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LIBRO NONO — 1821. 285

perciocchè la instantanea dispersione di un esercito sembra, non opera umana, catastrofe della natura, tanto è immensa ed irrevocabile. Sparirono coll’esercito le preparate difese, le linee, la ritirata del governo e ogni altra idea grande o libera; prostrare al nimico la nazione, raccomandarla al re, salvare sè stessi, erano le cure pubbliche o private. Il nemico avanzava. Il re (la cui storia erasi spiegata minaccevole nella mente di tutti) cupo taceva, e la fama lo diceva sciolto dagli obblighi del giuramento per benedizioni papali; tanto più che poi seppesi avere appesa in voto, a riscatto dello spergiuro, nella chiesa della madonna Annunciata di Firenze lampada ricchissima di argento e d’oro, col motto: Maria Genitrici Dei Ferd. I Utr. Sic. rex Don. d. d. ann. 1821 ob pristinum imperii decus, ope ejus prestantissima recuperatum. Pur dicevasi ed era vero, e non sembri indegno di questa istoria il raccontarlo, che in tanto pubblico lutto seco traeva da Laybach alcuni orsi grossissimi, donati dall’imperator di Moscovia, e graditi per migliorare (ei lo affermava) la specie d’orsi che ne’ boschi di Abruzzo vive poco feconda e tapina. Si annunziava il ritorno del principe di Canosa; altri tristissimi e diffamati per le atrocità del 99 uscivano fieri e superbi, comparve nuova coccarda coll’impresa de’ Borboni, e col motto inscritto: Viva l’assoluto potere di Ferdinando I.

XXXV. Così grande, così giusto era il pubblico dolore, quando il 17 marzo giunsero in Napoli le nuove della rivoluzione del Piemonte. Soli a saperle furono la polizia ed il reggente, che cauti le nascosero sino al dì 21, allorchè le fortezze stavano in mano ai Tedeschi, ed era fermata la occupazione della città, sciolto il parlamento, l’esercito disperso. Quel gran successo, che poco innanzi era salute del regno, si volse in motivo di cordoglio, considerando di quanta mole furon gli assalti di Rieti. Che se nuove apprensioni del nemico per il Piemonte e per la Italia si aggiungevano alle presenti perplessità per la guerra creduta immensa di Napoli, quanto docile sarebbe stato l’orecchio alle offerte di pace, e quanto rattenuto il disdegno del re. Vero è che allora rianimata ed accesa la parte dissennata del popolo, sarebbe tornata all’antica baldanza, o forse prevalevano la costanza del ministero e la gravità del caso. Ma piacque a cieli disporre gli avvenimenti così, che le speranze di un regno e di più regni, per inetti consigli, per fallo di poche ore, per accidenti di fortuna precipitassero.

Frattanto il grido della rivoluzione piemontese, benchè giunto al re Ferdinando ed al general Frimont dopo la nuova delle venture di Rieti, eccitò tanta sollecitudine che doppiarono le minacce e le insidie per accelerare la impresa di Napoli. Il re comandò all’ammiraglio Correale, che dirigeva nell’Adriatico un vascello ed altri legni da guerra, di obbedire al capitano di fregata austriaca Pao-