Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IX/Capo III
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CAPO TERZO.
Guerra intimata, poi mossa. L’esercito si discioglie. Ingresso in Napoli degli Austriaci.
XXVIII. Giunsero le nove, lungamente attese, del re, che riferiva il felice viaggio e la perfetta sanità; vantava i suoi cani che agli esperimenti di caccia superavano i bracchi dello imperator di Russia; nulla diceva degli affari di stato. Ma quelle lettere, benchè sceme di pubblico interesse e di regal decoro, furono partecipate al parlamento a fin di sedare i popolari sospetti dal troppo silenzio eccitati. Lettere del duca del Gallo rapportavano ch’egli, prima in Mantova, ora in Gorizia, stava impedito di portarsi al congresso; mentre notizie officiali o private accertavano che l’esercito tedesco moveva dalla linea del Po. Ridestato il timore di guerra, romoreggiando i partigiani della rivoluzione, il reggente adunò consiglio per la difesa; e surse nuova inaudita discordia fra i generali convocati, che, uniformi nelle opinioni, disputavano l’anteriorità del pensiero. Fu nominato capo del primo esercito il general Carascosa, il quale cruccioso delle patite accuse, o prudente dell’avvenire, con simulata modestia rifiutava; fu capo del secondo esercito il generale Guglielmo Pepe, che baldanzoso e confidente della vittoria richiedeva il comando; quegli a stento, questi voglioso accettò. Stavano col Carascosa i tenenti generali Ambrosio, Filangeri, Arcovito, Roccaromana, Pignatelli-Strongoli; con Pepe niun tenente generale, perocchè agli eguali dava tedio quel mal tolto impero. I due capi, l’uno verso l’altro liberi, penderebbero dal comando supremo del principe reggente, del quale era capo di stato-maggiore il generale Florestano Pepe. Il primo esercito difenderebbe la frontiera del Garigliano, il secondo gli Abruzzi. Ma questi eserciti stavano nei nomi, perciocchè nessuna schiera era in movimento, nè si provvedeva ai mezzi della guerra, vesti, vettovaglie, ospedali, aumento d’armi, aumento d’uomini. Si viveva alla spensierata.
L’ozio vergognoso fu scosso da nuove lettere del re, scritte il 28 gennajo da Laybach, pervenute al reggente il 9 febbrajo per mano del duca del Gallo, che il re aveva chiamato da Gorizia per istruirlo delle decisioni dei re congregati, e farlo portatore in Napoli dei suoi fogli, e consigliero al figlio, al parlamento, al popolo, di rassegnazione e di quiete. Gli aveva imposto di assistere al congresso di quei ministri come testimonio e nuncio della concordia de’ potentati, e del proponimento di mantenere le stabilite cose. Egli perciò vide il ministro d’Austria Metternich presedere ai ministri di Russia, Prussia, Francia, Inghilterra, e de’ principi italiani; vide tra quelli sedere e consultare, come ambasciatore del regno delle Sicilie, il principe Ruffo, lo stesso che dal re poco innanzi era stato casso d’impiego; udì che le tre monarchie della santa alleanza opererebbero colle armi, mentre assentiva la Francia, non contrastava l’Inghillerra, e i governi d’Italia applaudivano. Tali cose riferì a voce; le proprie parole del re erano:
«Figlio carissimo, voi ben conoscete i sentimenti che mi animano per la felicità de’ miei popoli, e i motivi pe’ quali solamente ho intrapreso ad onta della mia età e della stagione un così lungo e penoso viaggio. Ho riconosciuto che il nostro paese era minacciato da nuovi disastri, ed ho creduto perciò che nessuna considerazione dovesse impedirmi di fare il tentativo che mi veniva dettato da’ più sacri doveri.
Fin da’ miei primi abboccamenti con i sovrani, ed in seguito delle comunicazioni che mi furono fatte delle deliberazioni che hanno avuto luogo dalla parte dei gabinetti riuniti a Troppau, non mi è restato più dubbio alcuno sulla maniera colla quale le potenze giudicano gli avvenimenti accaduti in Napoli dal 2 luglio a questo giorno.
Le ho trovate irrevocabilmente determinate a a non ammettere lo stato di cose che è risultato da tali avvenimenti, nè ciò che potrebbe risultarne; e riguardarlo come incompatibile colla tranquillità del mio regno, e colla sicurezza degli stati vicini, ed a combatterlo piuttosto colla forza dell’armi, qualora la forza della persuasione non ne producesse la cessazione immediata.
Questa è la dichiarazione che tanto i sovrani quanto i plenipotenziarii rispettivi mi hanno fatto, ed alla quale nulla li può indurre a rinunciare.
È al di sopra del mio potere e credo di ogni possibilità umana di ottenere un altro risultato. Non vi è dunque incertezza alcuna sull’alternativa nella quale siamo messi, nè sull’unico mezzo che ci resta per preservare il mio regno dal flagello della guerra.
Nel caso che tale condizione, sulla quale i sovrani insistono, sia accettata, le misure che ne saranno la conseguenza non verranno regolate se non che colla mia intervenzione. Devo però avvertirvi che i monarchi esigono alcune garantie giudicate momentaneamente necessarie per assicurare la tranquillità degli stati vicini.
In quanto al sistema che deve succedere all’attuale stato di cose, i sovrani mi han fatto conoscere il punto di vista in generale sotto cui essi riguardano tal quistione.
Essi considerano come un oggetto della più alta importanza per la sicurezza e tranquillità degli stati vicini al mio regno, per conseguenza della Europa intera, le misure che adotterò per dare al mio governo la stabilità della quale ha bisogno, senza voler restringere la mia libertà nella scelta di queste misure. Essi desiderano sinceramente che circondato degli uomini più probi e i più savii fra i miei sudditi, io consulti i veri e permanenti interessi de’ miei popoli; senza perdere di vista quel che esige il mantenimento della pace generale, e che risulti dalle mie sollecitudini e da’ miei sforzi un sistema di governo atto a garentire per sempre il riposo e la prosperità del mio regno; e tale da render sicuri nel tempo stesso gli altri stati d’Italia, togliendo tutti quei motivi d’inquietudine che gli ultimi avvenimenti del nostro paese avevano loro cagionato.
È mio desiderio, figlio carissimo, che voi diate alla presente lettera tutta la pubblicità che deve avere, affinchè nessuno possa ingannarsi sulla pericolosa situazione nella quale ci troviamo. Se questa lettera produce l’effetto che mi permettono di aspettarne tanto la coscienza delle mie paterne intenzioni, quanto la fiducia nei vostri lumi e nel retto giudizio e lealtà de miei popoli, toccherà a voi a mantenere frattanto l’ordine pubblico, finchè io e possa farvi conoscere la mia volontà in una maniera più esplicita per il riordinamento dell’amministrazione.
Di tutto cuore intanto vi abbraccio, e benedicendovi mi confermo
Vostro affezionatissimo padre
Ferdinando.»
