Spagna/VII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | VI | VIII | ► |
VII.
Quando ci si avvicina a una città sconosciuta, bisognerebbe aver accanto qualcheduno che l'avesse già vista, e ci potesse avvertire del momento opportuno per metter la testa fuori e coglierne l'aspetto con un colpo d'occhio. Ebbi la fortuna di essere avvertito per tempo. Un tale mi disse: — Ecco Toledo! — ed io saltai al finestrino, e feci un'esclamazione di meraviglia.
Toledo sorge sur un'altura rocciosa e dirupata, ai piedi della quale scorre il Tago descrivendo un'amplissima curva. Dal piano non si vedon che roccie e mura di fortezza, e di là dalle mura le cime dei campanili e delle torri. Le case son nascoste, la città vi par chiusa e inaccessibile, e meglio che d'una città vi presenta l'aspetto di una rôcca abbandonata. Dalle mura alla sponda del fiume non c'è una casa, nè un albero; tutto è nudo, secco, irto, ripido; non vi si vede anima viva; direste che per salire bisogna arrampicarsi, e vi sembra che al primo apparir d'un uomo su quei dirupi gli debba cadere addosso dall'alto delle mura una tempesta di freccie. Scendete dal treno, montate in una carrozza, arrivate all'imboccatura di un ponte. È il famoso ponte d'Alcantara, che accavalcia il Tago, sormontato da una bella porta araba in forma di torre, che gli dà un aspetto ardito e severo. Passato il ponte, vi trovate in un'ampia via che sale a larghi serpeggiamenti fino alla sommità della montagna. Qui vi par proprio di essere sotto una città forte del medio evo, e di trovarvi voi stesso nei panni d'un arabo o d'un goto o d'un soldato di Alfonso VI. Da tutte le parti vi pendon sul capo roccie scoscese, mura diroccate, torri, e rottami di antichi bastioni; e più su, l'ultimo muro di cinta della città, nero, coronato di merli enormi, aperto qua e là da grandi breccie, dietro le quali fan capolino le case prigioniere; e via via che salite, vi par che la città si ristringa e si nasconda. A mezzo la salita, incontrate la Puerta del Sol, un gioiello di architettura araba, composta di due torri merlate, che si congiungono sur una graziosissima porticina ad arco doppio, sotto la quale passa la strada antica; e di là, se vi voltate indietro, vedete giù il Tago, la pianura, i colli. Passate oltre, trovate altre mura e altre rovine; e finalmente le prime case della città.
Quale città! Sul primo momento mi sentii mancare il respiro. La carrozza aveva infilato una stradina tanto stretta che i mòzzi delle ruote toccavan quasi i muri delle case.
"Ma perchè passate di qui?" domandai al vetturino.
Il vetturino si mise a ridere, e rispose: "Perchè non c’è altra strada più larga."
"O che tutta Toledo è fatta così?" ridomandai.
"Tutta fatta così!" rispose.
"È impossibile!" esclamai.
"Vedrà!" soggiunse.
In verità non lo credevo. Scesi a un albergo, buttai in una stanza la mia valigia, e scesi le scale a precipizio per andar a vedere questa stranissima città. Un fattorino dell’albergo mi fermò sulla porta, e mi domandò sorridendo: "Dove va caballero?"
"A veder Toledo" risposi.
"Solo?"
"Solo; perchè no?"
"Ma è già stato qui altre volte?"
"Mai."
"Allora non può andar solo."
"E perchè?"
"Perchè si smarrirà."
"Dove?"
"Appena uscito."
"O la ragione?"
"La ragione è questa;" rispose, accennandomi un muro al quale era affissa una pianta di Toledo. M’avvicinai e vidi un garbuglio di linee bianche sur un fondo nero che pareva uno di quei ghirighori che fanno i ragazzi sulla lavagna per consumare il gesso a dispetto del maestro. "Non importa dissi, "voglio andar solo; e se mi smarrirò, mi troveranno." — "Non farà cento passi," osservò il fattorino. Uscii e infilai la prima strada che vidi, tanto stretta che, allargando le braccia, toccavo tutti e due i muri. Fatti cinquanta passi, mi trovai in un'altra strada più stretta della prima, e da questa riuscii in una terza, e via così. Mi pareva di girare, non per le strade d'una città, ma per gli anditi d'un edifizio; e andavo oltre coll'idea di dover riuscire da un momento all'altro in un luogo aperto. — È impossibile, — pensavo, — che la città sia tutta costruita in questa maniera; non ci si potrebbe vivere. — Ma via via che procedevo, mi sembrava che le strade si facessero più strette e più corte; ogni momento dovevo svoltare; dopo una strada curva, veniva una strada a zig-zag, dopo questa un'altra fatta ad uncino, che mi riconduceva nella prima, e così giravo per un pezzo sempre in mezzo alle stesse case. Di tratto in tratto riuscivo in un crocicchio di parecchi vicoli che scappavano in direzioni opposte, e quale si perdeva nel buio d'un portico, quale urtava, dopo pochi passi, contro il muro d'una casa, quale scendeva giù come per sprofondarsi nelle viscere della terra, quale s'arrampicava per un'erta salita; alcuni, larghi appena tanto da dar passo ad un uomo; altri stretti in mezzo a due muri senza porte e senza finestre; tutti fiancheggiati da edifizii di grande altezza, che lasciavano apparire appena una sottile striscia di cielo fra tetto e tetto; con poche finestre munite di grosse inferriate, con grandi porte tempestate di chiodi enormi, con cortili angusti ed oscuri. Camminai un pezzo senza incontrar nessuno, fin che riuscii in una delle strade principali, tutta fiancheggiata da botteghe e piena di contadini, di donne, di ragazzi; ma poco più larga d'un corridoio ordinario. Ogni cosa è proporzionato alla strada: le porte paion finestre, le botteghe paion nicchie, e vi si vedon dentro tutti i segreti della casa: la tavola apparecchiata, i bambini in culla, la madre che si pettina, il padre che si cambia la camicia; tutto è lì sulla strada; non par di essere in una città, ma in una casa abitata da una sola grande famiglia. Svolto in una strada meno frequentata, non vi si sente il ronzìo d'una mosca, il mio passo risuona fino al quarto piano degli edifizii, qualche vecchierella fa