Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro I/Capo III

Capo III

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CAPO TERZO.

Governo di Carlo dopo assicurata la conquista sino allo vittoria di Velletri.

XXX. Non potrò esporre il governo di Carlo per successione di tempi e di cagioni, sì che la narrazione trapassi continuata di cosa in cosa, però che le leggi di lui dipendendo talora da intenzione di pubblico bene, più spesso da occasioni o dal volere de’ suoi genitori, o dall’esempio di Spagna, non erano simiglianti le cause, non unico e permanente il consiglio: ogni parte dello stato fu mossa nel corso intero del suo regnare per infinite prammatiche o dispacci senza legamento e senz’altra mira che di reggere secondo i casi, e d’imperare. Mi sarà dunque necessità rappresentare in complesso le sue riforme, onde apparisca nelle condizioni e nella civiltà de’ soggetti quanta parte si dovesse alla scienza e alla mente de’ reggitori.

Essendo il disordine maggiore ne’ codici e nei magistrati, doveva essere prima opera di Carlo comporre novello codice che togliesse dalla napoletana giurisprudenza l’ingombero di undici legislazioni: [p. 51 modifica]ma facendo alla spicciolata, ei ne diede una dodicesima, più adatta invero alle circostanze del popolo, ma imperfetta e incompiuta quanto le precedenti. Non osò abbattere i trovati errori: la feudalità, la nobiltà, le pretensioni del clero, i privilegi delle città, erano intoppi attorno a’ quali si aggiravano i provvedimenti per restringere o confinare i mali pubblici, che maggior sapienza o ardire avrebbe distrutti. Vero è che l’ingegno della nostra età usato alle sovversioni degl’imperii ed a’ maravigliosi fatti della civiltà, misurando il passato con le ampiezze del presente, dice mediocri le geste ch’erano grandi ne’ secoli decorsi: così come la posterità, leggendo le nostre istorie, e vedendo facili a lei i successi contro a’ quali questa età vanamente cozzò, dirà infingardi e timidi noi, che pure in politica peccammo di volere e osar troppo.

La giurisprudenza civile non mutò. Le leggi criminali variarono; ma dettate ad occasioni, e nello sdegno per delitti più frequenti o più crudeli, non serbavano le convenienti proporzioni, così che mancava la giusta e sapiente scala delle pene. Il procedimento civile di poco migliorò, erano sempre confuse le competenze, e sempre necessaria a sciorre i dubbii l’autorità del principe: i ministri aggiunti, i rimedii legali, tutti gli arbitrii del vicereale governo duravano. Il supremo consiglio d’Italia fu abolito: il collegio Collaterale cangiò in consiglio di stato: gli altri magistrati rimasero come innanzi, perchè il re aveva giurato non mutarli. Di nulla migliorò il procedimento criminale; restando in uso ii processo inquisitorio, gli scrivani, la tortura, la tassazione degl’indizii, le sentenze arbitrarie, il comando del principe.

I difetti che ho toccato, e che in più opportuno luogo descriverò, cagionarono che i delitti nel regno di Carlo fossero molti ed atroci: nella sola città di Napoli numerava il censo giudiziario trenta mila ladri: gli omicidii, le scorrerie, i furti violenti abbondavano nelle province, gli avvelenamenti nella città, tanto che il re creò un magistrato, la Giunta de Veleni, per discoprirli e punirli. Prevalevano in quel delitto le donne, bastandovi la malvagità de’ deboli; come piace alla nequizia de’ forti l’atrocità scoperta.

XXXI. Tali erano i codici. Carlo per paci e trattati con lontani regni ben provvide al commercio. Fermò concordia con l’impero ottomano; e per essa e per la riputazione del re cessarono le nemicizie co’ Barbareschi. Fece nuovi patti di commercio e navigazione con la Svevia, la Danimarca, la Olanda: è gli antichi rinovò con la Spagna, la Francia, la Inghilterra. Nominò tanti consoli quante erano le vie del nostro commercio; raccogliendo in una legge le regole del consolato, cioè podestà e diritti verso i nazionali, obblighi è ragioni verso gli esteri. Formò un tribunale di commercio, di otto giudici (tre magistrati, tre baroni esercitati alle materie [p. 52 modifica]commerciali, due commercianti) e di un presidente scelto tra i primi della nobiltà: il qual tribunale rivedeva in appello le sentenze de’ consoli, decideva le gravi quistioni di commercio, e perchè inappellabile, era detto supremo. Fece leggi per i fallimenti tanto severe che si direbbero tiranniche, se non attestassero le fraudi enormi e la corruzione de’ commercianti. Altro magistrato col nome di Deputazione di Sanità vegliava a’ contagi, a’ lazzeretti, a’ pericoli della salute pubblica per leggi tanto sagge quanto dava la scienza di quei tempi. Se dunque in un libro fossero state con ordine registrate le disposizioni legislative che sparsamente si leggono in molti dispacci e prammatiche, avremmo avulo un codice di commercio, pieno, finito, e ’l vanto di precorrere di mezzo secolo gli altri stati d’Europa. Carlo fondò anche un collegio detto Nautico; e per esso fu migliorata e prescritta la costruzione delle navi, formato il corpo de piloti, istruiti gli artefici e i marinari. E, come allro mezzo di commercio e d’industria, chiamò gli Ebrei; tollerati ne’ passati secoli, poi molestati dalla ignoranza della plebe, indi scacciati per decreto di Carlo V. L’editto di Carlo Borbone era umano ed esemplare: concedeva sicurtà, libera professione di coscienza, libero commercio, diritti di cittadini, domicilio prefisso nella città non ad oltraggio come in altri regni cristiani ma per più comoda e libera dimora. Ne vennero in gran numero, con grandi ricchezze, poi dirà questa istoria quali sorti ebbero e qual fine.

L’effetto delle riferite leggi fu sollecito; però che i nostri porti si frequentavano da navi straniere, e i nostri mercati da merci, ma la bandiera napoletana poco navigava ne’ mari altrui per gli errori della nostra interna amministrazione. Le mercanzie nostre erano i frutti della terra che l’annona serrava e marciva nelle canove: ogni vento, ogni meteora facevano temere scarsezza di alcun prodotto; e s’impediva uscire le biade, gli olii, il vino, sole materie che ci abbondino. Era dunque necessità sostenere il nostro commercio col danaro; ed il governo, ciò visto, e credendo alle fallacie della bilancia commerciale, giudicò dannoso il traffico esterno, e valevole a ristorarsene gravar la entrata delle merci con dazii esorbitanti, che registrò in alcune ordinanze dette tariffe doganali. Ignorava che tali dazii si pagano da’ consumatori; ma presto vide crescere il prezzo delle cose; venir più caro il vivere, scemare i valori produttivi, dechinare l’industria, scadere le ricchezze.

XXXII. Fra le descritte cure, Carlo, nell’anno 1738, strinse matrimonio con Amalia Walburga figlia di Federico Augusto re di Polonia, giovinetta che non compiva quindici anni, modesta, e di costumi pura e devota. Riverita nel viaggio per la Germania, venerata dalle corti d’Italia, giunse a Portella, nostro confine, dove incontrossi al re sotto magnifico padiglione fra pompe a lei nuove. [p. 53 modifica]Rallegrava i due sposi gioventù di entrambo, regno felice, cuor pio, sacro nodo, piaceri vicini ed innocenti: ella riverente e lieta inchinò il re, che sollecitò a rilevarla, col nome di sposa e di regina la strinse al seno. Venuti nella città il 22 di giugno, differirono la cerimonia dell’ingresso al 2 di luglio. Nel qual giorno Carlo instituì l’ordine cavalleresco di San Gennaro, che ha per insegna la croce terminata nelle punte da gigli, e in mezzo d’essa la immagine del santo in abito vescovile, col libro del vangelo, le ampolle del martirio, e ’l motto, In sanguine fœdus: pende la croce da una fascia di color rosso. Il re è gran-maestro; sessanta i cavalieri scelti per antica nobiltà e presente grandezza. Sono statuti dell’ ordine: Portar fede alla cristiana cattolica religione; serbare al re inviolabile fedeltà; udir la messa ogni dì; comunicarsi nel giorno del precetto e nel festivo del santo; far celebrare, alla morte di un cavaliere dell’ordine, solenne messa, e recitare l’uffizio de’ morti, e prendere la comunione; frequentare la cappella del santo; non fare, non accettare disfide a duello. E dipoi Benedetto XIV aggiunse per ogni cavaliere l’assoluzione piena de’ peccati, la successiva continua remissione nei dì miracolosi del santo tre volte l’anno, le plenarie indulgenze alla visita di tre chiese o altari; qualche dispensa dalle discipline del magro. Statuti e concessioni più convenienti a congreghe devote che ad ordine cavalleresco.