XXIX. Gli ambasciatori russo, austriaco, prussiano che attendevano il ritorno in Napoli del duca del Gallo, per notificare al reggente le dichiarazioni del congresso, uniti in quel giorno medesimo recandosi alla reggia, presentarono le lettere de’ loro sovrani. Benchè tre gli ambasciatori, uno parlò; e delle tre lettere uno era il dettato, ad argomento di stretta concordia. Diceva che la rivoluzione di Napoli, nelle prime secrete trame come ne’ mezzi e nel fine, offendeva i sistemi politici di Europa, minacciava la sicurtà dei governi d’Italia, perturbava la pace universale, nuoceva col fatto e coll’esempio, era incomportabile dai reggitori dei popoli. Ma per oprare maturamente, avendo consultato l’esperienza ed il senno del monarca di Napoli, era stata necessità stabilire che un esercito austriaco in prima linea, ed altro russo in riserva, marciassero sopra quel regno, amichevolmente se ritornava all’antica obbedienza, o da nemici se l’ostinato proponimento persisteva: e che per pace o per guerra vi rimarrebbe temporalmente un esercito tedesco, in sicurtà del re, delle leggi, della giustizia. Il reggente rispose che avrebbe consultato il parlamento. Indi a poco, nel giorno stesso, il ministro di Francia dichiarò al reggente che il suo governo aderiva alle decisioni del congresso di Laybach; ed il ministro inglese, che la Inghilterra starebbe neutrale nelle presenti contese.
XXX. Era vicino e grave il pericolo: il reggente convocò il parlamento straordinario, ed al quarto giorno, perocchè sollecitamente si adunarono i deputati, ne fece apertura. Adombrò le decisioni del congresso; disse che il duca del Gallo ne avrebbe riferite le particolarità; si promise fedele al voto del parlamento, alle sorti della nazione, agli antichi giuramenti; e pregando senno, maturità, fermezza, partì applaudito da’ deputati e dal popolo. Fu osservato che al rammentare i pericoli e i giuramenti uscì rotta la voce come improvviso turbamento di affetti la impedisse. Poscia il duca del Gallo narrò i trattenimenti e le violenze patite nel viaggio; le sue opere come che inutili per giungere in Laybach, come infine vi fu chiamato dal re, il comando ricevutone di assistere all’adunanza dei ministri, il divieto di nulla opporre ma udire, partire a volo, e qui persuadere la rassegnazione e la pace. Quel rapporto fu rapido, sincero, laudato. Quindi lesse la lettera del re al figlio, le lettere dei tre sovrani, le note degli ambasciatori d’Inghilterra e di Francia; palesò le conferenze tenute nella reggia la sera del 9, riferì le ostili disposizioni delle corti d’Italia; non diè consigli, non diè preghiere; disse che il ministero eseguirebbe i voleri del reggente perchè il reggente seconderebbe le decisioni del parlamento: disegnò i benefizii e le speranze, in guerra, in pace, che nascono dalla concordia dei poteri, e partì. Il popolo, al suo partire, alzò grido di guerra; ed il parlamento deliberò che il dimani tratterebbe di quel grave subbietto.
Nelle rimanenti ore del giorno, i cittadini a crocchi, i settarii alle loro adunanze consigliavano de’ pericoli e de’ rimedii. E benchè sempre nelle faccende di stato fossero varie le opinioni perchè vario il senno e varii gl’interessi degli uomini, pure nella presente strettezza due sole furono le sentenze, uno il giudizio. Altri diceva costretto il re, quel suo foglio sforzato, da che un principe cristiano che ha vanto di religioso non calpesterebbe le solenni promesse, ripetute fedi e i sacramenti. Altri più severi affermavano, la religione del re consistere nelle superstiziose dimostrazioni; bastando alla sua coscienza la eccezione mentale mentre giurava, l’assoluzione di un prete, un atto di pentimento, e rammentavano assai promesse mancate, trattati rotti, giuramenti spergiurati. Era per gli uni giusta la guerra, per gli altri necessaria. E così stavano le opinioni comuni, quando al vegnente giorno il parlamento si adunò fra genti spettatrici, molte ma tacite, imperciocchè la gravezza de’ casi e lo smarrimento comprimevano la usata popolare loquacità.
Primo a parlare fu il deputato Borrelli: a lui ed ai molti che succederono soprastava per forza di ragioni e di eloquenza i! discorso del Poerio. Dimostrò libere nel passato luglio le concessioni del re a’ sudditi; e quella regia libertà più certa, quando chetata la popolare allegrezza (allegrezza non ribellione) mancava per fin l’aspetto di politico sconvolgimento; e certissima quando il re sul vascello inglese ripeteva le sue promesse, certissima quando arrivato in Livorno, certissima quando al giungere in Laybach non protestava di patita forza. Per lo che dimostrò la ingiustizia delle decisioni di Laybach, la illegittimità delle straniere intervenzioni; per esse i pericoli della civiltà europea; e conchiuse, come gli altri oratori, per la guerra. Il parlamento, dichiarando il proprio re prigione di altri re, la sua libertà in paese straniero violentata, e forzato lo scritto, decretò la guerra. Queste dichiarazioni non vere, non credute, si fingevano per evitare la taccia e ‘l pericolo di ribelli. Un drappello di deputati presentò con indirizzo quel voto al reggente, che aderì; e quindi la guerra per grido e per legge fu promulgata. Animosa sentenza, che invaghì la maggior parte dei cittadini, per fino i più schivi e i più timidi. Il general Pepe ne fu lieto come di certo trionfo; ne furono lieti coloro ch’erano in maggior rischio, i settarii: e per tanto giubbilo, quasi mutata in virtù la temerità del picciol popolo, che allegro affronta gli eserciti dell’Europa, sembravano magnifiche le stesse avversità, le stesse rovine. Gli ambasciatori stranieri, gli osservatori della rivoluzione, gli uomini più sapienti crederono a quella ebbrezza. Il principe di Salerno, figlio del re. dimandò di servire nella guerra; e dimandarono lo stesso cimento il duca d’Ascoli vecchio amico del re, il giovine Partanna figliuolo della moglie del re, un Niscemi figlio del principe che stava col re in Laybach: e poi della casa e della corte i nomi più cari al monarca, più devoti della monarchia. Gli offerti servigi di ognuno furono accolti e graditi.