capolino alla finestra. Passa un cavallo, par che passi uno squadrone: tutti s'affacciano a guardar che cosa segue. Il più leggero rumore echeggia in ogni parte; un libro che cade in una stanza al secondo piano, un vecchio che tosse in un cortile, una donna che si soffia il naso non so dove; si sente tutto. In qualche punto cessa ad un tratto ogni rumore, siete soli, non vedete più segno di vita: son case da streghe, crocicchi da congiure, chiassuoli da tradimenti, angiporti da delitti, finestrine da colloquii d'amanti infami, porte sinistre che fanno sospettare scale macchiate di sangue. Ma pure in tutto questo laberinto di strade non ce n'è due che si somigliano; ognuna ha qualcosa di proprio; qui un arco, là una colonnetta, più oltre una scultura; Toledo è un emporio di tesori d'arte; per poco che si scrostino i muri, si scoprono in ogni parte dei ricordi di tutti i secoli: bassorilievi, arabeschi, finestrine moresche, statuette. I palazzi hanno porte munite di lastre di metallo incise, di martelli istoriati, di chiodi colle teste cesellate, di scudi, di emblemi; e formano un bel contrasto colle case moderne dipinte a ghirlande, medaglioni, amori, urne, animali fantastici. Ma questi abbellimenti non tolgono nulla all'aspetto severo e tristo di Toledo. Dovunque volgiate lo sguardo, v'è qualche cosa che vi rammenta la città forte degli Arabi; per poco che la vostra immaginazione lavori, riesce a ricomporre, coi tratti rimasti qua e là, tutto il disegno del quadro cancellato, e allora l'illusione è completa; rivedete la gran Toledo del medio evo; e dimenticate la solitudine e il silenzio delle sue strade. Ma è un'illusione di pochi istanti, dopo la quale ricadete in una trista meditazione, e non vedete più che lo scheletro della città antica, la necropoli di tre imperi, il grande sepolcro della gloria di tre popoli. Toledo vi rammenta i sogni fatti da giovanetti dopo la lettura di leggende romanzesche del medio evo. Voi avrete visto molte volte, nei sogni, delle città oscure, cinte di fossi profondi, di mura altissime, di roccie inaccessibili; e sarete passati su quei ponti levatoi, e sarete entrati in quelle strade torte ed erbose, ed avrete respirato quell'aria umida di prigione e di tomba. Ebbene, avete sognato Toledo.
La prima cosa a vedersi, dopo l'aspetto generale della città, è la Cattedrale, che vien considerata a giusto titolo come una delle più belle del mondo. La storia di questa Cattedrale, stando alla tradizione popolare, rimonta sino ai tempi dell'Apostolo Santiago, primo vescovo di Toledo, che avrebbe designato il luogo dove venne innalzata; ma la costruzione dell'edifizio tal quale oggi si ammira, fu cominciata nel 1227, sotto il regno di San Ferdinando, e terminata dopo duecento e cinquant'anni di lavoro quasi continuo. L'aspetto esterno di questa immensa chiesa non è nè ricco nè bello come quello della cattedrale di Burgos. Davanti alla facciata si stende una piccola piazza, ed è il solo punto d'onde si possa abbracciare collo sguardo una vasta parte dell'edifizio; tutt'intorno corre una stradicciuola, dalla quale, per quanto si torca il collo, non si vede che l'alto muro di cinta che chiude la chiesa come una fortezza. La facciata ha tre grandi porte, chiamate l'una del Perdono, l'altra dell'Inferno, la terza del Giudizio; ed è fiancheggiata da una robusta torre, che termina in una bella cupola ottagona. Per quanto, girando intorno all'edifizio, si sia visto che è immenso, al primo entrare si è colpiti da un senso profondo di meraviglia; e subito dopo da un altro vivissimo piacere, che vien da quella freschezza, da quella quiete, da quell'ombra soave, e da una misteriosa luce, la quale penetrando per le vetrate a colori di innumerevoli finestre, si frange in mille raggi azzurri, gialli, rosei, che guizzano qua e là lungo gli archi e le colonne come striscie d'arcobaleno. La chiesa è formata da cinque grandi navate divise da ottantotto pilastri enormi, composti ciascuno di sedici colonne fusate, e strette come un fascio di lancie; una sesta navata taglia ad angolo retto queste cinque, passando fra l'altar maggiore ed il coro; e la volta della navata principale si alza maestosamente sull'altre, che sembrano curvarsi come per renderle omaggio. La luce variopinta e il color chiaro della pietra danno alla chiesa come un'aria di raccolta letizia che tempera l'aspetto malinconico dell'architettura gotica, senza nulla togliere alla sua gravità austera e pensosa. Passar dalle strade di quella città fra le navate di quella Cattedrale, gli è come passar da una segreta a una piazza: si guarda intorno, si respira, si risente la vita.
L'altar maggiore, a volerlo considerar per la minuta, richiederebbe altrettanto tempo che la chiesa intera; è una chiesa, è un visibilio di colonnine, di statuette, di fogliami, d'ornamenti svariatissimi, che sporgon lungo gli spigoli, s'alzano sopra gli architravi, serpeggiano intorno alle nicchie, si sostengono l'un l'altro, si ammontano, si nascondono, presentando in ogni parte mille profili, e gruppi, e scorti, e dorature, e colori, e ogni maniera di artifiziose leggiadrie, che porgon tutte insieme l'aspetto di una magnificenza piena di decoro e di grazia. Di fronte all'altar maggiore è il coro, diviso in tre ordini di seggiole meravigliosamente scolpite da Filippo di Borgogna e dal Berruguete, con bassorilievi rappresentanti fatti storici, allegorici, sacri, che si considerano come uno dei più insigni monumenti dell'arte. In mezzo, in forma di trono, è il seggio dell'arcivescovo; intorno, un giro di enormi colonne di diaspro; sugli architravi, delle statue colossali d'alabastro; ai due lati, degli enormi pulpiti di bronzo con suvvi dei messali giganteschi, e due smisurati organi, l'uno di fronte all'altro, dai quali par debba prorompere da un istante all'altro un torrente di note da far tremare le volte.
