che per paurosa coscienza, o partigiani de Borboni, o timidi o in altro modo miseri ed ambiziosi spatriavano, La mala fama di alcuni, sventura di tutti, fece che la polizia avutili in potere li chiudesse in carcere.
In quel giorno istesso il marchese Vanni morì di volontaria morte. Egli di natali onesti, tristamente ambizioso, delatore nelle cause di stato, e di poi barbaro inquisitore ed iniquo giudice, avendo tratto dal male oprare potestà, titoli e doni, poi abbandono e dispregio, bramò, allo avvicinarsi dell’esercito francese, fuggire in Sicilia; e perciò ricordando alla regina i suoi servigi, chiese su le regie navi un ricovero da colei negatogli: cosicchè dolente della ingratitudine, tediato della vita, aspettò che il nemico giugnesse in città, scrisse il seguente foglio, e si uccise. «L’ingratitudine di una corte perfida, l’avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo, mi han determinato a togliermi la vita che ormai mi è di peso. Il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori di stato.» Onesti sensi che darebbero buona fama a chi gli scrisse, se non venissero da disperato consiglio!
La descritta morte del Vanni, m’invita a riferire due altri casi. Guidobaldi (le cui nequizie ho rammentato nel precedente libro), depresso all’entrar del Francesi, maltrattato, prigione, ottenne in mercè di preghiere e per pietà di canuta vecchiezza vivere confinato in un piccolo villaggio degli Abruzzi ch’era sua patria; ma non ne aveva le dolcezze, perchè abbandonato sin dall’infanzia; ed erano altrove famiglia, magione, ricchezze, rimembranze di vita: poco tempo vi dimorò come in carcere, e disperatamente mori.
Più tristo del Guidobaldi era stato nel 1799 il ferocissimo Speciale. Viveva in Sicilia sua patria, dispregiato; allorchè da’ disordini della coscienza turbato l’intelletto, divenne maniaco, furioso, soffrì tutti i dolori e le ingiurie di quel misero stato: morì, e tanto odio pubblico lo accompagnò nel sepolcro che i suoi congiunti, vergognando, nascondevano il pianto e non osarono vestirsi a bruno. I cieli han messo sulla terra due giudici presenti delle umane azioni, la coscienza e la istoria.
IX. Il dì 15 dello stesso febbrajo, entrato in Napoli Giuseppe Bonaparte ebbe pubblica riverenza, quale convenivasi a luogotenente di monarca potentissimo ed a principe che la fama divolgava re di quel regno. Ed oltre all’obbedienza ed alle officiosità di magistrati, prescritte dalla reggenza, egli ottenne dal popolo accoglienze grandi e volontarie, che derivavano non da gratitudine perchè lui nuovo, nè da speranze perchè conquistatore, ma dagl’incanti della fortuna e della potenza. Andò ad abitare la reggia, tutto re fuorchè del nome, chiamandosi negli editti principe francese, grande elettore dell’impero, luogotenente dell’imperatore, comandante in capo l’armata di Napoli.
Primo editto fu il proclama dell’imperatore Bonaparte, che dal campo di Schonbrunn, altiero per vittoria, caldo di vendetta, diceva: «Soldati. In dieci anni io tutto ho fatto per serbare il re di Napoli, egli tutto ha fatto per perdersi.
Dopo le battaglie di Dego, di Mondovi, di Lodi, egli non poteva oppormi che debolissima resistenza: io confidando nelle suo promesse gli fui generoso.
La seconda confederazione contro la Francia fu rotta in Marengo; il re di Napoli, che prima avea mossa quella ingiusta guerra, rimasto senza alleati e senza difese, abbandonato ne’ trattati di Luneville, mi si raccomandò benchè nemico, ed io gli perdonai la seconda volta.
Son pochi mesi appena, stando voi alle porte di Napoli, io che sospettava nuovi tradimenti di quella corte, potea prevenirli vendicando gli antichi; ma fui generoso, riconobbi la neutralità di Napoli; v’imposi di sgomberare quel regno, e per la terza volta la casa de’ Borboni fu confermata sul trono e salvata.
Perdoneremo la quarta volta? Confideremo di nuovo in una corte senza fede, senza onore, senza senno? No, no! La casa di Napoli ha cessato di regnare; la sua esistenza è incompatibile col riposo di Europa e con l’onore della mia corona.