Ma importa discorrere qual fosse lo stato del regno in quel giorno di sicura guerra. Le speranze della rivoluzione mancate o cadenti, i rivoluzionarii delusi, la fiducia pubblica spenta, il popolo ricreduto, la carboneria tralignata, tradita da’ suoi, menata dagli astuti servi del potere; il re contrario, e fattosi guida alle squadre nemiche; il reggente, figlio, suddito, confidente del padre, capo dell’esercito napoletano; di questo esercito i generali svogliati, gli uffiziali disobbedienti, la soldatesca ribalda; povera la finanza, gl’imprestiti esterni mancati, gli interni lenti, difficili; grande il terrore delle armi nemiche, grandissimo delle vendette del re; sospetti scambievoli nell’esercito e nella nazione. E fra tanti pericoli la rivoluzione irrevocabile. La decisione del parlamento per la guerra. e la gioja pubblica erano stati effetti non del senno, non del valore, non delle speranze, non per fino della disperazione, bensì di quella vaghezza di somma lode che più alletta i caldi popoli delle Sicilie. Ma serenate le menti, i timorosi disperavano di salvezza, i pigri correvano colla fortuna, i contumaci gridavano indiscrete voci di libertà, e gli astuti secondarono il reggente per averlo capo nelle venture, o riparo nei precipizii. In tanta varietà di privati disegni, l’interesse pubblico si trasandava: erano le azioni quanti gli uomini; il ministero, il parlamento, l’esercito, la carboneria, i sostegni di quello stato, dispersi e deboli. Pure alcuni, o sapienti o esperti, ancora speravano nel tempo, negli apparati di resistenza, e nelle negoziazioni col nemico e col re. L’animo dei re contrarii era palese: odiavano meno gli effetti della rivoluzione di Napoli che le sue cause apparenti, la potenza di una setta, la ribellione dell’esercito, l’esempio della Spagna. Mutare i nomi, stringere le licenze, rinvigorire la monarchia, concordare per concessioni alcuna delle libertà strappate colla forza, parevano condizioni possibili di pace.
XXXI. O per veramente resistere, o per porre in mostra mezzi grandissimi di resistenza, bisognava fermare i disegni di quella guerra: perciò il reggente, convocati a consiglio i generali più chiari dell’esercito, disse loro: «La guerra che all’ultima nostra adunanza era dubbia, oggi è certa. Allora la varietà delle opinioni dava motivo e stimolo a rintracciare il vero; ma oggidì saria rovina, imperocchè per solo accordo di volontà e di opere è lecito a poco esercito ed a piccola nazione sperar di resistere ad eserciti dieci volte maggiori, e a nazioni sterminate. Ciò che nel nostro caso la patria esige da noi, voi lo sapete; e ciò che esige l’onore, io nol dirò ad uomini onoratissimi. Per ln mia parte dichiaro a voi che insieme a mio fratello principe di Salerno vi saremo compagni ne’ cimenti della guerra, e consorti ne’ destini dell’avvenire.» Si tacque, applaudirono gli astanti; e tanto più che le antiche discordie fra’ generali erano chetate o celavansi. Sapevasi per lettere autorevoli la forza degli eserciti nemici essere in Italia di settantamila Austriaci, dei quali cinquantamila pronti a marciare sulla frontiera di Napoli: altri rinforzi preparar l’Austria, muovere lentamente l’esercito russo, starsi il prussiano, cui la guerra d’italia per fatto di libertà sarebbe pericoloso esperimento.
Essendo il nostro esercito di quarantamila soldati, dei quali dodicimila presidio della Sicilia, assoldare le milizie civili era bisogno per accrescere i combattenti, e prudenza per dare alla guerra indole nazionale. Fu deciso che tornassero da Sicilia quattromila uomini, movessero dalle province settanta battaglioni di milizia civile, e così accampassero intorno alla frontiera trentaduemila vecchi soldati, quarantaduemila di nuova leva, mentre che altre milizie si ordinassero per riserva. La scarsezza degli arnesi di guerra sgomentava, avvegnachè fra le passate speranze di pace, trascurate le provvidenze, tanto i bisogni soperchiavano la ordinaria misura dei rimedii, che pareva non bastasse l’umano ingegno. Si estimò non reggere a tanta mole la età grave del generale Parisi, e gli fu surrogato nel ministero di guerra il general Colletta, già richiamato dalla Sicilia; ma invero il Parisi non avea della vecchiezza fuorchè gli anni ed il senno, essendo giovane la mente, ed affaticandosi al servizio pubblico come ambizione il pungesse, non qual uomo che già tutte avea gustato e schifate le vacue delizie della grandezza. Nel tempo stesso fu nominato ministro dell’interno il cavaliere de Thomasis già ministro di marina, in luogo del marchese Auletta, chiedente per vecchissima età di riposare.
Ciò fatto, si trattò del sistema di guerra (col nome d’oggi piano della campagna) ragionando due gravi quistioni. Combatteremo il nemico alla frontiera, o porteremo fuori la guerra? Qual sarà nel regno il punto obbiettivo del nemico? Io, trasandando le particolari opinioni che in poco discordavano, dirò, quanto saprò brevemente, le decisioni del consiglio e i motivi. Rammentati gli avvantaggi del guerreggiare in terra straniera, prevalse che a milizie nuove, la più parte civili, aventi disciplina non salda e poc’arte di guerra, giovasse combattere a piccoli stuoli, nel proprio paese, ajutati dal loco, guerreggiando e agguerrendosi. Ed oltracciò per la natura della napoletana rivoluzione dovendosi evitare per fin la immagine dell’assalire, conveniva la pazienza di aspettare le offese, ed uscire a guerra non per conquista o ambizione, nemmeno per impeto di giusto sdegno, ma solamente per difendere diritti, patria, casa e vita. Fu quindi stabilito che il genere di guerra sarebbe per noi difensivo; e di ciò informato il parlamento, con decreto subitamente assentito dal reggente, dichiarò non riguardarsi nemico l’esercito austriaco, se non quando nemichevolmente assaltasse, frontiera del regno.
La seconda quistione fu più dibattuta, più incerta. Il tratto debole del confine è il terreno fra Ceperano e Sora, lungo il Liri; ma lo proteggon gli Abruzzi, tre province nei gioghi degli Appennini, tra i fiumi Tronto e Sangro. Quei monti avanzano, a canto le terre del papa, di cento miglia la frontiera del Liri, sì che dalle loro pendici si scende nelle valli del Tevere e Teverone, si minaccia Roma. E però un esercito che marciasse contra il Liri per la strada di Valmontone e Ceperano esporrebbe il fianco al nemico a facilmente resterebbe diviso dalla sua base. Fu quindi creduto (benchè dubbiamente come chi indaga gli altrui pensieri) che l’oste tedesca anzi che il Liri assalterebbe gli Abruzzi. Stese in prima linea il nostro secondo esercito, in seconda ed in riserva il primo; i quali, comunicando per la grande strada degli Abruzzi e per la valle chiamata di Roveto, contrapporrebbero al nemico il tutto delle forze, qualunque fosse il punto combattuto della frontiera.
Farebbero il maggior nerbo del nostro esercito i battaglioni più sciolti e più destri, che han nome di leggieri, così convenendo al terreno alpestre degli Abruzzi, ed a schiere nuove tumultuariamente composte. Reggerebbe ii general Pepe diecimila soldati di vecchia milizia, ventimila di nuova; il general Carascosa diciottomila degli uni, ventiduemila degli altri; quattromila prescelti per esercizio d’armi e disciplina resterebbero presidio della città, guardia della reggia, ultima riserva. Il general Pepe, capo delle milizie civili, affermava che di trentaseimila militi abruzzesi ventiquattromila erano vestiti alla militare, armati e vogliosi di guerra; ma il consiglio non volendo usare sopra modo dello zelo di quelle province, ne prese a difenderle quanto dalle altre del regno, e vi aggiunse i militi della Calabria, patria del generale, e i Dauni, e gl’Irpini da lui formati nell’anno 18 e suoi compagni nelle rivoluzioni del 6 luglio.