Il piacere dell'ammirazione, in queste grandi cattedrali, è quasi sempre turbato dai ciceroni importuni che vogliono ad ogni costo che vi divertiate a modo loro. E per mia disgrazia mi ebbi a persuadere che i ciceroni spagnuoli sono i più ostinati della razza. Quand'uno di costoro s'è fitto in capo che voi avete da passar la giornata con lui, è finita. Potete scrollar le spalle, non rispondere, lasciar che si sfiati senza neanco voltare il viso, girare per conto vostro come se non l'aveste veduto: è tutt'uno. In un momento d'entusiasmo, dinanzi a un quadro o a una statua, vi sfugge una parola, un gesto, un sorriso: basta, siete legato, siete suo, siete preda di questa implacabile pieuvre umana, che come quella di Victor Hugo, non lascia la vittima che a tagliarle la testa. Mentre stavo contemplando le statue del Coro, vidi colla coda dell'occhio uno di codeste pieuvres, un vecchietto mezzo sfatto, che mi si avvicinava a lenti passi, di sbieco, come un sicario, guardandomi coll'aria di dire: — Ci sei. — Io continuai a guardar le statue; il vecchio mi venne accanto, e si mise anch'egli a guardare; poi ad un tratto mi domandò: "Vuol che l'accompagni?"
"No," risposi, "non m'occorre."
Ed egli senza scomporsi: "Sa chi era Elpidio?"
La domanda era così strana, che non potei trattenermi dal domandare alla mia volta: "Chi era?"
"Elpidio," rispose, "fu il secondo vescovo di Toledo."
"E con questo?"
"E con questo.... fu il vescovo Elpidio che ebbe l'idea di consacrare la chiesa alla Vergine, che è la ragione per la quale la Vergine venne a visitare la chiesa."
"O come si sa?"
"Come si sa? si vede."
"Volete dire che s'è visto."
"Voglio dire che si vede ancora: abbia la bontà di venir con me."
Ciò dicendo si mosse, ed io, curiosissimo di sapere qual fosse questa prova visibile della discesa della Vergine, lo seguii. Ci fermammo davanti a una specie di tabernacolo, vicino a uno dei gran pilastri della navata del mezzo. Il cicerone mi mostrò una pietra bianca incastrata nel muro, coperta da una rete di ferro, e con intorno questa iscrizione:
«Quando la reina del cielo |
"Dunque," domandai "la Santa Vergine ha messo proprio il piede su questa pietra?"
"Proprio su questa pietra," mi rispose, e fatto passare un dito tra i fili di ferro della rete, e toccata la pietra, si baciò il dito, si fece il segno della croce e mi accennò come per dirmi: "A lei."
"A me?..." risposi; "oh in verità, amigo, non posso."
"Porqué?"
"Porque no me siento digno de tocar aquella piedra divina."
Il cicerone capì, e guardandomi fisso con uno sguardo serio, mi domandò: "Usted no cree?"
Io guardai un pilastro. Allora il vecchio mi fece cenno che lo seguissi, e si mosse verso un angolo della chiesa, mormorando con aria di tristezza: "Cadauno es dueño de su alma." Ciascuno è padrone dell'anima sua. Un chiericotto ch'era là vicino, e che aveva indovinato la cosa, mi lanciò uno sguardo che pareva una frecciata, e brontolando non so che, s'allontanò dalla parte opposta.
Le cappelle sono quali convengono a una tal chiesa; quasi tutte racchiudono qualche bel monumento; nella cappella di sant'Jago, dietro l'altar maggiore, sono due magnifiche tombe d'alabastro, che contengono i resti del connestabile Alvaro di Luna e di sua moglie; nella cappella di sant'Idelfonso, la tomba del cardinale Gil Carillo di Albornoz; nella cappella de los Reyes nuevos, le tombe di Enrico II, di Giovanni II, di Enrico III; nella cappella del Sacrario, una stupenda corona di statue e di busti di marmo, d'argento, d'avorio, d'oro, una collezione di croci e di reliquie d'instimabile valore, i resti di santa Leucadia e di santa Eugenia chiusi entro due casse d'argento cesellate con finissimo lavoro.
La cappella Mozarabe, che corrisponde alla torre della chiesa, e fu costrutta per perpetuare la tradizione del primitivo rito cristiano, è forse la più meritevole d'attenzione. Una delle pareti è tutta coperta da un dipinto a fresco, gotico, rappresentante un combattimento fra i mori e i toledani, meravigliosamente conservato fin nelle più delicate sfumature. È un dipinto che vale un libro di storia. Vi si vede Toledo di quei tempi, con tutte le sue mura e le sue case; le assise dei due eserciti, le armi, i volti, ogni cosa eseguito con una finitezza ammirabile e non so quale speziosità, di colorito, che risponde perfettamente alla idea vaga e fantastica che ci formiamo di quei secoli e di quella gente. Altri due dipinti a fresco, laterali al primo, rappresentano i navigli che portan gli Arabi in Spagna, e anch'essi offrono mille minuti particolari della marina medioevale e quell'aria, se così posso dire, dei tempi, che fa pensare e veder mille cose non rappresentate nel quadro, come una musica lontana quando si guarda un paesaggio.
Dopo le cappelle si va a veder la sacrestia, nella quale sono accumulate tante ricchezze che basterebbero a restaurar di punto in bianco le finanze della Spagna. V'è tra le altre una vastissima sala, nella cui vòlta si vede un dipinto a fresco di Luca Giordano, che rappresenta una visione di paradiso, con una miriade di angeli, di santi, di figure allegoriche che spaziano nell'aria o sporgono, che paion scolpite, fuor della cornice delle pareti, in mille atteggiamenti arditissimi, e mosse e scorci da far sbalordire. Il cicerone, accennandovi aquel prodigio de imaginacion y de trabajo, che a detta di tutti gli artisti, per servirmi d'una curiosissima espressione spagnuola, è di un merito atroz, (d'un merito atroce); vi suggerisce di guardare attentamente il raggio di luce che scende dal mezzo della volta fin contro la parete. Voi guardate, e fate, guardando, un giro per la sala, e dovunque vi troviate, vi pare che quel raggio vi cada a piombo sul capo. Da quella sala passate in una stanza pure mirabilmente dipinta a fresco dal nipote del Berruguete, e da questa in una terza dove un sacrestano vi spiega sotto gli occhi i tesori della Cattedrale: gli enormi candellieri d'argento, le pissidi scintillanti di rubini, gli ostensorii tempestati di diamanti, i paramenti di damasco ricamati in oro, le vesti della Vergine coperte di rabeschi, di fiorami e di stelle di perle, che ad ogni ondeggiamento del tessuto mandan bagliori e lampi di mille colori, a cui regge lo sguardo a fatica. Un'ora vi riesce scarsa per veder di sfuggita tutta quella mostra di tesori, che basterebbero a saziar l'ambizione di dieci Regine e ad arricchir gli altari di dieci basiliche; e quando il sacrestano, dopo avervi fatto vedere ogni cosa, cerca negli occhi vostri l'espressione della meraviglia, non vi trova che quella d'uno stupore attonito, che accusa l'immaginazione vagante altrove, lontano, nelle reggie favolose delle leggende arabe, dove i genii benefici accumulano tutte le ricchezze sognate dall'ardente fantasia dei Sultani innamorati.