Poco prima dell’ordine di San Gennaro era stato fondato l’ordine militare di San Carlo, designando la stella, gli statuti, le vesti, gli uffici. Non però furono eletti i cavalieri, nè allora nè mai più; e non si vide l’ordine figurato nello scudo della corona. Io non ho saputo se la dimenticanza nascesse da ragione di stato o da incostanza, veramente insolita, di Carlo.

Questo re, pio di coscienza e di pratiche, inchinava in quel tempo alla Chiesa così per suo talento come per arte di governo. E poichè le ecclesiastiche riforme sono le opere più onorevoli e sorprendenti di lui, uopo è che io le descriva dal principio alla fine. Non è già incredulo re, o re largo di coscienza che abbassi la pontificale superbia: ma l’infante don Carlo che nella chiesa di Bari, vestendo abito canonicale, offizia tra canonici nel coro, che vestito d’umile sacco lava nella chiesa de’ Pellegrini i piedi al povero; che serve a messa per acquistarne le indulgenze; che ogni anno modella e compone di sue mani le figure e La capanna del natale di Cristo; che crede alla santità vivente del padre Pepe gesuita e del padre Rocco domenicano, frati scaltri ed ambiziosi.

XXXIII. Ho detto innanzi, che il pontefice Clemente XII temporeggiò fra le parti spagnuola ed alemanna, finchè incerta pendeva la fortuna, aspettando per favorire il favorito da lei. L’anno 1735, nel dì solenne di san Pietro, Carlo, già conquistatore sicuro e [p. 54 modifica]possessore delle due Sicilie, tutte le fortezze espugnate, sparite le insegne dell’impero, preparata la sua coronazione nella metropoli di Palermo, spedì ambasciatore al pontefice il duca Sforza Cesarini con la chinea e la somma di settemila ducati d’oro. tributo de’ re di Napoli. Il giorno stesso il principe di Santa-Croce ministro imperiale, offrì al pontefice il medesimo censo. La quale gara di obbedienza era finezza de’ due re per ottenere, in argomento delle proprie ragioni sul contrastato regno, il suffragio del papa. Ma la guerra d’Italia era viva e dubbiosa; la chinea dell’infante una novità, quella di Cesare un uso: non potevasi accettar la prima senzat pontificale manifesto, bastava per la seconda il silenzio; e fu accettata. Carlo ne sentì sdegno.

E poco appresso scoppiò in Roma tumulto contro gli uffiziali spagnuoli e napoletani, che mandati ad ingaggiar uomini per la milizia, e caduti in odio, furono minacciati, offesi, percossi, forzati a nascondersi dalla inferocita plebe, il tumulto si estese a Velletri dove altri ingaggiatori e soldati di Napoli stanziavano: e a tal si giunse nelle due città che in Roma sbarrate cinque porte, si custodirono le altre con a doppie guardie popolari; ed in Velletri munita la città, barricate le strade, armata sotto sedici capitani la milizia urbana, si disposero gli animi alla guerra. Delle quali cose informato Carlo, rivocò da Roma i suoi ministri, scacciò di Napoli i ministri del papa: il ministro di Spagna uscì di Roma; il nunzio, poco prima partito per le Spagne, avvisato che non sarebbe ricevuto in quegli stati, si fermò a Bajona. Tutte le apparenze furono di nemicizia. E frattanto i soldati cacciati da Velletri si formarono in ordinanza, ed assaltata e presa la mal guardata città, uccisero alcuni del popolo, imprigionarono maggior numero, disarmarono tutti, ed imposero taglia, come a città vinta, di ccudi quarantamila. Passano ad Ostia; saccheggiano le botteghe, incendiano le capanne de’ miseri fabbricatori di sale: e subito prorompendo a Palestrina le perdonano, per sedicimila scudi, il saccheggio. E peggio facevano, se Carlo, non per arrestare quelle licenze ma per segno di maggiore nemicizia verso Roma, non avesse comandato a quelle schiere di abbandonare le terre del papa, traendo seco i prigionieri di Velletri e le armi tolte.

Il pontefice ricorse a’ sovrani della Francia e dell’Austria: ma il primo schermi all’inchiesta; il secondo, rammentati al papa i mancamenti fatti all’Impero, pure offeriva di spedire a Roma numerose forze a difesa dell’apostolica sede. Clemente rifiutò l’offerta, e chinandosi all’umiltà delle preghiere, mitigò gli animi de’ Borboni; i prigionieri di Velletri e tre Romani trasteverini, capi del tumulto, chiesti dal governo di Napoli e qua venuti, dopo non breve pena di carcere e pubblica mostra di pentimento, furono per [p. 55 modifica]grazia del re lasciati liberi; ma le armi ritenute. Lo sdegno in Carlo rimase piuttosto ammorzato che spento.

E però il ministro Tanucci e parecchi Napoletani di alto ingegno crederono acconcio il tempo a ravvivare le ragioni dello stato e del re: l’abate Genovesi, benchè in molta giovinezza, chiaro per lettere e per virtù, dopo aver dimostrato quanta ricchezza le persone della Chiesa, povere per voti, consumavano, propose riforme giuste, pie, generose. Altri altro proposero; e la stessa città, per suppliche al re, pregava d’imporre sopra i beni e sudditi ecclesiastici le taglie comuni, e convertire in moneta i preziosi metalli che soperchiavano al culto di nostra santa ed umile religione. Mosso da tante voci ed argomenti, Carlo mandò a Roma suo legato monsignor Galliani, uomo di nobile ingegno e libero quanto i tempi comportavano, il quale esponesse al pontefice le richieste o pretensioni del re: Nominare a’ vescovadi e benefizii de’ suoi regni; dare anch’egli, come i re potenti della cristianità, esclusione di un nome nel conclave; ridurre a minor numero i conventi di frati e monache; imporre alcuno impedimento agli acquisti, ed alcuna libertà a’ beni chiamati delle manimorte; cessasse la giurisdizione de’ nunzii, il tribunale della nunziatura si chiudesse.

Il papa dubbioso e addolorato delle dimande, chiamò congregazione di cardinali, che tutte le rigettò come contrario alle antiche ragioni della santa sede. L’ambasciatore non chetò; ma crescendo in pretensioni, chiese l’adempimento del decreto di Onorio II a pro di Ruggiero, però che da Ruggiero discendeva Carlo, e da Onorio Clemente. Rammentò altre concessioni di antichi pontefici ad antichi re delle Sicilie: mentre al bel dire del Galliani assistevano la potenza de’ Borboni, la fortona di Carlo, la decrepitezza di Clemente e ’l desiderio di giovare al suo nipote Corsini ch’era in corte di Napoli, vago di andare vicerè nella Sicilia, e forse pieno di più alte speranze. Per i quali rispetti promise la investitura de’ conquistati regni al re Carlo, e concesse la berretta cardinalizia all’infante di Spagna don Luigi. Lo sdegno de’ due re fu placato, monsignor Gonzaga, nunzio trattenuto a Bajona, andò accetto a Madrid; e per la investitura di Carlo fu prefisso il 12 di maggio di quell’anno 1738.