Le strade, i sentieri, le valli che menano dallo stato romano agli Abruzzi, erano state chiuse per forti opere di guerra; altre opere univano il Liri; si fecero inespugnabili le strette d’Itri; ed una fortezza in Montecasino, due forti in Pontecorvo e Mondragone, e doppia testa di ponte al Garigliano. Così alla frontiera: e intanto altre linee si preparavano indietro. Era secondo il corso del Volturno e dell’Ofanto, alle origini dei quali fiumi si siede la città di Ariano.
allora mutata in fortezza. In questa linea era Napoli, che, sebbene inabile a difendere sè stessa, difenderebbe potentemente il regno, perocchè proponevasi di abbattere le sue tre basse castella, ostacoli non già ma ricoveri al nemico e cittadelle contro il popolo, accrescere i baluardi di Santelmo da contenere quattromila soldati, trasportare in Capri e Messina le armi, le macchine, gli arsenali, ogni strumento di guerra; ritirare coll’esercito il reggente, la sua casa, il parlamento, il consiglio, gli archivii pubblici, i documenti della monarchia; torre alla città il prestigio pericoloso di sede del governo. E perciò dolorosa, ma non mortale, sarebbe stata la perdita di Napoli; ed infelice acquisto al nemico, cui non basterebbero diciottomila uomini per contenere un immenso popolo, resistere alle offese di Santelmo, respingere le facili sortite di quel presidio.
Sarebbe terza linea il terreno tra Cava ed Ariano per Sanseverino ed Avellino, e già un campo era segnato nei dintorni di Montefusco, dove la natura più dell’arte contrasterebbe al nemico; perciocchè là la i monti non seguono la legge ordinaria di catene primitive e contrafforti, ma confusamente si aggruppano come se tremuoto gli abbia sconvolti, cosicchè s’incontrano ad ogni passo inaspettati rivolgimenti e torrenti ed angustie.
Perduta questa linea, si muterebbe il genere di ritirata, e l’esercito diviso e sparso marcerebbe per vie diverse nelle Calabrie, dietro Spezzano e Belvedere fortemente munite. Altra resistenza si preparava sopra i gioghi di Tiriolo, alto e stretto monte degli Apennini, le cui pendici finiscono nei mari Jonio e Tirreno. Ed infine un gran campo sulla riva del Faro accoglierebbe l’esercito per passare in Sicilia, donde poi ristorato ed accresciuto tornerebbe alle sorti varie della guerra. Comprendevano questo ultimo campo le fortificazioni un dì erette da’ Francesi nella Calabria, dagl’Inglesi nella Sicilia, contrapposte e per dieci anni nemiche, serbando ancora i segni delle scambievoli offese.
Forse i dotti della guerra moderna biasimeranno il gran numero degl’innalzati forti, le tante guernigioni, le spicciolate difese, e però mi è d’uopo rivelar qual era ne’ disegni del consiglio l’intendimento di quella guerra. Un solo de’ generali, Guglielmo Pepe, vedeva nelle nostre milizie, vecchie o recenti, zelo e valore invincibile; ma gli altri più esperti dell’indole napoletana, e meno ebbri di temeraria grandezza, sapendo nuovo l’esercito, debole la disciplina, credevano che i soldati si smarrissero all’inusitato aspetto e romore delle armi; e poichè il nemico a gran giornate procedeva verso il regno, e le nostre schiere dovevano al tempo stesso combatterlo ed agguerrirsi, erano vantaggi per noi guadagnar tempo, esporre i contrari allo impedimento ed alle perdite di cento assedii, obbligarli a combattimenti piccoli e continui, avvezzar l’occhio e ’l pensiero de’ nostri militi ai cimenti del campo. Ed oltracciò la nostra guerra era nazionale o nulla, che non potevamo sperar trionfi di Austerlitz o Marengo, ma il vincer lento de’ popoli. Bisognavano perciò luoghi forti che a’ cittadini armati dessero opportunità di sorprese, appoggio negli scontri, ricoveri nelle sventure; e tali che si ajutassero a vicenda e si collegassero ad alcuni prestabiliti centri di operazioni. Erano centri Civitella, Chieti ed Aquila negli Abruzzi, Montecasino e Capua in Terra di Lavoro, Santelmo in Napoli, Ariano in Puglia, Tiriolo in Calabria; ne’ quali accampavano stuoli numerosi, che secondo i casi assalterebbero il nemico, correrebbero le campagne, si porrebbero sopra i monti a mostra e minaccia.
Altre difese popolari si proponevano: ogni paese sulla linea di operazione del nemico sarebbe chiuso e custodito dalle guardie urbane: innanzi di cederlo si trasporterebbe in luoghi sicuri ogni mezzo di guerra e di vitto; il non farlo sarebbe colpa, il farlo non sarebbe perdita, perchè lo stato ne compensava il valore. Si comporrebbero le guerriglie. Si porrebbero in corso le forze di mare per guardare i liti dell’Adriatico e del Tirreno lungo le strade Emilia e di Terracina; ma non si permetterebbero gli armatori, barbaro genere di guerra, benehè dicevasi che i Tedeschi ne preparassero ne’ loro porti dell’Adriatico. A tante specie di armi e difese, dal governo decretate o dal consiglio disposte, il general Carascosa aggiunse parecchie ordinanze sul modo di condurre la piccola guerra e combattere per guerriglie. Le quali particolarità, che sembreranno indegne della istorica altezza, io qui ho narrate perchè giovevoli a discoprire le vere cagioni dei vicini precipizii; non quelle che la malvagità o l’errore ha divolgate, bensì altre che la istoria va palesando.
Fermate le idee della guerra, comandato il partire alle legioni e per celeri messi e telegrafi il movimento di settanta battaglioni di milizie civili, il reggente diede ai capi dei due eserciti istruzioni per la parte militare conformi a quelle idee; e per la politica, le seguenti:
«Il nostro sistema di guerra è difensivo, così convenendo alla natura del territorio ed alla giustizia della nostra causa. Ma poichè la neutralità passiva del papa, e i suoi stati già occupati dal nemico danno a noi diritto eguale di oltrepassare i confini del regno per torre le posizioni migliori alle difese, voi nei movimenti strategici avrete libertà senza limiti.
Il governo del papa sarà da voi rispettato; i popoli de’ paesi che occuperete saranno trattati con piena giustizia, non permetterete il minimo attentato alle proprietà degli abitanti, farete pagare al giusto le vettovaglie, veglierete acciocchè il comando militare, il quale naturalmente si stabilisce nella occupazion di un paese, provvegga solamente alle proprie milizie. Se alcun fatto del sovrano pontefice obbligasse nello avvenire a mutar sistema, noi col nazional parlamento il dichiareremmo, e voi delle decisioni sareste opportunamente avvisato.
