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LIBRO NONO — 1821. 283

frontiera, guadagnar tempo, rianimare il popolo, nostro solo mezzo di guerra. Prendo impegno di provvedere a tempo viveri, vestimenti, danari, trasporti, ogni altra cosa, perchè nulla manchi ad eseguire l’indicato movimento. In guerra sono preziose le ore, oggi lo sono gl’istanti.»

Quel foglio letto in Capua al reggente ed ai generali del consiglio innanzi che andassero a Torricella dove stava il Carascosa, fu approvato da tutti e lodato. Servì di tema per l’adunanza, ma fu diverso il voto del Carascosa: il quale temendo che la fuga di un esercito fosse di esempio all’altro, ritornando al già suo pensiero che obbietto agli assalti del nemico fosse il Liri, e che però, sguarnita quella frontiera, la città capo del regno rimanesse in pericolo, credendo certa ed irreparabile la perdita degli Abruzzi, propose ritirar l’esercito dietro al Volturno, seconda linea prestabilita ne’ disegni di guerra. Il reggente, gli altri membri del consiglio, poco innanzi consenzienti al ministro, poco appresso con turpe facilità consentirono al generale, e la ritirata del primo esercito decretata in quel dì, fu ne’ seguenti compita. Perciò le opre d’Itri si abbandonarono; Gaeta si chiuse in assedio, il ponte sul Garigliano fu scomposto, le fortificazioni abbattute, i campi di Mignano e Cassano per incendio distrutti colle macchine di guerra, i carretti ed ogni altro impedimento al precipitoso ritorno.

Al tempo stesso nel parlamento, sentite le sventure di Abruzzo e svanite le speranze de libertà, si decretò un indirizzo al re, umile, sottomesso, le cui prime righe dimostravano l’innocenza di quel consesso nei fatti della rivoluzione. Era mutato il linguaggio, solito stile di sì fatte congreghe, audaci nella sicurezza, timide ne’ pericoli, sempre giovevoli a consigliare riposato governo, sempre dannose a reggere lo stato fra le tempeste; popolo nelle venture, plebe ne’ disastri. Quel foglio ed una lettera del reggente al re, esortatrice di bene per il regno, furono portate dal generale Fardella, nominato messo ed oratore a pro di Napoli. Pendeva il reggente fra i pericoli dell’avvenire e del presente; però che lo spaventavano le vendette del padre e de’ re alleati, quanto le disperazioni de’ settarii. Ma i settarii più di ogni altro paventavano, e chi di loro prendeva rifugio, chi lo preparava, fuorchè i capi che già da lungo tempo servi della polizia e del reggente, ora doppiando servigi e cure, obbedivano ed indovinavano le voglie del re e del figlio, strascinavano più che mai e tradivano gl’ingannati compagni. E nel campo i generali diffidavano de’ soldati, i soldati de’ generali; gli uni e gli altri vedevano impossibile il vincere, impossibile la pace; credevano colpa ogni virtù, discolpe i mancamenti. In tanta abbiettezza dei principali operanti, il senno di governo si perdè: non si reggeva, non s’imperava; le sorti della nazione stavano in mano al nemico.