XXXIV. Nel qual giorno il cardinale Trojano Acquaviva, ambasciatore del re, con seguito di feudatarii napoletani e spagnuoli andò al Quirinale, dove il pontefice nello maggior pompa, circondato da’ cardinali, arcivescovi e vescovi, fece leggere la bolla d’investitura conforme alle antiche, dicendolo Carlo VII, perché settimo re di Napoli con quel nome. Ma, fosse politica o vaghezza, Carlo non appose il numero, e si chiamò negli editti e ne’ trattati come innanzi della investitura. Quietati gli sdegni col pontefice, [p. 56 modifica]monsignor Simonetti ritirato in Nola tornò nunzio nella città: ed i ministri di Vienna fecero delle avvenute cose rimostranze al pontefice che, accorto, non diede orecchio, vedendo inchinare la fortuna all’altra parte; e volendo distogliere il re dalle pretensioni esposte dal Galliani, pericolose alla dominazione ed alle ricchezze del papato, concedette in dono al re la bolla della crociata, precetto che per danari assolve da’ precetti del magro.

XXXV. Scordate col passar del tempo le scambievoli blandizie della concordia, Carlo, dicendo che i trattati ed usi antichi non più convenivano al suo popolo, propose al papa novello concordato; e Clemente il concedeva, quando, lui morto nel 1739, successe al pontificato Benedetto XIV, cardinale Lambertini. Si sospesero le pratiche; ed alla fine per dimande ripetute di Carlo il papa nominò suo legato il cardinale Gonzaga; il re, il cardinale Acquaviva e lo stesso monsignor Galliani arcivescovo di Tessalonica, i quali convenuti il 2 di giugno del 1741, fermarono i patti del concordato che poco appresso, ratificati da due principi, divennero leggi e regole di stato e di coscienza. Il reame di Napoli era veramente sconcertato da’ diritti baronali e dalle immunità della Chiesa: quanto Carlo provvedesse a’ primi dirò a suo luogo; furono le seconde principal motivo al concordato. Si tolleravano tre specie d’immunità, reali, locali, personali. Per le reali le proprietà della Chiesa nulla pagavano de’ pesi pubblici; altre proprietà di natura laicale andavano confuse alle ecclesiastiche, e molte franchige, molti favori godevano le terre e le case dei ministri e delle persone della Chiesa: cosicchè le ricchezze, l’avarizia, il numero, l’ardimento dei clero secolare e regolare facevano che la finanza, solamente sostenuta da poche terre e pochi cittadini, fosse stretta e cadente. Finchè durò la guerra, ora la prudenza de’ baroni, più spesso i doni della regina di Spagna, e sempre i consigli estremi e i prodotti forzati della necessità coprivano la povertà del fisco: ma finite le sollecitudini e le venture della conquista, languiva lo stato, e le stesse vicereali gravezze non bastavano; tanto più che sopravvennero le spese di numerosa splendida corte, è i cresciuti bisogni pubblici per l’avanzata civiltà.

Le immunità locali erano degli asili. Dava asilo a’ rei ogni chiesa, ogni cappella, i conventi, gli orti loro e i giardini, le case, le botteghe, i forni che avevano muro comune o toccanti con la chiesa, le case de’ parrochi. Così che in tanta copia di protettori edifizii trovavansi gli asili sempre a fianco al delitto, guardati da vescovi o cherici, e dal furore della plebe che difendeva quelle ribalderie come religioni. Ugual danno veniva alla giustizia dalle immunità personali; però che al numero già troppo de’ cherici si univano le squadre armate de’ vescovi, gl’infimi impiegati alle giurisdizioni [p. 57 modifica]ecclesiastiche. gli esattori delle decime, i servi, i coabitanti, le stesse (un tempo) concubine de’ preti.

La corte di Roma per amore di Carlo e per buon consiglio di serbarsi amico re fortunato e vicino, concordò che scemassero le tre specie di immunità. Gli antichi beni della Chiesa d’allora innanzi pagassero la metà de’ tributi comuni; i nuovi acquisti l’intero: il censo dello stato separasse dal patrimonio del clero le proprietà laicali confuse in esso per malizia o errore; le franchige fossero ridotte; i favori d’uso rivocati. Si ristringesse alle chiese l’asilo, che rimarrà per pochi falli e leggieri. Definito lo stato ecclesiastico e ridotte le immunità personali, la giurisdizione vescovile fosse circoscritta; la secolare di altrettanto ampliata: accresciute le difficoltà per le ordinazioni e le discipline de’ cherici a ristrignere il numero de’ preti. Un tribunale chiamato misto (perchè di giudici ecclesiastici e laici) decidesse le controversie che nascessero del concordato.

Le speranze de’ sapienti e de’ liberi pensatori furono in parte appagate, in parte deluse. Della investitura, della chinea, de’ donativi, de’ benefizii sul patrimonio ecclesiastico, de’ vescovadi da ridurre, de’ preti e frati da minorare, della piena abolizione degli asili, come del foro ecclesiastico e delle immunità, e, per dirla in breve, de’ maggiori interessi della monarchia non si fece parola nei patti o nelle conferenze del trattato. Abbondava l’animo a’ negoziatori napolitani; mancava la speranza del successo. Lo stesso popolo, lo stesso Carlo re, que’ medesimi che traevano benefizio dall’assoluta libertà, ignoranti o divoti, non la bramavano.

XXXVI. Il concordato diede motivo e principio a più grandi riforme: il governo interpretando, estendendo, e talora soprausando que’ patti, ordinò la giurisdizione laicale; restrinse le ordinazioni de’ preti a dieci per mille anime; negò effetto alle bolle papali non accettate dal re; impedì nuovi acquisti; bandi impotenti le censure dei vescovi. se i regnicoli vi incorressero per adempimento di leggi o di comandi del principe. Tutte o presso che tutte le contese erano decise a pro de laici, tutte le licenze del clero punite. Due padri di alto grado nell’ordine loro si opposero in causa di asilo al giudice del luogo; Carlo, fatti estrarre per forza dalla chiesa i rifugiati, sfrattò dalla provincia ignominiosamente i due frati. Devota famiglia di Abruzzo ergè chiesa in voto al santo patrono dell città; e poichè legge di Carlo vietava fondar nuove chiese senza regia permissione, comandò che quella fosse data ad uso civile o abbattuta: ma zelo di religione non permettendo alla pia famiglia mutar destino all’edifizio, fu per pubblico esempio demolita. Negò licenza di fondar nuovi collegi di gesuiti; e per le troppe insistenze e superbia dell’ordine, rammentando il voto di povertà, [p. 58 modifica]gli proibì con legge i nuovi acquisti. Simili provvidenze erano continue: e però debbe dirsi a pregio di Carlo che nelle relazioni con la Chiesa, egli prima per trattati o per leggi tolse gl’impedimenti alla civiltà, e poi per opere agevolò il sentiero a novelli progressi.

XXXVII. Per trarre giovamento da’ patti del concordato su le immunità reali, bisognava conoscere appunto i possessi della Chiesa, e similmente de’ feudi, delle comunità, de’ pii luoghi laicali, delle pubbliche fondazioni. La statistica, oggi sì chiara, era ignota in que’ tempi; ma una specie di lei (che necessariamente sorge, benchè informe, ne’ principii di ogni civiltà) si offre alla mente de’ reggitori tostochè vogliano governare un popolo non più co’ modi della prepotente ignoranza, cioè segreto ed arbitrio, ma con le regole della giustizia e la coscienza di bene operare. Tal era l’animo del re Carlo e del suo ministro: i benefizii del loro governo, poichè mancavano la scienza e le dottrine, nascevano da istinto e da amore: siccome i mali, dagli errori del tempo e dalla strettezza del loro intendimento. Era Carlo ignorante, poco meno il Tanucci, entrambo, insufficienti ad anticipare la futura civiltà, coltivavano la presente e ne spandevano i doni e le regole. Oggi tal re, tal ministro, posti a governare nazioni, le farebbero grandi o felici. E però, che la scienza amministrativa di allora era il catasto, essi l’ordinarono, introducendovi molte parti di statistica universale.