Serberete continua corrispondenza col capo dell’altro esercito, col capo dello stato-maggiore generale, col ministro della guerra.
Le vostre facoltà sono fra i limiti delle presenti istruzioni. E poi che in guerra molto dipende da circostanze di luoghi o tempi, non sarà vietato al capo di un esercito di allontanarsi dalle cose prescritte, ma sotto due leggi: giustificare le sue opere, avvisare prontamente lo stato-maggiore generale, il ministro della guerra, ogni generale, ogni comandante interessato all’impreveduto movimento.»
Francesco.
XXXII. Frattanto marciavano alla frontiera due eserciti con poderose artiglierie. Ogni schiera lietamente partiva, ma più si ammirava la guardia reale per bello aspetto, ricco vestimento e grida di libertà e di fede. Al partire di ogni drappello, il reggente, nella rassegna, confortando, comandando, incitava i soldati, minacciava, prometteva; la sposa di lui annodava all’antica bandiera la lista de’ tre colori, ed accertava che quei ricami erano lavoro delle sue mani e delle principesse sue figlie. Al tempo stesso alcuni battaglioni delle milizie civili si erano mossi dalle province, e pareva che abbisognasse freno non stimolo alle volontà, e che i militi soperchiassero il richiesto numero; alcuni giovanetti a’ quali erano gravi le armi ordinarie, ne presero di più atte alla debole età e lieti marciarono; alcune donne sorelle o madri, alcuni padri o zii, non abili per vecchiezza o per sesso a trattar le armi, indossando i fardelli scemavano ai militi la fatica. Ma questo che pareva zelo di patria era in gran parte timore dei carbonari, i quali in ogni comunità per salvar sè stessi dai travagli della guerra, minacciando e forzando i più placidi cittadini, gli spingevano alla frontiera. Qualunque fossero le cagioni, quel movimento guerriero era grande, superbo, ammirato per fin da’ contrari, spaventoso al nemico. Intanto con mirabile celerità fu provveduto agli arnesi di guerra, armi, viveri, vestimenti; le opere della frontiera munite in un dì, le forze di mare messe in corso.
Si afforzavano le speranze, sol che non mancassero pochi altri mesi alle discipline dell’esercito ed ai maneggi di pace; e pareva che il nemico, sia che dubbioso, sia che lento per comporre insidie, concederebbe il bramato tempo, quando due casi fecero il suo pensiero più manifesto. Un drappello tedesco si portava da Norcia ad Arquata, paesi romani più vicini al regno, tra mezzo ai quali la frontiera non ha segni certi per fiumi o per cunei di monti, ma si rivolge in tanti giri che or s’incontrano or si lasciano le terre di Napoli e di Roma. E però quei soldati, venuti a caso nel territorio napoletano, avutone avviso dalla guida, celeremente ritraendosi, presero altra via, lunga, montuosa, disagevole, ma romana. E dopo altri giorni alcuni soldati di Napoli, legnando, s’introdussero nello stato di Roma, presso a Rieti, ed abbattendosi nelle guardie nemiche, il capo di queste lor disse: «Tornate salvi ai vostri campi; ma se noi rispettiamo il confine napoletano, e dei paesi, benchè romani, da voi guardati, voi rispettate le terre occupate da noi.» Quei due fatti si divolgarono per i campi e per il regno.
L’esercito tedesco, quarantatremila combattenti, radunato incontro agli Abruzzi, guardava in prima linea, come a scoperta, Montalto e Norcia; in seconda Fermo, Camerino, Tolentino, Macerata; in terza linea o riserva tutto il paese da Foligno ad Ancona. Aveva una legione a Rieti, altra in Terni e Spoleto, un battaglione ad Albano, uno a Frascati, un reggimento a Civita Castellana, altro a Roma, uno squadrone a vedetta sulla strada da Valmontone a Ferentino, pochi cavalieri tra Velletri e Cisterna. E però quelle ordinanze erano di battaglia contro gli Abruzzi, o a scaloni contro il Liri: i disegni del nemico rimanevano incerti. Il re di Napoli stava in Firenze, si attendeva a Foligno: coperto dalle armi tedesche si aggirava intorno al regno, sperando meno nella guerra che nei tumulti. E frattanto la inazione di quelle schiere agevolava la pace, e sol restava consultarne col parlamento, avvegnachè il reggente non ardiva esercitare in secreto il potere regio, temendo in quei miseri tempi il sospetto e lo sdegno del popolo; ma già prevalendo il voto del ministro della guerra, doversi ogni dì accrescere gli apparati di forza e i maneggi di pace, si disponevano i modi, le condizioni, gli ambasciatori.
XXXIII. Quando si lesse in una gazzetta napoletana che il general Pepe il dì 14 febbrajo aveva promesso al principe reggente che a’ 7 marzo in Rieti sconfiggerebbe i Tedeschi. Ed era per lo appunto quel giorno il 7 marzo, ed era vera la temeraria promessa, e quello articolo, scritto in Abruzzo, era stato mandato in Napoli dal generale per pubblicarsi. Difatti, o ch’egli ne avesse fitto in mente il pensiero, o che vi fosse spinto, come poi dichiarò, da lettere di alcuni più caldi settarii e deputati che dicevano in pericolo la libertà perchè s’inchinava alla pace, fermò l’animo ad assaltare i Tedeschi la mattina del 7; nè poteron distorre quello arrischiato proponimento i consigli e le preghiere di alcuni uffiziali a lui soggetti, e ‘l decreto del parlamento che vietava esser noi primi a combattere, e gli ordini conformi del reggente, e le condizioni del suo esercito, avvegnachè alcuni reggimenti di vecchia milizia e molti battaglioni delle civili stavano ancor lontani dalla frontiera, e ne’ suoi campi era cominciata e tuttodì cresceva la diserzione. La sua volontà fu inflessibile, non considerando quanto sia grave la primiera offesa, e che spesso, andando a vuoto, di mille morti e di mutati imperi è cagione. Nello annottare del giorno 6 inviò al ministro della guerra un editto del re dato da Laybach diretto a’ sudditi, minaccevole, insidioso, che intimava lo scioglimento degli eserciti, la obbedienza de’ popoli; un altro foglio, ordine del giorno, del generale Frimont che rammentava a’ suoi soldati, nella vicina guerra, le leggi della disciplina, il dovere, l’onore, le pene, i premii. Il general Pepe diceva quei due fogli penetrati nei suoi campi, e concludeva voler dar nel dimani degna risposta combattendo. Non palesava il come, con quali schiere, con quanta speranza; non cercava gli ajuti del primo esercito, non avvisava il capo, non prevedeva infortunio, sì che non preparava i ricoveri, non concertava i ritorni; nascose le vicine ostilità ai condottieri di due proprie legioni stanziate in Ascoli e Tagliacozzo. Assaltare un campo nemico, far molti o pochi prigioni, spedirli a suo trionfo nella città, occupar del suo nome la fama benchè di un giorno, erano le sognate felicità della sua mente.