Era la vigilia del Corpus Domini, e nella sacrestia si preparavano le robe per la processione. Nulla di più sgradevole, e di più sconveniente alla queta e nobile maestà della chiesa, che quell'affaccendamento da teatro che vi si vede in quelle occasioni. Par proprio di essere dietro le quinte d'un palco scenico la sera d'una prova generale. Dall'una all'altra sala della sacrestia andavano e venivano con grande strepito monelli scamiciati, portando gran bracciate di camici, di stole e di piviali; qui un sacrestano di cattivo umore apriva e sbatteva imposte d'armadi; là un prete tutto rosso in viso chiamava con voce stizzosa un chierico che non sentiva; altri preti attraversavano la sala di corsa, coi paramenti metà indossati, metà strascicanti; chi rideva, chi strillava, chi parlava da una stanza all'altra ad alta voce; per tutto si sentiva un fruscìo di sottane, un respirare affannoso, un pestìo, un tramenìo da non dirsi.
Andai a vedere il claustro; ma poichè era aperta la porta della chiesa per la quale ci si va, lo vidi prima d'entrarvi. D'in mezzo alla chiesa si scorge una parte del giardino del claustro, un gruppo di grandi alberi frondosi, un boschetto, un mucchio di rigogliosa verzura che par che chiuda la porta, e si mostra come inquadrato sotto un arco elegante e in mezzo a due svelte colonne del portico che ricorre tutt'intorno. È una vista deliziosa che fa pensare ai giardini orientali, veduti tra mezzo alle colonne delle moschee. Il claustro è vasto, e circondato di un portico di forme leggiadre e severe; i muri sono coperti di grandi dipinti a fresco. Qui il cicerone mi consigliò di riposare un poco per prepararmi a salire sul campanile; m'appoggiai a un muricciuolo, all'ombra d'un albero, e stetti là fin che mi risentii in forze per fare, come si dice volgarmente, un'altra camiciata. Intanto il mio duca mi celebrava in un linguaggio ampolloso le glorie di Toledo, spingendo l'impudenza dell'amor di patria fino a chiamarla una gran ciudad comercial che poteva rivender Barcellona e Valenza, e una città forte da stancare, a un bisogno, dieci eserciti tedeschi, e millanta batterie di cannoni Krupp. Ad ogni sua spacconata, io rincaravo la dose, e il buon uomo ci si coccolava con un gusto infinito. Quanto c'è da divertirsi, a saperli far cantare! Finalmente, quando l'altero Toledano si sentì gonfio di gloria da non capir più dentro al claustro, mi disse: — Podemos ir, — e s'avviò verso la porta del campanile.
Arrivati a metà altezza, ci fermammo per pigliar fiato. Il cicerone bussò a una porticina, e uscì un cazzabubbolo di sacrestano che aperse un'altra porta e mi fece entrare in un corridoio, nel quale vidi una schiera di giganteschi fantocci bizzarramente vestiti; quattro dei quali (mi disse il cicerone) rappresentavano l'Europa, l'Asia, l'America, l'Affrica, e due altri la Fede e la Religione; ed eran fatte in modo che un uomo potesse nascondervisi dentro e sollevarli da terra. "Se sacan" (si tiran fuori), soggiunse il sacrestano, "en ocasion de las fiestas reales, e si portano in giro per la città;" e per farmi veder in che modo, s'infilò sotto le gonnelle dell'Asia. Poi mi condusse in un angolo dove era un mostro enorme che, toccato non so come, scoteva un lunghissimo collo, e una testaccia orribile, facendo un rumore assordante. Ma non mi seppe dire che cosa quel brutto arnese significasse, e m'invitò invece ad ammirare la meravigliosa immaginazione spagnuola che creò tantas cosas nuevas da venderne a tutti i mondi che nuotano nell'infinito. Ammirai, pagai, e ripresi la salita colla mia pieuvre toledana. Dall'alto del campanile si gode un colpo d'occhio stupendo: la città, i colli, il fiume, un vastissimo orizzonte, e sotto, la gran mole della Cattedrale che pare una montagna di granito. Ma v'è un'altra altezza, poco lontano di là, dalla quale si vede meglio ogni cosa; e però mi trattenni sul campanile pochi momenti, tanto più che in quell'ora splendeva un sole ardentissimo che confondeva tutti i colori della città e della campagna in un oceano di luce.