Soldati, marciate, subissate ne’ flutti, se avranno l’animo di attendervi, i deboli battaglioni de’ tiranni de mari. Dimostrate al mondo in qual modo noi puniamo le spergiurate fedi. Affrettatevi ad avvisarmi che tutta Italia è governata da leggi mie o de’ miei collegati; che il paese più bello della terra è alfin libero del giogo impostogli da’ più perfidi degli uomini; che la santità de’ trattati è vendicata, e sono placate le ombre de’ valorosi miei soldati, reduci dall’Egitto, scampati da’ pericoli del mare, de’ deserti, delle battaglie, trucidati empiamente ne’ porti della Sicilia. . Soldati, mio fratello è con voi, depositario de’ miei pensieri e della mia autorità: io fido in lui, fidateci voi.»
Lo stile del foglio e la potenza di chi lo scrisse rassicuravano i Napoletani contro le borboniche vendette ricordate dal 99.
X. Prima cura del principe Giuseppe fu il perseguire l’esercito borbonico che ritiravasi per le Calabrie; imperciocchè, avendo facilmente occupate le isole di Capri, Procida ed Ischia, molti castelli, e tutte le fortezze, fuorchè Gaeta, sembravagli che poco altro gli abbisognasse per cacciare affatto dal regno la bandiera dell’antico dominio e compiere la conquista. Diecimila Francesi comandati dal general Regnier inseguivano quattordicimila Napoletani, obbedienti al general Damas, co’ quali stavano i principi reali Francesco e Leopoldo, a danno più che a vantaggio della guerra; essendo i principi e i re, se combattenti, giovevole esempio agli eserciti, ma intoppo e scoramento se ognora lontani dalle fatiche e dai pericoli. I Napoletani attendarono a Campotanese, vasta pianura in mezzo a’ monti, alla quale sono ingresso ed uscita due valli malagevoli e lunghe. I popoli della Calabria erano allora schivi all’invito di parteggiare per i Borboni; e qual fosse in quel tempo l’esercito napoletano, l’ho discorso nelle precedenti pagine.
L’oste francese, che aveva rotto in Campestrino e Lagonegro poche schiere guidate dal colonnello Sciarpa, scacciò da Rotonda uno squadrone napoletano, messo a vedetta; i fuggiaschi avvisarono le schiere di Campotanese levarsi in arme. Le quali ordinate in due linee, mentre intendevano a difendere la stretta, videro sopra i monti (mal guardati, perchè ereduti inaccessibili), discendere i Francesi rapidamente verso il piano; intimorirono, si scomposero, e viepiù il nemico appressandosi e cominciando il fuoco, si ritiravano confusamente. Ma la strettezza del luogo, i carreggi, la calca ingombrando l’uscita, perchè salvaronsi alla spicciolata, pochi morirono, l’esercito fu prigione. I fuggitivi e i due principi che di non breve cammino precedevano la ritirata, raccogliendosi ne’ porti e nelle spiagge dell’ultima Calabria, imbarcarono per Sicilia. I Francesi soggettarono tutte quelle terre, fuorchè Maratea, Amantea e Scilla, forti di mura e di armi.
XI. Mentre l’esercito combatteva in Calabria, Giuseppe in Napoli ordinava il governo. Prescrisse che durassero le antiche leggi, gli offizii, gli offiziali; e promettendo migliorar lo stato senza scossa dissipò i sospetti, blandì i dolori, svegliò le speranze e le ambizioni. In quel tempo medesimo compose il novello ministero di sei ministri, quattro Napoletani, due Francesi; e de’ primi, tre nobili, commendator Pignatelli, principe di Bisignano, duca di Cassano; e ’l quarto, magistrato, Michelangelo Cianciulli, tutti onesti per fama ed opere, non mai seguaci di troppo libere dottrine, sempre amanti di monarchia. De due Francesi, Miot, ministro per la guerra, aveva rinomanza di moderato; Saliceti, ministro per la polizia, di giacobino. I patriotti non favoriti ne’ primi impieghi, mormoravano; ma Saliceti, con le promesse e con la pompa della sua potenza, gli acchetò.
Si formò un reggimento di fanti ed appresso altri tre: e basti averlo accennato in questo libro, riserbandomi di trattar le cose militari de’ due re francesi nel regno di Gioacchino, essendo quello il luogo istorico. Si ordinò la polizia; delle facoltà del ministro, quella di arrestare e ritenere nelle prigioni, per prudenza di alta polizia, le persone accusate di delitti di stato, faceva offesa alla giustizia, spavento alla innocenza; ed era asprezza di governo nuovo, necessaria forse, ma terribile. Provvedendo agli offizii vacanti prevalsero nella scelta de’ giudiziari ed amministrativi i servigi prestati innanzi allo stato; di quei di polizia le libere opinioni ed i patimenti sotto il passato re: ma per tutti si voleva buona fama ed onesta vita.