Quelle lettere del generale giunsero in Napoli al mezzo del dì 8, e confermarono i timori suscitati dalla gazzetta del giorno innanzi; tanto più che a quell’ora erano ignote a noi ma già decise le sorti della battaglia, e fatta irrevocabile la guerra, impossibile la pace. Di ciò informati nel giorno istesso il parlamento ed il pubblico, si produssero poche insensate speranze, mille ben fondati timori, e comune incertezza che durò sino alla mezzanotte del 9; quando giunse in Napoli spedito dal generale, senza sue lettere, il maggiore Ciancialli, testimonio di quegli eventi, che riferì: il general Pepe nel dì 6 aver fatto marciare verso Antrodoco due legioni per la diritta del Velino, altra per la sinistra; ma che non essendo paralleli i due cammini, le colonne restarono separate da molto spazio e dal fiume. Che la mattina del 7 colla schiera più poderosa, non aspettando l’ajuto ed il giungere dell’altra e discendendo i monti di Antrodoco, assaltò Rieti ove i Tedeschi ordinati a difesa, poi che videro dubbietà e lentezza negli assalitori, uscirono dalla città in tre colonne; con una investendo la fronte, con altra il fianco della nostra linea, e tenendo addietro la terza in pronto agl’infortunii o alle venture della battaglia. Vacillarono le nostre giovani bande, si ritirarono le prime, non procederono le seconde, si confusero le ordinanze. Ed allora avanzò prima lentamente, poscia incalzando i passi, ed alfine in corsa un superbo reggimento di cavalleria ungherese, sì che nell’aspetto del crescente pericolo le milizie civili, nuove alla guerra, trepidarono, fuggirono, strascinarono coll’impeto e coll’esempio qualche compagnia di più vecchi soldati, si ruppero gli ordini, si udirono le voci di tradimento, e salvarsi chi può, scomparve il campo. Il generale Giovanni Russo, affaticandosi senza profitto a rattenere i fuggitivi, avanzò col piccolo suo drappello, scontrò il nemico, e per breve combattere lo spinse a ritirarsi. Proseguirono nella succedente notte i disordini dell’esercito: Antrodoco fu abbandonata; il general Pepe seguiva i fuggitivi; il messaggiero, allorchè parlava, credeva perduti gli Abruzzi. Fu questo il suo racconto; ma poco appresso per mille bocche disse la fama che il generale condottiero, inesperto, dagl’inattesi eventi sbalordito, paventò anch’egli e fuggì; non si fermò all’Aquila, non a Popoli, non a Solmona: nol ritenne bisogno di riposo e di cibo, sempre cacciato dalla pungente memoria del 6 luglio.
Dirò di lui quel che rimane. Primo dei fuggitivi giunse in Napoli, dimandò ed ottenne (tanto ancora potevano audacia in lui, timidità nel reggente) la ricomposizione e ’l comando del secondo esercito; ma peggiorando le cose pubbliche, si nascose; ed infine preso il passaporto per America, s’imbarcò, partì. La colonna che doveva attaccar Rieti per la sinistra del Velino, visto il disastro dell diritta, si riparò sopra i monti; le due legioni di Ascoli e Tagliacozzo, ignorando la cominciata guerra, stavano ferme ne’ campi; ma dopo il terzo dì, avvisate dal grido pubblico, ritiraronsi frettolosamente, e i soldati udendo i tristi casi e vedendo i segni della fuga, trepidando fuggirono. Col partire del generale mancò il comando, ogni cosa si disordinò; tutti credevano il nemico alle spalle, tutti speravano trovare innanzi ajuto d’ armi e di consiglio. E così ogni schiera fuggendo, restarono gli Abruzzi vuoti di difensori.
Miserando spettacolo! gettate le armi e le insegne; le macchine di guerra, fatte inciampo al fuggire, rovesciate, spezzate; gli argini, le trincere, opere di molte menti e di molte braccia, aperte, abbandonate; ogni ordine scomposto; esercito poco innanzi spaventoso al nemico, oggi volto in ludibrio. I Tedeschi, temendo agguati nella inattesa fuga, si tennero più vigilanti ne’ campi; ma rassicurati dalla solitudine della frontiera, il giorno 10 avanzarono sopra Antrodoco e benchè trovassero la città spopolata, i fortini e i cannoni abbandonati e giacenti, pur lentamente procedevano e non si affacciarono sopra i monti dell’Aquila prima del 14. Stava la fortezza spalancata e deserta, la comunità spedì ambasciatori e doni al vincitore, la città fu occupata. Così negli Abruzzi.
XXXIV. Il reggente, appena informato dei disastri di Rieti, chiamò per la mattina del 10 consiglio a Torricella, quartier generale del primo esercito, acciò le decisioni di quell’adunanza fossero al punto stesso eseguite: v’intervennero il principe reale don Leopoldo, il general Carascosa comandante del primo esercito, il capo dello stato-maggiore, il general duca d’Ascoli ed il general Fardella; non il ministro della guerra, inviato per comunicare al parlamento gl’importanti casi di Abruzzo; ma richiesto del suo voto aveva scritto: «Lascerei a guardare le strette d’Itri tre battaglioni di vecchi soldati, sei di nuova milizia. Guarderei il campo di Mignano con otto battaglioni di soldati, dieci di militi. Ciò che resta del primo esercito, cioè venti battaglioni di milizia soldata, dieci almeno di milizia civile, spedirei negli Abruzzi per le strade di Solmona e Roveto. Questo movimento raccoglierebbe molte schiere disperse del secondo esercito, conterrebbe le dubbiose, rincorerebbe le intimidite. Con esercito così grande il general Carascosa ripiglierebbe i posti abbandonati dal general Pepe, nè credo ancora occupati dal nemico, perchè non disposto ad assalirci, e maravigliato, incerto del nostro stato. Così che noi potremmo giungere all’Aquila prima dei Tedeschi, rattenerli fuori della frontiera, guadagnar tempo, rianimare il popolo, nostro solo mezzo di guerra. Prendo impegno di provvedere a tempo viveri, vestimenti, danari, trasporti, ogni altra cosa, perchè nulla manchi ad eseguire l’indicato movimento. In guerra sono preziose le ore, oggi lo sono gl’istanti.»