Posando l’opera su le volontarie rivelazioni, i semplici, gli onesti palesavano il vero; gli scaltri mentivano: fu mirabile sincerità ne’ migliori dello stato e negli ultimi del popolo; come le discordanze e le menzogne ne’ curiali, ne’ cherici, ne i baroni. I privilegi di alcune città mantenuti per gli editti di Filippo V e dello stesso Carlo; le terre feudali soggette alle proprie leggi: alcune immunità della Chiesa riconosciute nel concordato, impedivano la celerità del lavoro: ma essendo salda e continua L’opera del governo, il catasto fu compiuto, e comunque imperfetto triplicò la entrata pubblica, diede alcun ristoro alla classe più misera de’ cittadini; molte passate fraudi rivelò, molte per lo avvenire impedì. E più sarebbe stato il benefizio, se il Tanucci o Carlo intendevano le regole della finanza; fu mantenuto il testatico, la sola vita era cagion di tributo, si tolleravano gravezze alle spese ed all’entrate, molte rendite di doppio aspetto doppiamente pagavano al fisco, molte altre sfuggivano alle imposte, pagavano le arti e i mestieri, non pagavano le professioni dette nobili, come di medico, di avvocato, di giudice, per astuzia e brighe di costoro. Gli arrendamenti, specie di dazii indiretti, disordinavano le private industrie; quello del tabacco, vietando la coltivazione libera della pianta, per piccolo finanziero guadagno distruggeva gran frutto delle nostre terre. E [p. 59 modifica]non fa maraviglia che la finanza fosse mal regolata nel 1740, se a’ dì nostri in nessuno stato de’ più civili si vede ordinata del tutto con le regole della scienza e dell’utile universale. Frattanto il concordato, il catasto, il senno di Carlo, la parsimonia del Tanucci, fecero contento il popolo e così copioso l’erario, che soperchiando a’ bisogni bastasse a monumenti di grandezza.

XXXVIII. Ma però che breve o interrotta suole essere la felicità di un regno, sorse nuova guerra, e per essa nuovi pericoli e maggiori spese. Sin dall’anno 1737 era morto Gian-Gastone gran duca di Toscana, ultimo della casa Medicea, e spenta in lui la invilita famiglia. Filippo V e Carlo re di Napoli si chiamarono eredi al trono di Toscana; nudo titolo che non mosse alla guerra gli altri re pretendenti. Ma tre anni appresso, nel 1740, morto l’imperatore Carlo VI, si ridestò la sopita ambizione di Filippo V agli stati di Milano, Parma e Piacenza. Elisabetta sua moglie, accendeva gl’impeti del re per insazietà d’impero e per dare un trono al secondo figlio don Filippo. Era quel re di Spagna infingordo, crudelmente divoto, trascurante di governo, vario, timido, sospettoso; ma cupido di trattar la guerra per ministri. Perciò collegarsi co’ nemici della regina di Ungheria Maria Teresa figlia del morto imperatore Carlo VI, apprestare eserciti, spedirne in Italia, comandare al figlio re di Napoli di unire alle schiere spagnuole quante più potesse de’ suoi reamî, armare e muovere numeroso navilio, spandere editti, empire del grido di guerra l’Italia e l’Europa, furono concetti di un giorno, opere di breve tempo.

Gli eserciti spagnuoli retti dal duca di Montemar e dodici mila Napoletani dal duca di Castropignano si unirono a Pesaro sotto il sommo impero del Montemar. Alemanni e Savojardi, tumultuariamente radunati nella Lombardia, comandati dal conte di Lobkowitz andarono incontro al nemico. Benchè uguali le forze, uguali speranze, incerte le fortune delle due parti, pure gli Alemanni andavano arditamente, gli Spagnuoli si arrestarono a Castelfranco. E però che il duca di Modena si era accostato alle parti di Spagna, fu presa da Lobkowitz la sua città, occupata Reggio, espugnata Mirandola, ridotte Sesto e Monte-Alfonso: poco restava del ducato; e ’l Montemar, timido e lento, non soccorreva l’infelice alleato; è quasi in presenza numerando i colpi del nemico, stava come spettatore delle rovine. Alfin mosse come fuggitivo d’innanzi a Lobkowitz.

XXXIX. In quel tempo navilio inglese che il commodoro Marteen dirigeva entrò nel golfo di Napoli; e non facendo i consueti saluti a porto amico, spedì ambasciatore che ad un ministro di Carlo disse: «La gran Brettagna confederata dell’Austria, nemica della Spagna, propone al governo delle Sicilie neutralità nelle guerre [p. 60 modifica]d’Italia: se il re l’accetta, richiami le squadre napoletane dall’esercito di Montemar: se la rifiuta, si apparecchi a pronta guerra, però che l’armata bordeggiante nel golfo al primo segno bombarderà la città. Due ore si danno al re per iscegliere.» E per la esatta misura del tempo cavò di tasca l’oriuolo e disse l’ora.

Era la città senza difese di trinciere o di presidio; il porto, la darsena, la reggia non muniti, non guardati, il popolo costernato. Mancava il tempo alle opere ed al consiglio; non era militare la corte, erano timidi i ministri; e perciò turbato il senno de consiglieri tumultuariamente chiamati da Carlo, fu accettata la neutralità; e per lettere che il superbo araldo legger volle, fu comandato al duca di Castropignano di tornare con l’esercito nel regno. Altre lettere segrete narravano al Montemar i dolenti fatti di Napoli; e fogli e ambasciatori ne informarono le corti di Francia e di Spagna, e l’infante don Filippo che guerreggiava nel Milanese contro gli eserciti savojardi e tedeschi. Scomparve nel giorno istesso della fermata neutralità il navilio inglese. Carlo, tardi provvedendo alla difesa della città, fortificò il porto, alzò trinciere e batterie intorno al golfo, le munì di cannoni e soldati. E ripensando alla patita ingiuria, vedendo suscitate contro Italia le ambizioni di tutti i principi, dubbio il fine della guerra, vacillante la fede, non mai certo il sacramento di alcun re, sperò assicurare la sua corona e la quiete del regno con volgere allarmi le proprie ricchezze, le nuove entrate del fisco, le passioni e gl’interessi del popolo. Ristaurò molte navi, altre fece a nuovo; fondò fabbrica di cannoni, archibugi, macchine di guerre: coscrisse novello esercito per province, affidandone i primi officii a’ suoi soggetti; radunò armi e munizioni. Così preparato, mirando alle cose d’Italia, modesto e giusto reggeva lo stato.

Il duca di Montemar menomato degli ajuli di Napoli divenne più timoroso verso il nemico, più veloce a ritrarsi, e ’l suo re incolpandogli le sventure di quella guerra, lo ricovò e il tenne disfavorito e lontano venti leghe dalla reggia e dalla città. Il conte di Gages, di maggior fama ed animo, venne capitano agli Spaznuoli: gli animò, li mosse, combattè più volte o vincente o perdente; ma, non pari di numero al nemico, li ridusse nel territorio di Napoli dietro al Tronto. Il fortunato Lobkowitz accampò sull’altra sponda, minaccioso così per le ordinanze dell’esercito; come per gli editti della Sua regina.