XII. Giuseppe andò a visitare le conquistate Calabrie , e da quei popoli ebbe applauso di obbedienza non di affetto; perciocchè il merito di lui non era da moltitudine, mancandogli grandezza di persona, viso audace, e dir sicuro, alto e facondo. Lui assente, i ministri lasciati al governo della città diedero destino a’ militari fatti prigioni in Campotanese ed in altre parti del regno, decretando: libertà a chi giurò fede al novello governo, premii a’ traditori, prigionia a’ pochi rimasti saldi al giuramento, giudizio per il solo general Rodio. Rodio nel 1799 parteggiò, come dissi, per i Borboni negli sconvolgimenti civili degli Abruzzi, e, fortunato, guadagnò regio favore, larghi doni e grado di brigadiere nei regali eserciti; ma lordò il nome con le infamie dell’anarchia. Quando poi nel 1804 le armi francesi, a castigo del re Ferdinando ed a sicurtà di sua fede, tenevano gli Abruzzi e le Puglie, Rodio, detto dal governo commissario civile in quelle province, servì con zelo, impedì molti danni, contrastò le rapaci voglie degli occupatori, e, come è costume de’ polenti, gli ebbe nemici. La primitiva sua mala fama e le recenti nimicizie furono motivi al processo.
Motivi, non colpe. Onde a pretesto accusato di aver sommosso i popoli alle spalle dell’esercito francese, una commissione militare, che fu la prima nel regno, tribunale terribile, inappellabile, lo dichiarò innocente; ma certi Francesi nemici a lui più superbi, e per nazionale vergogna due Napoletani di grado e nome, fingendo non so quale pericolo di stato, indussero il governo a sottoporre Rodio a novello giudizio. La seconda commissione lo dannò a morte, e per fino il modo del morire fu acerbo essendo stato archibugiato alle spalle. Così quel misero in dieci ore fu giudicato due volte, assoluto e condannato, libero e spento; ed aveva moglie, figliuoli, servigi e fama, La immanità spiacque a tutti, fu grande ed universale il terrore.
Ed indi a poco peggiorarono le nostre sorti. L’isola di Capri, mal guardata, fu dopo debole contrasto espugnata dagl’Inglesi, facendo prigioni i soldati che la guarnivano, ed uccidendo per castigo o mettendo in carcere quegl’isolani che inecauti, seguirono le parti francesi; l’isola fortificata e munita di numerosi presidii, divenuta ricovero di briganti, fucina e centro di politiche trame, venne governata dal colonnello Lowe, lo stesso che anni dopo fu rigido custode di Bonaparte in Sant’Elena. L’altra isola detta di Ponza fu in quel tempo medesimo presidiata di Siciliani retti dal principe di Canosa, che, nuovo allora, andò subitamente diffamato per opere pessime. Gaeta, afforzata di nuovi presidii minacciava il campo francese. Gli altri forti della Calabria, non ancora ceduti, ricoveravano borboniani in gran numero per restarvi a difesa o per uscirne a campeggiare e distruggere le terre possedute dal nemico. La regina di Sicilia mandava nel regno i campioni più conti del 99. E tante faci di civili discordie si facevano incendii a cagione dei corrotti costumi del popolo, de’ mali inerenti alla conquista, de’ vizii de’ conquistatori.
XIII. Così sconvolto era il reame quando Giuseppe fu nominato re delle due Sicilie. Il decreto dell’imperatore Napoleone, dato da Parigi il 30 marzo 1806, diceva: che egli, fatto per legittimo diritto di conquista signore de’ reami di Napoli e di Sicilia, vi nominava re Giuseppe Napoleone suo fratello. Indi regolava la discendenza, serbava nel territorio napoletano sei grandi feudi dell’impero, e nella finanza un milione di franchi (ducati duecentoquarantamila) di entrata annuale per gratificarne i più meritevoli dell’esercito. manteneva a Giuseppe il diritto di successione al trono di Francia, dichiarava la corona delle due Sicilie sempre divisa dalla francese e dalla italica. Giuseppe, avuto quel decreto in Reggio, luogo estremo delle Calabrie, volse frettoloso verso Napoli, e vi giunse agli 11 di maggio con corteggio di re, pomposo per gran lusso e per le fogge magnifiche di tre senatori francesi venuti ad ambasciata per riverire in nome del senato di Francia il nuovo monarca. Ma il popolo a tante apparenze di grandezza restò muto, perchè il nome regio niente aggiungeva alla già nota possanza, e le domestiche torbidezze offuscavano lo splendore e minacciavano la sicurezza del trono.