Quel foglio letto in Capua al reggente ed ai generali del consiglio innanzi che andassero a Torricella dove stava il Carascosa, fu approvato da tutti e lodato. Servì di tema per l’adunanza, ma fu diverso il voto del Carascosa: il quale temendo che la fuga di un esercito fosse di esempio all’altro, ritornando al già suo pensiero che obbietto agli assalti del nemico fosse il Liri, e che però, sguarnita quella frontiera, la città capo del regno rimanesse in pericolo, credendo certa ed irreparabile la perdita degli Abruzzi, propose ritirar l’esercito dietro al Volturno, seconda linea prestabilita ne’ disegni di guerra. Il reggente, gli altri membri del consiglio, poco innanzi consenzienti al ministro, poco appresso con turpe facilità consentirono al generale, e la ritirata del primo esercito decretata in quel dì, fu ne’ seguenti compita. Perciò le opre d’Itri si abbandonarono; Gaeta si chiuse in assedio, il ponte sul Garigliano fu scomposto, le fortificazioni abbattute, i campi di Mignano e Cassano per incendio distrutti colle macchine di guerra, i carretti ed ogni altro impedimento al precipitoso ritorno.
Al tempo stesso nel parlamento, sentite le sventure di Abruzzo e svanite le speranze de libertà, si decretò un indirizzo al re, umile, sottomesso, le cui prime righe dimostravano l’innocenza di quel consesso nei fatti della rivoluzione. Era mutato il linguaggio, solito stile di sì fatte congreghe, audaci nella sicurezza, timide ne’ pericoli, sempre giovevoli a consigliare riposato governo, sempre dannose a reggere lo stato fra le tempeste; popolo nelle venture, plebe ne’ disastri. Quel foglio ed una lettera del reggente al re, esortatrice di bene per il regno, furono portate dal generale Fardella, nominato messo ed oratore a pro di Napoli. Pendeva il reggente fra i pericoli dell’avvenire e del presente; però che lo spaventavano le vendette del padre e de’ re alleati, quanto le disperazioni de’ settarii. Ma i settarii più di ogni altro paventavano, e chi di loro prendeva rifugio, chi lo preparava, fuorchè i capi che già da lungo tempo servi della polizia e del reggente, ora doppiando servigi e cure, obbedivano ed indovinavano le voglie del re e del figlio, strascinavano più che mai e tradivano gl’ingannati compagni. E nel campo i generali diffidavano de’ soldati, i soldati de’ generali; gli uni e gli altri vedevano impossibile il vincere, impossibile la pace; credevano colpa ogni virtù, discolpe i mancamenti. In tanta abbiettezza dei principali operanti, il senno di governo si perdè: non si reggeva, non s’imperava; le sorti della nazione stavano in mano al nemico.
Da lungo tempo le fughe de’ soldati scemavano i campi, ma dopo i narrati disordini crebbe il delitto; i Dauni e gl’Irpini, primi nella rivoluzione del 6 luglio, furono primi a sbandarsi; seguirono quei che chiamavano congedati, poscia i soldati. Alcune compagnie della guardia munivano le trincere di Montecasino; il comandante del presidio, vedendo vicini gli assalti, apprestava le difese, quando i soggetti ribellando lo minacciarono, lo spinsero a fuggire, dierono il forte ai nemici. Di già la guardia istessa diceva che non combatterebbe i Tedeschi perchè collegati del re; e dal general Selvaggi, capo di lei, manifestata quella colpa, sfrontatamente come fosse vanto, a’ generali maggiori, la tenevano segreta, o che sperassero di correggere il vergognoso proponimento, o che temessero la forza del mal esempio e l’ardire che ne prenderebbe il nemico, o che (pure il mondo lo sospettò) non volessero affrontare i soprastanti pericoli della denunzia e le punizioni che seguirebbero. E per lo stesso colpevole avvedimento i disertori restavano assoluti da’ generali ne’ campi, da’ magistrati nelle città; facendosi nefando traffico di colpe e d’impunità per futura salvezza. Ne derivò che le milizie non trattenute dal dovere, non dal timore, trasmodarono ne’ maggiori delitti; minacciavano i capi come impedimenti alla fuga, guerreggiavano contro i compagni ancora fidi alle bandiere, uccisero parecchi uffiziali, molti più ne ferirono, scaricarono le armi su i generali e sul generale supremo Carascosa.
Ma sebbene grande il disfacimento dell’esercito, non era intero; perchè standosi ancora sulla destra sponda del Volturno, era il fiume per molti ostacolo al fuggire. Numerose torme giunsero in Capua, e colà (il fiume tragittato ma le porte chiuse) i contumaci sollevaronsi con voci, moti, tumulti; spregiata l’autorità de’ capi, vicina le ribellione. I generali, pensando che giovasse separare i buoni da’ tristi, comandarono che i bramosi di partire uscissero ma disarmati, e si aprirono le porte. Il restare portava seco nuovi travagli e pericoli; il partire, impunità e riposo: la mala indole umana scelse il partire. Mossero in prima pochi, gli sfrontati e arroganti; poi molti, alfin tutti; giacchè l’esempio e la frequenza del disonore scemavano la vergogna e il ritegno. Ma se nel campo ergevasi un altare (ad uso della felice Roma), ed il capo dell’esercito, colla insegna levata, chiamava i fedeli ad unirsi, correvano certamente i generali, i colonnelli, gli ufficiali; si dava ai soldati, e propagavasi, l’esempio dell’onore. Mancò la virtù de casi estremi, anch’essa inabile a sostenere il cadente governo o a ritardarne le rovine; anch’essa cagione di futuro severo castigo, di prigionia, di esilio, di morte; ma sola nei miseri tempi consolatrice privata de’ mali pubblici, riposo della coscienza, tesoro di fama nel mondo. Restarono soli attorno alle bandiere pochi uffiziali attoniti a quei fatti, perciocchè la instantanea dispersione di un esercito sembra, non opera umana, catastrofe della natura, tanto è immensa ed irrevocabile. Sparirono coll’esercito le preparate difese, le linee, la ritirata del governo e ogni altra idea grande o libera; prostrare al nimico la nazione, raccomandarla al re, salvare sè stessi, erano le cure pubbliche o private. Il nemico avanzava. Il re (la cui storia erasi spiegata minaccevole nella mente di tutti) cupo taceva, e la fama lo diceva sciolto dagli obblighi del giuramento per benedizioni papali; tanto più che poi seppesi avere appesa in voto, a riscatto dello spergiuro, nella chiesa della madonna Annunciata di Firenze lampada ricchissima di argento e d’oro, col motto: Maria Genitrici Dei Ferd. I Utr. Sic. rex Don. d. d. ann. 1821 ob pristinum imperii decus, ope ejus prestantissima recuperatum. Pur dicevasi ed era vero, e non sembri indegno di questa istoria il raccontarlo, che in tanto pubblico lutto seco traeva da Laybach alcuni orsi grossissimi, donati dall’imperator di Moscovia, e graditi per migliorare (ei lo affermava) la specie d’orsi che ne’ boschi di Abruzzo vive poco feconda e tapina. Si annunziava il ritorno del principe di Canosa; altri tristissimi e diffamati per le atrocità del 99 uscivano fieri e superbi, comparve nuova coccarda coll’impresa de’ Borboni, e col motto inscritto: Viva l’assoluto potere di Ferdinando I.