Dopo la Cattedrale, il mio cicerone mi condusse a vedere la famosa chiesa di San Juan de los Reyes, posta sulle rive del Tago. La mente mi si turba ancora a pensare ai giri e rigiri che dovemmo fare per andarvi. Era mezzogiorno, le strade deserte; via via che ci allontanavamo dal centro della città, la solitudine si faceva più trista; non si vedeva una porta nè una finestra aperta, non si sentiva il più leggero rumore. Un momento ebbi il sospetto che il cicerone fosse di balla con qualche assassino per tirarmi in un luogo appartato e farmi spogliare; una faccia sospetta l'aveva; e poi guardava qua e là coll'aria sospettosa, di chi medita un delitto. "C'è ancora molto?" domandavo io di tratto in tratto; ed egli rispondeva sempre: "Aqui está," e non si arrivava mai. A un certo punto la mia inquietudine si cangiò in spavento: in una stradetta tortuosa si aperse una porta, usciron due uomini barbuti, salutarono con un cenno la pieuvre, e ci vennero dietro. Mi tenni per spacciato. Non c'era che un mezzo di salvamento: menare un pugno al cicerone, da sbatterlo in terra, passare sulla sua carcassa e pigliar la corsa. Ma per dove? E d'altra parte mi vennero in mente gli sperticati elogi che prodiga il Thiers alle jambes espagnoles nella sua Storia della guerra d'Indipendenza; e pensai che lo scappare non sarebbe stato che un espediente per farmi piantare il pugnale nella schiena invece che nello stomaco. Ohimè! morire senza veder l'Andalusia! Morire dopo aver preso tanti appunti, dopo aver dato tante mancie, morire colle tasche piene di lettere di raccomandazione, col portamonete gonfio di dobloni, col passaporto coperto di firme, morire tradito! Come Dio volle, alla prima svoltata, i due barbuti sparirono, e fui salvo. Allora, tocco dal pentimento d'aver sospettato che quel povero vecchio fosse capace d'un delitto, passai alla sua sinistra, gli offersi un sigaro, gli dissi che Toledo valeva due Rome, gli feci mille finezze. Finalmente arrivammo a San Juan de los Reyes.
È una chiesa che pare un palazzo reale. La parte più alta è coperta da una terrazza circondata d'un parapetto traforato e scolpito, sul quale si innalza una corona di statue di re; e nel mezzo sorge una bella cupola esagonata che completa con bella armonia l'edifizio. Dai muri pendono lunghe catene di ferro che furon tolte ai prigionieri cristiani dopo la conquista di Granata, e che insieme al color fosco della pietra, danno alla chiesa un aspetto severo e pittoresco. Entrammo, attraversammo due o tre grandi stanze nude e senza pavimento, ingombre di mucchi di terra e di rottami, salimmo una scala, e riuscimmo sur un'alta tribuna dentro la chiesa, che è uno dei più belli e nobili monumenti dell'arte gotica. È una sola grande navata, divisa in quattro vòlte, i cui archi s'incrociano sotto ricchi rosoni. I pilastri sono coperti di ghirlande e di rabeschi; i muri, ornati d'una profusione di bassorilievi, con enormi scudi dalle armi di Castiglia e d'Aragona, aquile, chimere, animali araldici, fogliami, iscrizioni emblematiche; la tribuna, traforata e scolpita con ricca eleganza, gira tutto intorno; il coro è sostenuto da un arco arditissimo; il colore della pietra è grigio chiaro, e ogni cosa è ammirabilmente finito ed intatto, come se la chiesa fosse stata fabbricata pochi anni prima, invece che sul finire del secolo decimoquinto.
Dalla chiesa scendemmo nel claustro che è una vera meraviglia d'architettura e di scultura. Colonne svelte e gentili, che si potrebbero spezzare in due con un colpo di martello, somiglianti a fusti d'alberelli, sostengono i capitelli sopraccarichi di statuette e di ornamenti, dai quali si spiccano, come curvi rami, archi ornati di fiori, d'uccelli, d'animali grotteschi e d'ogni maniera di fregi. I muri sono coperti d'iscrizioni in carattere gotico, frammiste a fogliami e rabeschi delicatissimi. Dove sia che si guardi, si trovan congiunte la grazia e la ricchezza con un'armonia che innamora; in un eguale spazio, non si poteva accumulare, con arte più squisita, una maggior copia di cose più gentili e più belle; è un lussureggiante giardino di scultura, è una gran sala addobbata di ricami, di trapunti e di broccati di marmo, un gran monumento maestoso come un tempio, magnifico come una reggia, delicato come un giocattolo, grazioso come un mazzo di fiori.
Dopo il claustro c'è da vedere un Museo di pittura, che non contiene se non quadri di poco pregio; e poi il Convento, coi suoi lunghi corridoi, colle sue scale anguste, colle sue celle vuote, già vicino in più punti a cadere in rovina, in altri già rovinato; per tutto nudo e squallido come un edifizio incendiato.
Poco lontano da San Juan de los Reyes, v'è un altro monumento degno d'esser veduto; un curioso ricordo dell'epoca giudaica; la sinagoga designata ora col nome di Santa Maria Blanca. Si entra in un giardino incolto, si picchia alla porta d'una casa d'aspetto meschino, la porta s'apre... È un senso piacevolissimo di meraviglia, una visione d'Oriente, la rivelazione improvvisa d'un'altra religione e d'un altro mondo. Si vedono cinque strette navate, divise da quattro lunghe file di pilastrini ottagoni, che sostengono tanti archi turcheschi appoggiati su capitelli di stucco di forme diverse; il soffitto di legno di cedro, diviso in scompartimenti uguali; qua e là, sui muri, arabeschi e iscrizioni arabe; la luce che viene dall'alto; ogni cosa bianco. La sinagoga fu ridotta dagli Arabi a moschea; la moschea, ridotta a chiesa dai Cristiani; di modo che essa non è propriamente nessuna delle tre cose; ma serba però il carattere di moschea, e l'occhio vi spazia con diletto, e l'immaginazione insegue di arco in arco le fuggenti immagini di un paradiso voluttuoso.
Visto Santa Maria la Blanca, non mi sentii più la forza di veder altro; e respingendo tutte le proposte tentatrici del cicerone, gli ordinai di ricondurmi all'albergo. Dopo un lungo andare per un labirinto di stradette solitarie, arrivammo; misi una peceta y media nella mano del mio innocente assassino, che trovò la mancia scarsa, e mi domandò ancora (quanto risi della parola!) una piccola gratificacion; ed entrai nella sala da pranzo a mangiare una costoletta, o chuleta (che si legge ciuleta), come la chiamano gli Spagnuoli con un nome che farebbe arricciar il naso in qualche provincia d'Italia.