La quale, ambiziosa come donna, credeva certa la conquista del reame per la novità del re, le poche milizie non usate alla guerra, ed il mobile ingegno de’ Napoletani; mentre dalle sue parti esercito grosso e vincitore, capitano felice, gran numero di partigiani nel popolo. Più incitavano l’animo regio e femminile i ministri di lei [p. 61 modifica]nella corte di Roma, e alquanti Napoletani esuli volontarii o discacciati dal governo di Carlo, uomini (conforme vuole il loro stato) poveri, speranzosi, promettitori di larghi ajuti e di congiure; instigatori alla guerra contro la patria per brama di ritorno e di vendetta, Maria Teresa, regina di Ungheria, imperatrice de’ Romani, prometteva per editto a’ popoli delle Sicilie disgravare i tributi, confermare gli antichi privilegi, altri conferirne, discacciare l’avara riprovata setta degli Ebrei, disserrare le prigioni, concedere impunità, premii, mercedi, accrescere l’annona, scemare i prezzi del vitto: e dopo ciò, vantando gli affetti del popolo alla casa di Cesare, veniva tentando le ambizioni de’ grandi, la incostanza della plebe; e simulando secreti accordi per inanimire le sue parti e insospettire il governo.

XL. E sì che il re informato di que’ fatti, adunò congresso nella reggia, ed esponendo la naturale alleanza con la Spagna, ma la fermata neutralità con l’Inghilterra, il desiderio e il bisogno di pace, ma le presenti necessità di guerra, il pericolo di muovere l’esercito, il pericolo di tenerlo ozioso, la scarsezza dell’erario, ma il danno certo di alimentare due eserciti stranieri e veder le province devastate per accampamenti e per battaglie, la fedeltà de’ popoli e la incostanza dell’umano ingegno e della fortuna, tali cose ed altre rammentando e contrapponendo, dimandava consiglio. Raro avviene nelle numerose adunanze la uniformità de’ voti, e più raro che qualche sentenza vile o timida non trovi chi la dica e chi la secondi. La guerra era meno dannosa della pace, lo starsi ozioso aspettando gli eventi era certa servitù della Spagna o dell’impero: e frattanto le opinioni del congresso pendevano per non so quale religiosa osservanza della neutralità: e ’l buon Carlo per amor di quiete, aspettando favori dal tempo e dalla sorte, irresoluto ed incerto sperdeva i giorni; quando lettere di Filippo e di Elisabetta suoi genitori, rimproveratolo di quella incertezza e tardanza, numerati i pericoli, mostrato ad esempio l’animo dell’infonte Filippo nelle ostinate guerre di Lombardia, ricordate le geste della casa, lo incitavano all’armi ed alla guerra.

Ed allora Carlo, rimosse le dubbiezze, nè più attesi i paurosi consigli del duca Montallegre (cortigiano piacevole nella reggia, sennato e valente a’ negozii di pace, non atto e non inchinato alle milizie, buon consigliero nella quiete, pessimo ne’ pericoli de’ regni) adunò e mosse le schiere, prima promulgando un editto che diceva: «La neutralità promessa all’Inghilterra offendeva gl’interessi della mia casa, gli affetti della mia famiglia, il bene del mio popolo, il debito e la dignità di re; ed io la promisi per evitare all’amata allora sprovvista città il bombardamento e i danni minacciati da un’armata inglese venuta nel golfo e nel porto [p. 62 modifica]improvvisamente nemica. Ma comunque acerba quella promessa e comunque data, perchè di re, fu mantenuta: rivocai l’esercito combattente sul Po; gli eserciti di mio padre, menomati di quello ajuto, pericolarono: i porti furono chiusi alle navi spagnuole, il commercio impedito, negati i soccorsi, e per la opposta parte tutto concesso alla bandiera della Inghilterra. Mercede a tanti danni e dolori, ricompensa di tanta fede, poderoso esercito tedesco secondato da navi inglesi, fingendo d’inseguire poche i schiere spagnuole, sta per valicare il Tronto, portar guerra negli stati di Napoli, e, se vincesse, scacciarne il re. La neutralità è dunque rotta, e rotta per essi. Io, con le forze de’ miei regni, con la giustizia della mostra causa, e co’ soccorsi che prego da Dio, andrò a confondere quegl’iniqui disegni.»

Il re medesimo volea guidare in Abruzzo venti mila soldati per unirli a que’ di Spagna, constituire una reggenza per governo dello stato, ricoverare in Gaeta la giovine sposa e la bambina di poco nata. Pubblicati gli editti e gli apparati, fu grande spavento e dolore nel popolo: cinque eletti della città, mentre la moltitudine stava mesta ed affollata nella piazza della reggia, pregarono a Carlo non disertasse il regal palagio del nome de’ Borboni: lasciasse la regina e la infanta alla fede del popolo, custoditrice più valida che i muri di Gaeta. Ma quegli, riferite le grazie, non mutò consiglio, dicendo chè in aperta città il solo timore di nemico assalto, e lo zelo medesimo delle guardie e de’ cittadini farebbero pericolo a donna incinta. Confidava nella fedeltà universale: e tanto che in quel giorno farebbe liberi tutti quei tristi e miseri tenuti prigioni per delitti di inconfidenza, partigiani di que’ Tedeschi ch’egli andava a combattere con l’armi. Usano i re tiranni imprigionare ne’ pericoli fino gl’innocenti: Carlo i rei. Le quali magnanimità divolgate produssero nel popolo tanto amore e tanto zelo che pareva famiglia, non stato. La nobiltà, dopo di aver manifestato il suo disdegno all’imperatrice regina, perchè osava tentare la sua fedeltà, con foglio scritto e per deputati rinnovò a Carlo i giuramenti: i rappresentanti della città dando al re trecento mila ducati per sostegno della guerra, promisero vettovaglie quante bisognassero agli eserciti, finchè la guerra durava; e la plebe a crocchi, a moltitudini andava gridando per la città voci augurii di felicità e di onore. Tra quali fortunati presagi la regal famiglia partì, la regina con la infanta per Gaeta, il re per gli Abruzzi dove raggiungerebbe le sue schiere.

XLI. Prima ch’elle si unissero all’esercito spagnuolo; il generale tedesco Broun con potente mano di fanti e cavalieri, passato il Tronto, campeggiava quelle estreme parti degli Abruzzi, e tuttodì le schiere combattevano: non temporeggiando, però che Broun aspettava l’esercito di Lobkowitz, e ’l conte di Gages quello di [p. 63 modifica]Carlo. Avvenne in quel tempo fatto singolare e memorabile. Un Napoletano, soldato agli stipendii spagnuoli nel reggimento dragoni, lasciato solo dai suoi compagni fuggitivi, cadde in mezzo a’ nemici: piccolo drappello di cavalieri ungheresi: veduto il suo peggio se restava a cavallo, discese, e snudata la spada, scitica per ordinanza di quel reggimento, combattè con tanta felicità e valore che uccise sette de’ nemici, altri ferì, altri fugò, sì che rimasto vincitore nel campo, raccolse le spoglia ostili, e bagnato di sangue proprio e di altrui tornò al campo spagnuolo dove, deponendo ai piedi del conte di Gages sette armi vinte, n’ebbe dalle squadre alta lode, e dal Conte duecento monete d’oro che l’onoratissimo soîdato spartì a’ commilitoni, null’altro serbando della impresa che la memoria.

