Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/284

278 toledo.


uno smisurato castello, e fa parer piccini come casette da giocattolo tutti gli edifizi circostanti; là la terrazza coronata di statue di San Giovanni dei Re; in un altro punto le torri merlate della porta nuova; il circo dei tori; il Tago che scorre ai piedi della città in mezzo a due sponde rocciose; di là dal fiume, accanto al ponte di Alcantara, sur una rupe scoscesa, le rovine dell'antico castello di San Servando; più oltre una verde pianura, e di là roccie e colli e monti a perdita d'occhio, e su, un cielo purissimo, e il sole cadente che indora la sommità dei vecchi edifizii e fa scintillare il fiume come una immensa fascia d'argento.

Mentre io contemplavo quel magico spettacolo, il custode, che aveva letto la storia di Toledo e lo voleva far sapere, mi raccontava ogni sorta di storielle, con quel fare tra poetico e faceto, che è proprio degli Spagnuoli del mezzogiorno. Prima d'ogni cosa, mi volle far conoscere la storia delle opere di fortificazione, e benchè dove egli diceva di veder netto e distinto quello che m'accennava, io non vedessi nulla di nulla, riuscii a capire qualcosa.

Mi diceva che Toledo era stata cinta di mura tre volte, e che si vedevano ancora chiaramente le traccie di tutte e tre le cinte. "Guardi," diceva, "segua la linea che descrive il mio dito: quella è la cinta romana, la più stretta, e se ne vedono ancora i ruderi. Ora guardi più in là. Quell'altra, più ampia, è la cinta gotica. Ora descriva collo sguardo una curva che abbracci le due prime: quella è la cinta araba,