XXXV. Così grande, così giusto era il pubblico dolore, quando il 17 marzo giunsero in Napoli le nuove della rivoluzione del Piemonte. Soli a saperle furono la polizia ed il reggente, che cauti le nascosero sino al dì 21, allorchè le fortezze stavano in mano ai Tedeschi, ed era fermata la occupazione della città, sciolto il parlamento, l’esercito disperso. Quel gran successo, che poco innanzi era salute del regno, si volse in motivo di cordoglio, considerando di quanta mole furon gli assalti di Rieti. Che se nuove apprensioni del nemico per il Piemonte e per la Italia si aggiungevano alle presenti perplessità per la guerra creduta immensa di Napoli, quanto docile sarebbe stato l’orecchio alle offerte di pace, e quanto rattenuto il disdegno del re. Vero è che allora rianimata ed accesa la parte dissennata del popolo, sarebbe tornata all’antica baldanza, o forse prevalevano la costanza del ministero e la gravità del caso. Ma piacque a cieli disporre gli avvenimenti così, che le speranze di un regno e di più regni, per inetti consigli, per fallo di poche ore, per accidenti di fortuna precipitassero.
Frattanto il grido della rivoluzione piemontese, benchè giunto al re Ferdinando ed al general Frimont dopo la nuova delle venture di Rieti, eccitò tanta sollecitudine che doppiarono le minacce e le insidie per accelerare la impresa di Napoli. Il re comandò all’ammiraglio Correale, che dirigeva nell’Adriatico un vascello ed altri legni da guerra, di obbedire al capitano di fregata austriaca Paolucci, e quegli senza arrossire dell’avvilito grado si assoggettò al nemico ed al minore. L’avanguardo tedesco chiese al governo napoletano la cessione della fortezza di Capua, delle altre fortezze del regno, dei forti della capitate; e tutto vilmente si concedeva, sperando ingraziarsi per merito di obbedienza e di sommissione. Fu stabilito che a’ 23 marzo l’esercito tedesco occupasse la città.
XXXVI. Due battaglioni della guardia, presidio della ceduta fortezza di Capua, tornarono il dì 21 in Napoli; e correndo a mezzo il giorno la via di Toledo, trionfali del tradimento, gridavano voci di fede al re, di ludibrio alla setta; per lo che avevano lacerata dalla bandiera, e calpestata la lista de’ tre colori ricevuta in dono dalle regie principesse; altri due battaglioni stavano in pronto per giungere il 23 in vanguardia e in trionfo col nemico. Quei primi ebbero alloggiamento nel Castello-Nuovo; e non appena entrati al sicuro, per leggiero contrasto tra un soldato ed un pescivendolo, chiudon le porte, si schierano dietro i parapetti e tirano alla cieca colpi di archibugio sul popolo; de’ quali restano morti un uomo, un fanciullo, due donne, e feriti altri cinque di vario sesso ed età. Stava per mala ventura nel castello, a cagione di servizio, un sergente della guardia urbana, che da quei ribelli soldati assalito, di cento punte restò trafitto. Nè dopo questo stragi cessava il foco; per lo che nella città erano grandi le agitazioni, ed imminente il pericolo di popolari tumulti, che impedì la istessa in quei fatti offesa guardia urbana, sempre e sola degna di lode, perchè instancabile alle fatiche, e senza macchia d’infedeltà. La guardia reale dei commessi misfatti restò impunita nel governo costituzionale perchè mancò il tempo al giudizio, ebbe fedi e guiderdone dal governo assoluto di Ferdinando, usato a premiare i delitti che gli giovano o che il dilettano.
Tristo il presente, era l’avvenire tristissimo. I motori della rivoluzione del 6 luglio, i timidi, gli accorti, preso passaporto per America o Spagna, partirono; altri si nascosero; il reggente diè a tutti ajuto di consigli e di doni. Rivelerà il tempo, e non tardi, s’egli fosse il più buono dei principi o il più astuto. Il ministero fu licenziato, altri ministri aveva scelto il re con decreto di Firenze. Il parlamento stava dubbioso, ora si adunava a crocchi, disperdevasi, e le sale poco innanzi sì popolose stavan deserte. Il deputato Poerio, che all’aspetto delle universali rovine afforzava lo zelo, adunò piccol numero di deputati, ventisei solamente, e nel giorno 19 propose e fece accettare da quella immagine di parlamento l’atto, che ad onore di lui e per memoria degli avvenire parola a parola trascrivo:
« Dopo la pubblicazione del patto sociale del 7 luglio 1820, in virtù del quale S. M. si compiacque di aderire alla costituzione attuale. il re, per organo del suo augusto figlio, convocò i collegi elettorali. Nominati da essi, noi ricevemmo i nostri mandati giusta la forma prescritta dallo stesso monarca. Noi abbiamo esercitate le nostre funzioni conformemente ai nostri poteri, ai giuramenti del re ed ai nostri. Ma la presenza nel regno di un esercito straniero ci mette nella necessità di sospenderle, e ciò maggiormente perchè dietro l’avviso di S. A. R. gli ultimi disastri accaduti nell’esercito rendono impossibile la traslocazione del parlamento, che d’altronde non potrebbe essere costituzionalmente in attività senza il concorso del potere esecutivo. Annunziando questa dolorosa circostanza, noi protestiamo contro la violazione del diritto delle genti, intendiamo di serbar saldi i diritti della nazione e del re, invochiamo la saviezza di S. A. R. e del suo augusto genitore, e rimettiamo la causa del trono e dell’indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini de’ monarchi e de popoli.»
XXXVII. Dopo ciò i documenti del parlamento furono portati in più sieuro loco, i deputati si divisero, la sala fu chiusa. Un grande atto di forza de’ re, nella moderna politica delle genti, fu ne’ descritti modi consumato contro popolo debole e male accorto. Altri popoli soggiaceranno, il genio superbo della monarchia se ne allegri. Ma verrà tempo (essendo natura delle forze sfrenate soperchiare ed invadere) che gli stessi potenti re opprimeranno i re minori, e la indegna gioja de’ monarchi volgerà in meritata tristezza; insino a tanto che le forze artifiziali de’ regni distruggendo sè stesse, resterà libera ed operosa la vera forza governativa della società, la civiltà dei popoli: sentenza, che sebbene più volte io abbia manifestata ne miei libri, pure ripeto ad ogni nuova opportunità, però che gran mercede otterrò dalle mie fatiche se potrò persuadere la impotenza, in questi nostri tempi, delle rivoluzioni e delle tirannidi, e che la sola virtù efficace a’ mutamenti durevoli è la civiltà, così che popoli e re dirigano verso questa le azioni e le speranze.
Giunto il dì 23 di quel mese di marzo 1821, l’esercito tedesco entrò in città. S’impadroni dei forti, accampò nelle piazze, si guardava come fra nemici. Non fu nel pubblico allegrezza, nemmen d’uso e di plebe; nè appariva mestizia, o che gli addolorati temessero di mostrarla, o che tutti gli affetti coprisse lo stupore.