Avanzavano sul Tronto per opposte strade Lobkowitz e Carlo. Vi giunsero, ed ognuno d’essi rassegnò le sue schiere, Lobkowitz, già chiaro per le geste di Boemia, reggeva ventimila fanti, seimila cavalieri; succedevano gli stormi di Transilvani, Illirici, Croati, usciti dalle loro foreste per comando della regina, e, sotto specie di guerrieri, predatori e ladroni; quindi altre truppe di fuggitivi, disertori e ladroni che guerreggiando a modo libero e leggero, erano chiamate centurie sciolte; compievano quell’esercito duemila cavalieri ungheresi che, volontarii ed arditi, a modo de’ Parti, campeggiavano vasto paese, infestavano le strade, predavano viveri, armi ed uomini, esploravano i campi e le mosse. Era dunque l’esercito tedesco forte almeno di trentacinquemila combattenti, ma la fama e la prudenza de’ capi aggrandiva il numero e la possanza. Carlo teneva il sommo impero sopra Spagnuoli e Napoletani. Erano i primi undici reggimenti di fanti, tre squadre di cavalieri, cinquecento cavalleggieri, trecento guardie a cavallo del duca di Modena, che profugo da’ suoi stati e fedele alla causa di Spagna militava sotto il conte di Gages; erano quelle guardie Ungheri la più parte passati per diserrzione agli stipendii spagnuoli; messi perciò dalla mala fortuna o dal malo ingegno nella disperata vicenda di vincere o morire. Compiva l’esercito spagnuolo (ventimila soldati) un reggimento di fanti catalani, leggieri di vesti e d’armi, atti alle imboscate, celeri a’ movimenti, sprezzatori del nemico e della morte. Il conte dGages guidava le dette schiere, usate alla guerra ma stanche. I Napoletani rassegnavano ventidue reggimenti di fanti, cinque squadroni di cavalleria (diecinovemila soldati); il duca di Castropignano n’era il capo. Cinque reggimenti erano nuovi; tutto il resto agguerito, sia in Italia sotto Montemar e l’infante Filippo, sia negli assedii delle fortezze delle due Sicilie, o per fino in Affrica presso Orano contro le ferocissime nazioni dei Mori.

Le artiglierîe d’ambe le parti abbondavano: soperchiavano nell’esercito di Carlo le macchine di guerra dirette dal conte Gazola [p. 64 modifica]piacentino, chiaro per matematiche dottrine e per ingegno; molte navi inglesi obbedivano a Lobkowitz, le proprie navi a Carlo. Prevaleva per numero l’esercito borboniano, per grido l’alemanno, Questo accampava in due linee lungo la sinistra riva del Tronto, ed aveva innanzi, come ho detto altrove, ardita mano di cavalieri e fanti che, menati dal generale Broun, campeggiavano pazzamente la diritta del fiume. Qui stavano in prima linea le squadre spagnuole, ed in seconda ed in riserva le napoletane. Il re aveva poste fe sue stanze in Castel-di-Sangro. Era il verno al declinare, Lobkowitz aspettava i tumulti del regno, e Carlo i benefizii del tempo, cioè scarsezza di viveri nel campo nemico, malattie, discordie. Stavano gli eserciti come in riposo.

XLII. Ma Lobkowitz, spinto dalle persuasioni del conte Thun ambasciatore di Cesare in Roma (vescovo caldo di guerra, capo delle infelici trame del regno) e necessitato da’ comandi della sua regina, ruppe le dimore e si apprestò agli assalti. L’entrata per gli Abruzzi era difficile perchè rotte le vie, i monti coperti di neve, povero il paese, il nemico in presenza. Preferendo le strade per Ceperano e Valmontone, memorabili nelle passate conquiste di Napoli, chiamò a sè il Broun, e, abbandonate le regioni del Tronto, si avviò verso Roma. Carlo il sapeva innanzi per lettere del cardinale Acquaviva suo legato presso l’apostolica sede; il quale, scaltro e largo ne’ doni, era informato de’ disegni de’ Cesarei dapoi che trovò nella casa del Thun chi gli tradisse i segreti del suo signore. Partito l’esercito alemanno, mosse quello del re, il primo per le molte vie dell’Umbria, il secondo per Celano e Venafro. Le apparenze della guerra mutarono, però che sembrando fuggitivi gli Alemanni, tanto animo si alzò ne’ contrarii, che allegri e tumulluanti dimandavano a Carlo di combattere. Procedendo gli eserciti secondo i proprii disegni, il conte Lobkowitz fece in Roma ingresso ambizioso, quasi trionfale, perciocchè il papa è la plebe lo accolsero come felice in Italia, e come già incontrastabile conquistatore dei vicini reami delle Sicilie; tanto l’aspetto grande e feroce dei suoi Germani, il vestito barbarico, il parlar nuovo, parevano segni e promesse di vittoria. Ma non così certo era il capitano che lento e cauto s’inoltrava, così che potè Carlo giugnere alla frontiera e, trasandando i rispetti di pusillanime coscienza e le domande o preghiere del pontefice, guidar le schiere nelle terre papali. Alcuni drappelli ungheresi, altri borboniani esplorando il cammino volteggiavano; raramente o non mai combattevano.

Stando il re con buona parte dell’esercito su la strada di Valmontone seppe dalle sue vedette vicino e potente il nemico; non erano gli ordini disposti a battaglia; non arrivate le artiglierie, le strade per recente pioggia difficili, il terreno impraticabile. Ma più [p. 65 modifica]potendo la necessità del presente, apprestata una fronte a trattenere gli Alemanni, sollecitava le altre schiere e le artiglierie; quando impetuoso temporale arrestò gli uni; e Carlo, in quel mezzo, volgendo cammino, ridusse gli altri tamultuariamente a Velletri, contento di accampare in luogo forte, e al nuovo giorno prender consiglio dalle posizioni del nemico e dagli eventi. Ed agli albori del nuovo di, mandate intorno ke scolte, collocò l’esercito in ordinanza; e udito che il nemico avanzava, dispose l’animo suo e de’ suoi a combattere. Apparvero sopra i monti le prime armi Alemanne; ed altre ad altre succedendo, l’oste intera si spiegò in linea. Ma Lobkowitz, numerate dall’alto le schiere nemiche, vista l’asprezza del terreno, pensando che la cavalleria, suo maggior nerbo, non potrebbe operare fra quelle valli, sentì venir manco l’ardire e pose le sue genti a campo, munito di artiglierie, impedimenti e trinciere, Il re seguì l’esempio. Quella terra poco innanzi designata per dar battaglia, videsi coperta di accampamenti; e tornò lenta la guerra, sperando, come da principio, Lobkowitz ne’ tumulti, Carlo nel tempo.

XLIII. La città di Velletri siede in cima di un colle, intorno al quale scende il terreno in ripide pendici, coltivate ad oliveti e vigne. Nel fondo di ogni valle, che sono tre, scorre piccolo torrente: e poi le convalli verso il settentrione e l’occidente, salendo più ardite per succedenti rupi e montagne, hanno termine al monte Artemisio, quattro miglia, o più, lontano da Velletri. Il campo di Carlo aveva il corno destro incontro al detto monte, il sinistro verso la porta che dicono Romana, il centro nella città: la fronte del campo era guardata più che munita: poco indietro a lei, sul colle de’ Cappuccini, stavano disposte a parco militare macchine, artiglierie; ed accampate molte squadre per soccorso e sostegno della prima fronte: campi minori succedevano, sia per guardia di alcun luogo, sia per comoda stanza dei soldati; così ordinate le cose che in breve tempo e per segni tutto l’esercito sarebbe in armi. Una fonte perenne che abbelliva la piazza della città e rallegrava gli abitanti mancò perchè il nemico, rompendo i canali, deviò l’acqua; ed il campo scarsamente ne aveva, con fatica e per guerra, da piccola vena scavata nel fondo di una valle, tre miglia lontano dalla città. Le vettovaglie abbondavano, provvedendole a Carlo largamente l’amore de’ soggetti.

L’esercito contrario accampato negli opposti monti spiava tutta l’oste del re, numerava gli uomini, le armi, stava coperto dalle montuosità del terreno: abbondava d’acqua, scarseggiava di viveri, benchè Roma ed altre città fruttassero a lui. Le posizioni più valide non vantaggiavano Lobkowitz, che per assaltare il campo nemico dovea portar le schiere nel fondo delle valli dominate da esercito più [p. 66 modifica]forte, Scelse altri modi: avanzando, come negli assedii, stringeva il nemico e lo molestava per colpi vicini di moschetto e cannone: scacciò da un colle, distante cinquecento passi dalla città, un reggimento spagnuolo che vi stava a campo; e munì quel luogo di trinciere e di guardie. Continui ed improvvisi assalti nel giorno, nella notte, toglievano riposo alle nostre genti. Sperava Lobkowitz che il re, vedendo i suoi travagliati da presso, pazienti alle offese, inabili ad offendere, levasse il campo; e antivedeva lietamente tutti i mali che al nemico avverrebbero, ritirandosi d’innanzi ad esercito vicino e soprastante.