XIV. Non bastando le schiere francesi a mantenere le terre occupate, debellar le nemiche, sedare i tumulti e le ribellioni, respingere gli assalti degl’Inglesi e del re di Sicilia, intese il governo di Napoli ad accrescere la forza dell’armi per fatica e per senno. Divise l’esercito in tre squadre. Presidiar con l’una le fortezze, la città, i luoghi maggiori del regno; correre con l’altra le province, stringere con la terza gli assedii; mostrar la polizia vigilante, arbitraria, severa, potentissima; far buone leggi, promettere futura prosperità, giovare i partigiani suoi e ingrandirne il numero: tali furono i provvedimenti di stato.
L’assedio di Gaeta lentamente avanzava, dovendo gli assalitori coprirsi dalle offese dei bastioni e delle navi che scorrendo lungo il lito, battevano di fianco il campo e gli approcci. E nella fortezza cresceva il numero de’ soldati, abbondavano le provvigioni di guerra e di alimento, si scambiavano con nuove schiere le affaticate o inferme, era la ritirata sicura sopra i vascelli; e perciò quel presidio non pativa i travagli ordinarii degli assedii che sono scarsezza di vitto e di riposo, trascuranza di salute e di vita. Aggiungeva forza a quelle genti il saldo ingegno ed il valore del principe di Philipstadt supremo nella fortezza; e se all’animo di guerra era uguale il sapere, più lunghe e mortali sarieno state le fatiche degli oppugnatori.
Le squadre francesi percorrendo le ribellate o ribellanti province, portavano guerra, danni e terrore; tanto più che i partigiani del novello stato mossi da zelo e talvolta da malvage passioni, denunziando i fazionarii della contraria parte, ne producevano l’esterminio. La schiera che dovea soggettare la Calabria ebbe carico di espugnar Maratea, città murata, che in quel tempo racchiudeva gran numero di borboniani, ivi accolti perchè il luogo alpestre fosse ajuto delle armi e facile la ritirata sopra le navi nel sottoposto mare di Policastro. Ma non ristando perciò dagli assalti l’abile condottiero de’ Francesi, generale Lamarque, tre giorni combatterono, questi con maggior arte ed ordini, quegli con maggior numero, gli uni e gli altri con valore uguale. Più volte la vittoria ondeggiò, sì che i borboniani il primo giorno furono in procinto di abbandonare la città, i Francesi nel secondo di levare il campo; ma nel terzo la discordia, facile ad accendersi fra popolari adunanze, trasse gli assediati chi a fuggire, chi a repararsi sulle navi, chi a chiudersi nella cittadella. Presa la città e messa a sacco, arresa la cittadella nel seguente giorno, furono le morti mumerose e crudeli; tanto guasto essendo il costume del secolo che le pratiche di umanità serbate in guerra, non si credono dovute a popoli armati, benchè fossero quelle armi sacre e legittime.
Disfatta Maratea e lasciata alle sue miserie, i Francesi avanzando nella Calabria, soggettando tutte le terre sino a Cosenza, cinsero di assedio Amantea. Ma tanta nemicizia scoppiò contr essi ne’ popoli, che al primo apparire di quelle armi i cittadini disertavano le città, i contadini le ville, e girando per sentieri nascosti si adunavano armati alle spalle della colonna a fin di combattere le ultime file ed opprimere quei soldati che stanchi o infermi se ne scostavano. Saputi dal re di Sicilia quei moti, compose schiera di partigiani e soldati che disbarcando presso a Reggio espugnarono la città, strinsero di assedio Scilla, datasi mesi prima senza contrasto a’ Francesi, e proseguivano circondati dalla foga del popolo verso Monteleone. Mentre il generale Steward, uscito dai porti della Sicilia con seimila fanti e cavalieri inglesi, fornito di abbondanti artiglierie di marina, ajutato dalle ciurme, scese nel golfo di Sant’Eufemia presso a Nicastro, e poco innanzi alla riva pose il campo fortificato con potenti e coperte batterie di cannoni, ed avendo provvisto per le avversità di fortuna il ritorno alle navi. Ma non moveva per non perdere i vantaggi del luogo, e perchè bastava il grido a più concitare quelle genti contro i Francesi.