Verso sera andai a vedere l'Alcazar. Il nome fa sperare un palazzo arabo; ma d'arabo non gli resta che il nome; l'edifizio che si ammira oggidì, fu costrutto sotto il regno di Carlo V, sulle rovine d'un castello, che esisteva già nel secolo ottavo benchè non se ne trovino che vaghe indicazioni nelle cronache del tempo. Questo edifizio sorge sur un'altura a cavaliere della città, di modo che si vedon le sue mura e le sue torri da tutti i punti un po' alti delle strade, e il forestiero se ne può servire di guida per non smarrirsi nel labirinto. Salii sull'altura per una larga strada serpeggiante come quella che conduce dal piano alla città, e mi trovai davanti alla porta dell'Alcazar. È un immenso palazzo quadrato, agli angoli del quale si innalzano quattro grosse torri, che gli danno un aspetto formidabile di fortezza. Davanti alla facciata si stende una vasta piazza, e tutt'intorno una cintura di baluardi merlati alla foggia orientale. Tutto l'edifizio è di un vigoroso color calcare, svariato di mille sfumature da quel potente pittore di monumenti che è il torrido sole del Mezzogiorno; e reso più vivo dal limpidissimo cielo, sul quale si disegnano i contorni maestosi delle mura. La facciata è scolpita a rabeschi con un gusto pieno di nobiltà e d'eleganza. L'interno del palazzo corrisponde al di fuori: è un vasto cortile cinto di due ordini sovrapposti di archi graziosi sostenuti da leggiere colonne; con una monumentale gradinata di marmo, che s'alza nel mezzo del lato opposto alla porta, e si divide, a poca altezza dal suolo, in due branche, che menano, l'una a destra e l'altra a sinistra, nell'interno del palazzo. Per godere la bellezza del cortile bisogna andarsi a porre dove la scala si biforca, là si abbraccia con uno sguardo tutta l'armonia dell'edifizio che produce un senso di allegrezza e di piacere come un gran concerto musicale di gente sparpagliata e nascosta.
Fuor che il cortile, le altre parti dell'edifizio, le scale, le stanze, i corridoi, ogni cosa è rovinato o cade in rovina. Ora si sta lavorando per ridurre il palazzo ad uso di collegio militare, s'imbiancano i muri, si rompon le pareti per far grandi dormentorii, si numerano le porte, si converte la reggia in caserma. Restano però intatti i grandi sotterranei che servivan di scuderie al tempo di Carlo V, e che possono contenere ancora parecchie migliaia di cavalli: il custode mi fece affacciare a un finestrino, dal quale vidi un abisso che mi diede un'idea della loro vastità. Poi salimmo per una serie di scale malferme in una delle quattro torri; il custode aperse colle tanaglie e col martello una finestra inchiodata, e mi disse coll'aria di chi annunzia una meraviglia: — Mire Usted! —
È un panorama immenso. La città di Toledo si vede a volo d'uccello, strada per strada, casa per casa, come se ne vedrebbe la pianta stesa sovra una tavola; qui la Cattedrale che s'alza sulla città come uno smisurato castello, e fa parer piccini come casette da giocattolo tutti gli edifizi circostanti; là la terrazza coronata di statue di San Giovanni dei Re; in un altro punto le torri merlate della porta nuova; il circo dei tori; il Tago che scorre ai piedi della città in mezzo a due sponde rocciose; di là dal fiume, accanto al ponte di Alcantara, sur una rupe scoscesa, le rovine dell'antico castello di San Servando; più oltre una verde pianura, e di là roccie e colli e monti a perdita d'occhio, e su, un cielo purissimo, e il sole cadente che indora la sommità dei vecchi edifizii e fa scintillare il fiume come una immensa fascia d'argento.
Mentre io contemplavo quel magico spettacolo, il custode, che aveva letto la storia di Toledo e lo voleva far sapere, mi raccontava ogni sorta di storielle, con quel fare tra poetico e faceto, che è proprio degli Spagnuoli del mezzogiorno. Prima d'ogni cosa, mi volle far conoscere la storia delle opere di fortificazione, e benchè dove egli diceva di veder netto e distinto quello che m'accennava, io non vedessi nulla di nulla, riuscii a capire qualcosa.
Mi diceva che Toledo era stata cinta di mura tre volte, e che si vedevano ancora chiaramente le traccie di tutte e tre le cinte. "Guardi," diceva, "segua la linea che descrive il mio dito: quella è la cinta romana, la più stretta, e se ne vedono ancora i ruderi. Ora guardi più in là. Quell'altra, più ampia, è la cinta gotica. Ora descriva collo sguardo una curva che abbracci le due prime: quella è la cinta araba, la più recente. Ma gli Arabi hanno fabbricato anche una cinta ristretta sulle rovine della cinta romana... Questa la vedrà facilmente. Ora osservi la direzione delle strade che convergono verso il punto più alto della città, segua la linea dei tetti, di qui, così: vedrà che tutte le strade vanno su a zig-zag; e sono state fatte apposta in questo modo per poter difendere la città anche dopo che fossero perdute le mura; e le case sono state fabbricate così serrate l'una contro l'altra, per poter saltare di tetto in tetto; si vede; e poi gli Arabi l'han lasciato scritto; ed è per questo che mi fan ridere i signori spagnuoli di Madrid che vengon qui e dicono: — Poh! che strade! — Si vede che non sanno un'acca di storia; se ne sapessero un tantino, se leggessero, un po' invece di passar la giornata al Prado e a Recoletos, capirebbero che le strade strette di Toledo hanno il loro perchè, e che Toledo non è una città per gl'ignoranti."
Io mi misi a ridere.