XLIV. Gli stessi pericoli vide Carlo; e radunato sollecito consiglio, il conte di Gages propose ed esegui fatto ardito e memorabile. Nella notte, con quattromila soldati, per vie deserte cautamente marciò, così che giunse a’ primi albori sopra il monte Artemisio. Mille soldati lo guardavano; ma per vino, per sonno e per natural negligenza, dono lunga sicurtà, giacendo sprovveduti, un sol momento gli scoperse al nemico e gli oppresse: il capo fu preso nella tenda; altro uffiziale maggiore, desto e sollecito, resistè: ma vinto dal numero e spossato dalle ferite fu prigione, e morì: pochi nel tumulto fuggendo, andarono nunzii a Lobkowitz degl infelici successi, Si levò in armi tutto il campo alemanno; ma già dal campo di Carlo altre schiere movevano; ed il de Gages discendendo dall’Artemisio, espugnava Monte-Spino, faceva nuovi prigioni, predava artiglierie e vettovaglie. Tanta paura e disordine, e mancar di consiglio ne’ capi, di obbedienza ne soggetti, entrò nel campo de’ Cesariani, che a stormi e a truppe fuggivano verso Roma; e in Roma istessa, sentite le agitazioni, chiuse le porte, si credeva certo e vicino l’arrivo de’ due eserciti, il vinto e il vincitore.

Ma i pensieri del conte di Gages si limitavano all’Artemisio, e però preso, munito, lasciatolo in guardia di buon presidio, tornò a’ suoi pago e gonfio della impresa, superbo di prigioni, ricco di prede. In quella età più faceva l’ingegno che la scienza di guerra; i vasti ordinamenti erano rari a’ capitani di esercito, fuorchè a pochi privilegiati da natura a’ quali è istinto il sapere. Se il Gages era a dì nostri, per sole imparate regole facea succedere alla prima schiera la seconda, che fosse ajuto nelle sventure o rinforzo ne’ successi della battaglia: a segni convenuti, tutto l’esercito di Carlo attaccava la fronte del campo alemanno: scendeva de Gages da’ monti, ed assalendo a rovescio i posti nemici, gl’incalzava e spingeva gli uni su gli altri: quello era l’ultimo giorno della guerra. Ma poichè la vittoria si arrestò a mezzo corso, potè Lobkowilz raffrenare le paure, contenere i fuggitivi, ripigliare il Monte-Spino, riordinarsi. E per avere perduto il monte Artemisio tutte le posizioni degli Alemanni [p. 67 modifica]piegarono verso l’ala diritta del campo; il qual movimento fu cagione ed appoggio a maggior fatto.

Tornato uno e l’altro esercito all’usata lentezza, gli Alemanni per l’estranio clima infermavano, per penurie scontentavansi, per ingenila ribalderia desertavano; si assottigliava l’esercito. Premevano il cuore al conte Lobkowitz i danni dell’Artemisio, la mala fama che ne correva fra le sue genti e in Italia, i recenti fatti che svergognavano i vanti: ma in quel tempo il vescoro Thun accertava pronta nel regno la ribellione, sol che l’ajutassero poche forze; e la imperatrice mandava da Vienna comandi audaci ed altieri. Sì che Lobkowitz scrisse all’ammiraglio inglese, minacciasse Gaeta, e incitando i popoli, corresse le marine del regno: spedì nuovamente negli Abruzzi alcuna sua schiera, piccola di numero; ardita, che alzasse grido di vittoria, animasse i ribelli, devastasse le terre, uccidesse i fedeli a Carlo: mezzi nefandi. Sperava che il re alle mosse del regno accorrendo con buona parte dell’esercito, indebolisse il campo di Velletri; ma svanì quelle speranze l’amor de’ soggetti, che si tenne saldo e più crebbe.

XLV. Fece Lobkowitz altra pruova. Il campo di Carlo aveva debole l’ala sinistra; nella quale come lontana dal nemico e non mai turbata in quella guerra per assalti o timori, stavano i presidii, quasi in pace, negligenti: e benchè i Cesariani, dopo i fatti dell’Artemisio si fossero avvicinati a quella parte, non erano però cresciute le guardie, nè la vigilanza. Surse voce, come spesso in guerra, senz’autore, senza principio, che gli Alemanni attaccherebbero per sorpresa la sinistra del campo: non fu creduta. Ma Lobkowitz il dì 8 di agosto dell’anno 1744, chiamati a consiglio i primi e più animosi dell’esercito, disse. «Invano sperammo tumulti ne’ reami di Carlo, e scoramento, diserzioni, penurie ne suoi campi. Noi abbiamo incontro esercito forte e felice: scemano i nostri soldati per morte, infermità, e fughe. L’indugio è contro noi: a noi non resta che impresa egregia o vergognoso ritorno in Lombardia. Tenendo certa la vostra scelta, io vi espongo la impresa. Il nemico mal custodisce la sinistra del campo; il luogo debole per natura non è munito dall’arte; pochi lo guardano, e per lungo non mai turbato riposo giacciono nella notte spensierati e ubbriachi. Molte vie nella pendice della valle menano a quel punto, ed altrettante guide, non compre, amiche, ho già in pronto. Per vecchia rovinata muraglia è facile ingresso; è, appena entrati, libero cammino alla città, agli accampamenti, alla casa del re. Udite. Una colonna de’ migliori soldati, taciti dietro le guide marciando nella notte, entrando per il rotto muro, trafitte nel sonno le guardie, proceda nella città, uccidendo nel silenzio soldati e cittadini. E quando i vigili o i fuggenti abbiano destata l’oste [p. 68 modifica]nemica, i nostri, facendo subita mutazione, con grida, incendii, distruzioni e spavento, non lascino agli assalti nè tempo nè consiglio. Una mano più eletta entri in casa del re, e lo prenda; vadano gli altri ai campi, a’ parchi, distruggendo e fugando. Schiere nostre maggiori assaltino al tempo stesso il destro lato delle nemiche linee; i rimanenti si tengan pronti a’ soccorsi o alla vittoria. Se va felice l’impresa, noi compiremo in una notte i travagli della guerra: se manca, tornando alle trinciere, saremo al dì seguente, come oggi siamo, presti agli eventi ed a’ consigli. Questo io volgeva in mente (bramoso di vendetta) da quel giorno in cui perdemmo l’Artemisio: oggi io propongo a voi: risolvete.»

Tutti applaudirono; gli uni come forti, gli altri per apparire. Furono assegnate le parti: a’ generali Novali e Broun, assalire con sei mila soldati la sinistra del campo; al generale Lobkowitz, con nove mila, la diritta; al generale maggiore del campo tenere in armi e pronte le rimanenti forze: i segni, i motti di riconoscenza e d’incontro furon fermati. Giunge la notte del 10 all’11 di agosto; in sè chiudeva i destini del regno; e partono con le preparate colonne (pena la morte a chi alzasse grido, voce, o romor d’armi) Novati e Lobkowitz: il resto dell’esercito sta vegliante: Novati arriva, entra nel campo di Velletri, uccide, opprime, e inavvertito prosiegue. Un reggimento irlandese, militante per la Spagna, poco indietro accampato, è sorpreso, in parte ucciso; ma quel che rimane, destatosi, combattè: il romor della pugna e i fuggitivi avvisano il campo; e allora gli Alemanni udendo i tamburi de’ nemici e le trombe sonare allarme, si manifestano con le grida, e com’era già comandato, fracassano, ardono, abbattono una porta (quella chiamata di Napoli), entrano, e corrono la città. Appena l’alba chiariva il ciclo.