Il generale Regnier, comandante nelle Calabrie, vedendo il doppio assalto di Siciliani e d’Inglesi, raccolse i suoi (seimila soldati) e gli accampò in Maida, lungi sette miglia dalle tende nemiche, in luogo eminente e munito. Ma le genti sollevate intorno al campo predavano tuttodì le vettovaglie, uccidevano i soldati smarriti, peggioravano le condizioni di vita e di sicurezza; e l’oste inglese messa su le arene infuocate di quel lito deserto, percossa nel giorno da’ raggi cocentissimi del sol di luglio, respirando nella notte l’aure insalubri de’ vicini paludi, languiva, infermava, era in procinto di abbandonar l’impresa. Quando Regnier, avido di vendetta, assaltò il campo; egli che in Egitto combattendo contro Steward fu sventurato, sperava ristoro di fortuna in Calabria.
Ordinate le schiere in due linee, marciò parallelamente all’ordine di battaglia degl’Inglesi, formati e fermi innanzi al campo volendo (ei diceva) sospingerli nel mare confusamente sì che a loro mancasse l’ajuto delle navi. Ma queste, vedendo a poca distanza gli assalitori e tollerandone le prime offese, smascherarono le batterie e cominciarono fuoco vivissimo di cannoni e archibugi. La prima linea francese fu dalle troppe morti disordinata, sì che un sol reggimento, ed era svizzero, perdè in pochi istanti mille e tredici soldati. Regnier rinnovando la battaglia, comandò il passaggio di linea, e che la cavalleria assaltasse le formidabili batterie; ma nè queste furono prese, nè la seconda pruova fu della prima più avventurosa. In meno di due ore le perdite francesi erano così grandi che il generale fece suonare a raccolta, e ridusse quattromila uomini appena sopra i monti di Nicastro e Tiriolo, serbando il possesso di Catanzaro ed aperto il cammino verso Cosenza. D’altra parte il generale Steward non inseguì l’esercito fuggitivo, ma traversando la estrema Calabria, concitando i popoli, lasciando presidii di luogo in luogo, afforzando l’assedio di Scilla, tornò in Messina colla maggior parte delle sue genti, superbo del secondo trionfo sopra Regnier.
XV. Le quali cose aggiungevano animo a’ nemici del governo, ed al governo sdegno e sospetto. Fatta potentissima la polizia, sursero in gran numero spiatori e delatori delle opere e dei pensieri altrui, e lo infame mestiero coprendosi dell’amore e zelo di patria seduceva per fin gli onesti; come nella opposta parte le immunità del brigantaggio si onoravano del nome di fedeltà per lo antico re. E così vizii e delitti, prendendo della virtù il linguaggio e l’aspetto, divenivano irreparabili, ed erano, come che turpissimi, dalle proprie sette ammirati.
Piene le prigioni di colpevoli e d’infelici, le commissioni militari non bastavano al tristo uffizio di giudicarli; le morti per condanne o comando non erano numerate nè numerabili; i modi del giustiziare varii, nuovi, terribili; e quasi non bastassero l’archibugio, la mannaja, il capestro, in Monteleone, città capo di provincia, fu appeso al muro uomo vivente e fatto morire lapidato dal popolo; ed in Lagonegro, non piccola città di Basilicata, io vidi un misero conficcato al palo con barbarie ottomana. Non erano prescritte dal governo quelle morti, ma tra gli abusi d’impero e la estrema servitù de’ vinti, il giudizio e la fantasia degli agenti regii avevano potenza di legge. E difatti quel martirio di palo fu comandato da un colonnello francese ch’era stato in Turchia viaggiatore o prigioniero.
Facendo pericolo il gran numero de’ carcerati, che spesso rompendo le catene uscivano feroci ed animati da vendetta e disperazione, la polizia se ne sgravava in due modi: o col pretesto di tradurli ad altro carcere, facendoli uccidere tra via; o mandandogli prigioni in Campiano, Fenestrelle ed altre più remote fortezze della Francia. AI primo modo immolaronsi i più oscuri, al secondo i più diffamati, come Duecce, Brandi, Palmieri, e parecchi altri. Il popolo per questi si allegrava; ma poco appresso crescendo l’arbiirio, relegandosi i meno tristi, i meno rei, poi gl’innocenti, la stolta pubblica gioja si cambiò in terrore.
Ma ristoriamo l’animo col racconto di savie leggi e di benefiche instituzioni; dovendo spesso, a mio mal grado, ritornare al subbietto del brigantaggio, che, spento non prima dell’anno 1810, lordò tutto il regno di Giuseppe, e non poca parte del regno di Gioacchino.