"Non crede?" continuò il custode; "gli è un fatto sacrosanto. Non più d'una settimana fa, per citarle un caso, venne qui un bellimbusto di Madrid colla sua sposa. Già, salendo le scale, avevano detto roba da chiodi della città, delle strade strette, delle case nere. Quando s'affacciarono a questa finestra, e videro quelle due vecchie torri laggiù nella pianura, sulla riva sinistra del Tago, mi domandarono che fossero, ed io risposi: Los palacios de Galiana. — Oh! che bei palazzi! — esclamarono e si misero a ridere, e guardarono da un'altra parte. Perchè? Perchè non sapevano la storia. Ora neanco lei, m'immagino, non la saprà: ma lei è straniero, e la cosa cambia. Sappia dunque che il grande imperatore Carlomagno è venuto, quand'era giovanissimo, a Toledo. Regnava allora il re Galafro, e abitava in quel palazzo. Il re Galafro aveva una figliuola che si chiamava Galiana, bella come un angelo; e siccome Carlomagno fu ospitato dal Re e vedeva ogni giorno la principessa, se ne innamorò con tutte le forze dell'anima, e la principessa, di lui. Ma c'era un rivale di mezzo, e questo rivale era il re di Guadalajara, un moro gigante, di una forza erculea e d'un coraggio da leone. Questo re, per poter vedere la principessa senza farsi scorgere, aveva fatto aprire una strada sotterranea che andava nientemeno che dalla città di Guadalajara fin sotto le fondamenta del palazzo. Ma che vale? la principessa non lo potea vedere neanche dipinto, e quante volte egli veniva, tante volte lo rimandava colle trombe nel sacco. Ma non per questo il re, innamorato, smise di farle la corte; e tanto le stette attorno, che Carlomagno, il quale non era uomo da lasciarsene imporre, come lei può capire, perdette la pazienza, e per farla finita una volta, lo sfidò. Si batterono; la lotta fu terribile; ma il moro, con tutto che fosse un gigante, ebbe la peggio. Quando fu morto, Carlomagno gli tagliò la testa, e andò a deporla ai piedi della sua innamorata, che gradì la delicatezza dell'offerta, si fece cristiana, diede la mano di sposa al principe, e partì con lui per la Francia, dove fu acclamata imperatrice."
"E la testa del moro?"
"Lei ha voglia di ridere; ma son fatti sacrosanti. Vede laggiù, nel punto più alto della città, quell'edifizio antico? È la chiesa di San Ginés. E sa che cosa c'è dentro? Dentro c'è nientemeno che la porta d'un sotterraneo che si stende fino a tre leghe fuori di Toledo. Lei non lo crede: sentirà. Nel luogo dove sorge ora la chiesa di San Ginés, v'era una volta, prima che gli Arabi invadessero la Spagna, un palazzo incantato. Nessun re aveva mai avuto il coraggio d'entrarvi; e quelli che forse si sarebbero sentiti da tanto, non ci erano entrati, perchè, giusta la tradizione, il primo che avesse oltrepassato quelle soglie, sarebbe stato la perdizione della Spagna. Finalmente il re Rodrigo, prima di partire per la battaglia di Guadalete, sperando di trovar là dentro dei tesori che gli fornissero il modo di combattere l'invasione degli Arabi, fece rovesciar le porte, e preceduto dai suoi guerrieri che gli rischiaravan la via, entrò. A gran fatica riparando le fiaccole dal vento furioso che tirava per gli anditi sotterranei, arrivarono in una stanza misteriosa, nella quale videro un cofano, sul quale stava scritto: — Chi mi aprirà, vedrà meraviglie. — Il Re ordinò che lo si aprisse; con incredibili sforzi si riuscì ad aprirlo; ma invece dell'oro e dei diamanti, non vi si trovò che una tela rotolata, sulla quale eran dipinti degli arabi armati, con sotto questa iscrizione: — La Spagna sarà tra poco distrutta da costoro. — Quella notte stessa scoppiò una violenta tempesta, il palazzo incantato cadde, e poco tempo appresso gli Arabi entrarono in Spagna. Pare che lei non creda!"
"Che cosa dite! E come credo!"
"Ma questa storia è legata con un'altra. Lei sa, senza dubbio, che il conte Giuliano, comandante della fortezza di Ceuta, tradì la Spagna, lasciando passare gli Arabi, ai quali avrebbe potuto sbarrare la strada. Ma non può sapere perchè il conte Giuliano ha tradito. Il conte Giuliano aveva una figliuola a Toledo, e questa figliuola andava ogni giorno a bagnarsi nel Tago, insieme a parecchie fanciulle sue amiche. Disgrazia volle che il luogo dove andavano a bagnarsi, che si chiama oggi Los baños de la Cava, fosse vicino a una torre, nella quale il re Rodrigo soleva passar le ore bruciate. Un giorno la figliuola del conte Giuliano, che si chiamava Florinda, stanca di sguazzare nell'acqua, sedette sulla sponda del fiume, e disse alle sue compagne: — Compagne! Vogliamo vedere chi ha la gamba più bella? — Vediamo! risposero quelle; e detto fatto, si vanno a sedere intorno a Florinda, e mostrano ciascheduna le sue bellezze. Ma Florinda le vinceva tutte; e sventuratamente, proprio nel momento ch'ella diceva alle altre: — Vedete? — il re Rodrigo faceva capolino a una finestra, e vedeva ogni cosa. Giovane, libertino, si figuri! pigliò fuoco come un fiammifero, fece la corte alla bella Florinda, la sedusse, e poi l'abbandonò; e di qui il furore di vendetta del conte Giuliano, il tradimento, l'invasione."
A questo punto mi parve d'averne inteso abbastanza; diedi al custode un paio di reali ch'ei prese e mise in tasca con un atto dignitoso, e dato un ultimo sguardo a Toledo, discesi.
Era l'ora della passeggiata; la strada principale, larga appena tanto da potervi passare una carrozza, era piena di gente; ci sarà stato un qualche centinaio di persone, ma parevano una gran folla; imbruniva, le botteghe si andavano chiudendo, e qualche raro lume cominciava a brillare qua e là. Andai a desinare, ed uscii subito per non perdere lo spettacolo della passeggiata. Era notte, non v'era altra illuminazione che il chiarore della luna, non si vedeva la gente in viso, mi pareva d'essere in mezzo a una processione di spettri, mi prese la malinconia. — Pensare che son solo, — dicevo; — che in tutta questa città non c'è un'anima che mi conosca, che se cascassi morto in questo momento, non ci sarebbe un cane che direbbe: — Poveretto! Era un buon diavolo! — Vedevo passare dei giovanotti allegri, dei padri di famiglia coi loro bambini, degli sposi, o che avevan l'aria di sposi, con una bella creaturina a braccetto; tutti avevano una compagnia, parlavano, ridevano, e passavano senza neanco gettarmi uno sguardo. Quanto ero tristo! Quanto sarei stato felice se un ragazzo, un povero, una guardia di polizia fosse venuta a dirmi: — Signore, mi par di conoscerla! — È impossibile, sono uno straniero, non sono mai stato a Toledo; ma non importa, non vada via, stia qui, parliamo un poco, son solo!