Carlo, che in casa Ginetti dormiva, è desto dalle guardie; si copre in fretta di vesti, cinge la spada, e per gli orti della casa riparasi nel campo dei Cappuccini. Fuggono il duca di Modena, l’ambasciatore di Francia, il conte Mariani sopra cavallo, (però che giaceva in letto d’infermità), il duca d’Atri nudo tra gl’incendii della casa: tutto è scompiglio in quella prim’ora. I paesani piangenti pregano pietà dal vincitore che spietato gli uccide e ruba. Molti soldati della nostra parte combattono dalle finestre. dai tetti; altri si accolgono in qualche piazza della città, e facendo mano resistono; altri con l’armi aprono un varco: molte particolari o sventure o virtù restano ignote: cadde moribondo combattendo tra’ primi Niccolò Sanseverino, fratello al principe di Bisignano: il colonnello Macdonal, chiaro nelle passate guerre, montato sopra un cavallo, grande egli stesso della persona, fermatosi nella piazza maggiore della città, alzato il braccio e la spada. grida ai soldali che [p. 69 modifica]disordinatamente fuggivano «Compagni, a me; unitevi, seguitemi,» E in questo dire una palla di archibugio tedesco troncò di lui la vita, il comando, e l’esempio. Altri ufiziali maggiori, altri capitani, tutti da prodi, morirono: ma infine per tante morti, prigionia e fuga, la città rimase deserta de’ nostri, in potere al nemico.

XLVI. Lobkowitz avvisato da’segni e dal romore di guerra de’ venturosi assalti del Novati, attacca il monto Artemisio e lo espugna; poscia il secondo e ’l terzo campo, e li fuga; combatteva la fortuna cogli Alemanni. Ma Carlo nel monte de’ Cappuccini, schierando in fretta i soldati, e passandoli a rassegna, va tra le fila dicendo «Ricordate il vostro re e la vostra virtù: se voi sarete costanti all’onore ed all’ohbedienza, vinceremo.» Manda il conte di Gages incontro a Lobkowitz; pone il duca di Castropignano contro al Novati; tiene in serbo altre squadre. Il Gages più forte del nemico, lo trattiene su i monti: Castropignano avanza verso Velletri e non incontra, come credeva, le colonne nemiche, perchè andavano spicciolate nella città, mosse da cupidigia e da libidine. I Borboniani si rincorarono; la legione Campana, or ora coscritta, è prima sotto de Gages alla vendetta ed alle venture; Castropignano, che lentamente avanzava, riceve nuovi stimoli e nuove forze dal re che in quel giorno tutte le laudi meritò di esperto e prode capitano. Ognuna delle nostre colonne procede e vince, sono ripigliati i campi e l’Artemisio, entra Castropignano în città, lo sbigottimento già nostro scende in cuore al nemico, il disordine e la fortuna mutano luogo, tornano vinti i vincitori. Degli Alemanni il duca Andreassi, capitano di forte numerosa schiera, fu gravemente ferito; il generale Novati fu preso mentre nelle stanze del duca di Modena stavasi a ragunare fogli ed argenti; due mila Tedeschi furono uccisi; il general Broun, in riserva fuori della città, veduta la sconfitta, saputa da’ fuggiti la prigionia del Novati, la strage, le rovine delle proprie genti, non attese il nemico e si riparò nelle antiche trinciere. Così Lobkowitz, lasciati sul terreno uomini, bandiere, artiglieri, tornò al campo; e se la incertezza delle strade o dell’animo non avesse rallentato il cammino del conte di Gages, e nel vallo fossero entrati co’ fuggitivi i vincenti, poco esercito restava a Lobkowitz, e nessuna speranza di futura guerra.

Il nemico era già in ordinanza dietro a’ ripari, e molti de’ suoi reggimenti non avevano combattuto. Tutti i soldati di Carlo erano stanchi dal difendersi, dall’assalire, dalle tempeste del mattino, dalle incertezze del giorno, dalle stesse fatiche della vittoria. Sonava l’ora nona, e della prima luce si combatteva; e benchè gli eserciti tornassero a campi medesimi, i Borboniani avean vinto. Pertanto il re fece suonare a raccolta, e comandò che le schiere della prima fronte attendassero nelle antiche posizioni. Si computarono i danni, [p. 70 modifica]gli acquisti; tre mila soldati di Borboniani, poco manco degli Alemanni, morti o feriti; di bandiere e di artiglierie, la perdita eguale d’ambo le parti; il grido e ’)lsentimento della vittoria per Carlo. Il quale al dì seguente rendè grazie all’esercito, lodando gli Spagnuoli del valor pari all’antico, e i Napoletani di avere agguagliato i forti della guerra. Distribuì onori e danari, chiese a’ soggetti, ed ottenne assai più della inchiesta, uomini, cavalli, vesti ed argento. Richiamò dall’Abruzzo il duca di Lavello con la sua schiera, giacchè gli Alemanni n’erano stati scacciati; sentì arrivati nel porto di Gaeta muovi reggimenti spagnuoli, che favoriti dal vento e dalla fortuna, traversando inavvertiti la flotta inglese, venivano in pochi giorni da Barcellona. Frattanto istruito da’ passati pericoli munì più fortemente l’ala sinistra ed ogni altra parte del campo, sì che dopo la battaglia tornò Carlo più potente nella forza degli eserciti, nella mente degli uomini.

XLVII. Di altrettanto indebolì la possanza, l’animo e la fama di Lobkowitz; l’ultima pruova infelice; i capi dell’esercito, come suole nelle avversità, contumaci; le penurie accresciute, i cavalli cadenti, gli uomini infermi o svogliati, imminente l’autunno; e per la guerra sventurata o varia di Lombardia, mancate le speranze di soccorso. Pur non moveva per non dar mostra di timidezza e per aspettare dal tempo e dal caso non preveduti favori. Così restò tutto l’ottobre; ma nella prima notte del novembre, tacito ed ordinato, avendo simulate nel giorno le apparenze di ferma dimora, e nella notte istessa i fuochi, le ascolte, le pattuglie, le voci de’ campi, celeremente ritrasse l’esercito verso il Tevere e lo valicò sopra due ponti, il Milvio ed un altro di barche in breve tempo costrutto. Nel vegnente mattino il re, veduta la fuga del nemico, lo inseguì; ma il timore sempre più celere della speranza fece giungere i Borboniani al fiume, quando gli Alemanni già su L’altra sponda rompevano i ponti, con tanta prestezza e tanta guardia che furono compiute le rovine sotto gli occhi dell’esercito nemico. Lobkowitz proseguì la ritirata. Carlo si fermò a Roma per rendere culto al pontefice, vedere le grandezze della città santa, e partire l’esercito in due; l’uno che sotto de Gages infestasse gli Alemanni, altro che seco tornasse nel reame. I Romani applaudirono al re con più giusti onori che prima a Lobkowitz.

Il re, partito di Roma, incontrò sul confine l’amata regina, e rimasti un giorno a Gaeta, entrarono in Napoli dove la vera gioja e gli affetti scambievoli stavano in petto e sul viso al re ed a’ soggetti. Quegli sapeva di avere adempiute le parti di capitano e di principe; sentivano i popoli di aver fornito a’ doveri di cittadini e di sudditi, ne’ quali sentimenti (sconosciuti agli schiavi e a’ tiranni) risiede la felicità dell’impero e perfino qualche dolcezza della [p. 71 modifica]obbedienza. Non dirò le feste, perchè il re ne vietò le pompa; era festa lo spettacolo e ’l contento di un regno salvato non tanto dalla possanza degli eserciti che dall’amore de’ popoli.