In buon punto mi ricordai che a Madrid m'era stata data una lettera di raccomandazione per un signore di Toledo; corsi all'albergo, la presi e mi feci condurre subito in casa sua. Il signore c'era e mi ricevette cortesemente. All'udire pronunziar il mio nome provai una gioia che gli avrei gettato le braccia al collo. Era il signor Antonio Gamero, autore d'una stimatissima Storia di Toledo. Passammo la serata insieme; gli domandai cento cose, me ne disse mille; e mi lesse alcune splendide pagine del suo libro che mi fecero conoscere Toledo meglio che non l'avrei conosciuta nel soggiorno d'un mese.
La città è povera, e più che povera, morta; i ricchi l'hanno abbandonata per andar a stare a Madrid; gli uomini d'ingegno han seguìto i ricchi; non v'è commercio; la fabbricazione delle lame, unica industria che vi fiorisca, provvede alla vita di qualche centinaio di famiglie, ma non basta alla città; l'istruzione popolare è trasandata; il popolo è inerte e miserabile. Ma non ha perduto il bel carattere antico. Come tutti i popoli delle gran città decadute, è fiero e cavalleresco; abborre dalle basse azioni; fa giustizia di propria mano, quando può, degli assassini e dei ladri; e benchè il poeta Zorilla, in una sua ballata, l'abbia chiamato senza metafora un popolo imbecille, non è tale; è sveglio e ardito. Partecipa della serietà degli Spagnuoli del settentrione e della vivacità degli Spagnuoli del mezzodì; tiene il luogo di mezzo tra il Castigliano e l'Andaluso; parla lo spagnuolo con garbo, con più varietà d'accenti che il popolo di Madrid, con meno rilassatezza che il popolo di Cordova e di Siviglia; ama la poesia e la musica; è altero di annoverare tra i suoi maggiori il soave Garcilaso della Vega, riformatore della poesia spagnuola, e l'arguto Francisco de Rojas, l'autore del Garcia del Castañar; ed è orgoglioso di veder accorrere fra le sue mura artisti e dotti di tutti i paesi del mondo, a studiarvi la storia di tre genti, e i monumenti di tre civiltà. Ma qual che sia il popolo, Toledo è morta; la città di Wamba, di Alfonso il Bravo e di Padilla, non è più che una tomba. Dacchè Filippo II le tolse la corona di capitale, ella è andata sempre declinando, e declina ancora, e si consuma a poco a poco, sola sulla sommità della sua trista montagna, come uno scheletro abbandonato sur una rupe in mezzo alle onde del mare.
Tornai all'albergo poco prima della mezzanotte e siccome splendeva la luna, e le notti di luna, benchè in quelle straduccie non penetri la luce dell'astro d'argento, Toledo non è illuminata, così dovetti camminare poco meno che a tastone come il ladro nella casa del delitto. Colla testa piena, come avevo, di ballate fantastiche, nelle quali son descritte le strade di Toledo, corse, la notte, da cavalieri imbacuccati nelle cappe, che cantano sotto le finestre delle belle, si battono, si ammazzano, dan la scalata ai palazzi e rapiscono le fanciulle; così m'immaginavo di aver a sentir suoni di chitarre e rumor di spade e grida di moribondi. Nulla di tutto questo: le strade eran deserte e silenziose, e le finestre buie; e appena si udiva di tratto in tratto, alle cantonate e sui crocicchi, qualche leggiero fruscío o qualche bisbiglio fuggitivo, che non si sarebbe nemmen potuto dire da che parte venisse. Giunsi all'albergo senz'aver rapito nessuna toledana, ciò che poteva avere qualcosa di spiacevole; ma anche senz'essermi fatto fare nessun occhiello nel ventre, ciò che senza dubbio aveva qualcosa di consolante.
La mattina del giorno dopo visitai il bell'edificio dell'ospedale di Santa Croce, la chiesa di Nuestra señora del Transito, antica sinagoga; i resti di un anfiteatro e d'una naumachia dei tempi dei Romani, e la famosa fabbrica d'armi, nella quale comperai un bel pugnaletto col manico inargentato e la lama coperta di rabeschi, che ho in questo momento sul tavolino, e che, a serrar gli occhi ed a stringerlo, mi fa parer d'esser ancora là, nel cortile dell'opificio, a un miglio di distanza in Toledo, sotto il sole di mezzogiorno, in mezzo a un crocchio di soldati e a un nuvolo di fumo di cigarritos. Mi ricordo che tornando a Toledo alla bella pedona, mentre attraversavo un tratto di campagna solitario come un deserto e muto come una catacomba, una voce formidabile gridò: — Fuera el extranjero!
La voce veniva dalla città, mi fermai, lo straniero ero io, quel grido era diretto a me, mi si rimescolò il sangue: la solitudine ed il silenzio del luogo accrescevano la mia paura. Tirai innanzi, e la voce di nuovo:
— Fuera el extranjero! —
— Ma è un sogno — esclamai arrestandomi di nuovo, — o son desto? Chi è che grida? dove? perchè? —
Ripresi a andare, e la voce una terza volta: — Fuera el extranjero! —
Mi fermo una terza volta, e mentre tutto turbato giro gli occhi intorno, vedo un ragazzo seduto in terra, che mi guarda ridendo, e mi dice: — Es un loco (un pazzo) que cree vivir en el tiempo de la guerra de independencia; mire Vsted; allí està la casa de locos. E mi accennò l'Ospedale dei Pazzi, sull'altura, le estreme case di Toledo. Misi un respirone, che avrebbe smorzato una torcia a vento.
La sera partii da Toledo, col rammarico di non aver avuto tempo per vedere e rivedere tutto quello che v'è di antico e di mirabile; mitigato però questo rammarico, dal desiderio ardentissimo dell'Andalusia, che non mi lasciava un momento di pace. Ma per quanto tempo ebbi dinanzi agli occhi Toledo! Per quanto tempo vidi e sognai quelle roccie scoscese, quei muri enormi, quelle tetre strade, quel fantastico aspetto di città medioevale! Ed oggi ancora me ne ravvivo spesso l'immagine con una sorta di tristo piacere e di austera malinconia, e quell'immagine mi divaga la mente in mille strani pensieri di tempi remoti e di casi meravigliosi.