Sotto il velame/La mirabile visione/VI
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VI.
LA MIRABILE VISIONE
Dopo la morte di Beatrice, quand’ella fu beata oltre che beatrix, Dante ebbe tre visioni. La prima ebbe virtù di richiamare alla donna gentilissima i pensieri di lui che si erano sviati verso la donna gentile. Fu il “cuore„ che “si cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio, a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li suoi pensamenti a la loro gentilissima Beatrice„. Ciò per “una forte imaginazione„ nella quale a lui “parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne, co le quali apparve prima a li occhi suoi; e pareagli giovane in simile etade ne la quale egli primieramente sì la vide„.1 L’altra fu “una mirabile visione„.
Ma prima di accennare a questa, che non ci dice qual sia, il Poeta riporta un sonetto, in cui è pure una visione: la seconda.2 Oltre il primo mobile, passa il sospiro del cuore di Dante tirato su da intelligenza nova messa in lui da amore e dolore. Nell’Empireo
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
E lo spirito tornando parla sottile, e Dante non lo intende; pur intende che parla di Beatrice. Appresso questo sonetto gli apparve la mirabile visione. Egli dice: “una mirabile visione, ne la quale io vidi cose, che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sa veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui, a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fu detto d’alcuna„. Orbene ciò che Dante vide in visione dopo la morte di Beatrice, è presso a poco, non si può dubitare, ciò che racconta d’aver veduto di lei nel suo Poema. In vetta al santo monte egli la vide, non invero dell’età di nove anni, cioè “in simile etade ne la quale egli primieramente sì la vide„; ma pure la vide
vestita di color di fiamma viva.
È il colore di cui era vestita nella prima sua apparizione in vita e nella prima sua apparizione in morte. Solo l’“umile ed onesto sanguigno„ fiammeggia. E Dante, nella Vita Nuova, tornò a Beatrice come Beatrice era tornata a lui; tornò a lei fanciullo, come fanciulla era essa tornata a lui. Egli si ricordava “di lei secondo l’ordine del tempo passato„, e si pentiva del suo vil desiderio e piangeva come se i suoi occhi fossero “due cose che desiderassero pur di piangere„. Così sul santo monte sospira e piange e sta avanti lei,3
quali i fanciulli vergognando muti
con gli occhi a terra, stannosi ascoltando,
e sè riconoscendo e ripentuti.
Le stesse lagrime, lo stesso ripentire: e ripentire e lagrimare per non più che desideri del cuore, per non altro che incostanza di ragione. Dopo, Dante sale con Beatrice di spera in spera, finchè può contemplarla: come? dove? Nell’Empireo, nel suo seggio di gloria, pura luce; così, dunque, e dove egli dice, in quel sonetto, che la vide lo spirito suo peregrino. Or che poteva essere quella terza visione, che Dante non ci dice qual fu? È forza credere ch’ella fosse quella che narrò nel Poema Sacro, poichè la visione del pentimento e quella della gloria, le quali precedono la mirabile, sono i due poli della Comedia. Invero Beatrice, così nella Vita Nuova come nella Comedia, richiama a sè l’amatore, mentre egli vilmente desiderava contra la costanza della ragione; e in fine si lascia a lui vedere entro lo splendore della sua gloria di Beata Beatrice, nell’Empireo. Questi due elementi, la conversione cioè di Dante e la transfigurazione di Beatrice, formano la divina Comedia: come non sarebbero essi gli elementi di quella visione ultima e mirabile, per la quale Dante propose di non dir più di Beatrice se non quando potesse più degnamente trattarne? È almeno probabile.
Ed è certo, quando ci ricordiamo chi è e che cosa è Virgilio nel Poema. È lo “studio„. Virgilio che conduce Dante a Matelda, cioè all’arte, è l’incarnazione di queste parole: “Di venire a ciò (a trattare di lei più degnamente) io studio quanto posso„. Le altre parole “sì come ella sa veracemente„ sono tradotte nel secondo canto della Comedia. Virgilio dice a Dante d’essere stato mandato da Beatrice e di dover ricondurlo a lei: alla sapienza.
Ma in un’altra opera di Dante apparisce questo argomento: nel Convivio. In vero egli narra d’una sua tanta tristizia, che nessun conforto gli valeva. Allora provvide, per sanare, “ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi„. E così lesse il libro di Boezio e poi uno di Tullio, e s’addestrò così in Gramatica e trovò “vocaboli d’Autori e di Scienze e di libri„.4 Studiava. Per dirla al modo simbolico che usò nella Comedia, Virgilio era andato a lui che piangeva e s’attristava in tutti i suoi pensieri. Studiava dunque. Per qual fine? Per giungere a una perfetta beatitudine la quale consisteva nel guardare gli occhi e il riso d’una donna.5 Dunque Virgilio per dirla secondo l’allegoria del Convivio, conduceva Dante a Beatrice, a una beatrice.
Ma nel Convivio non c’è Virgilio. Lo studio o amore è uno degli elementi di cui si compone la “gloriosa donna„,6 la quale è così studio o amore della sapienza, cioè Virgilio, in uno, e Beatrice. Consolarsi della sparizion di Beatrice, rivedendola, dopo una sete di dieci anni, fatta luce e sapienza, e con lei sapienza amorosamente usare, è l’argomento della Comedia. Quello del Convivio? Amorosamente usar sapienza, cioè amar la Donna Gentile, per consolarsi della morte di Beatrice. L’argomento del Convivio è lo stesso dunque che quel del Poema, e si vede, che se non fosse stato interrotto, questo comento alle canzoni sarebbe stata una perfetta imbandigione di sapere,7 qual fu la Comedia in cui la parola di Dante aveva a lasciare “vital nutrimento„.8 L’argomento, lo stesso; le dottrine, uguali, eccetto che in menomi particolari; il fine, simile; il mezzo, identico: il volgare “da’ letterati e da’ non letterati inteso„.9
È dunque il Convivio ciò che nell’ultima carta della Vita Nuova si promette. C’è solo un divario: il Convivio non è nella forma di visione.
E non essendo una visione, poichè la visione aveva a essere il venir di Beatrice a Dante e il ritorno di Dante a Beatrice, così, tutto rimanendo com’era, così Beatrice non incarna nel Convivio l’idea di sapienza. Dunque Dante ruppe fede alla gentilissima? Qualcuno l’ha detto, e in vero Dante aveva dato motivo a dirlo, correggendo il fatto della donna gentile che nella Vita Nuova è viltà desiderare, e nel Convivio è salute amare. Ma chi non vede quanto, in tal correzione, trionfa Beatrice? Dante scrive:10 “Dico e affermo che la donna di cui io innamorai appresso lo primo amore, fu la bellissima e onestissima figlia dello imperadore dell’universo, alla quale Pittagora pose nome Filosofia„. Dunque al “primo amore„ egli protesta d’essere stato fedele; perchè la morta gentilissima non avrebbe potuto dolersi di tal rivale, che non era donna, ma idea. O donna era, ma qual donna! Tale, sempre, che Beatrice stessa amava e che Beatrice stessa era assai lieta che Dante l’amasse! Poichè era la sposa dello Spirito; era quella sotto la cui insegna gloriava la gentilissima: era “quella reina benedetta Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata„.11 Chi parlò d’apostasia? Nel Convivio Dante è innamorato della sposa e figlia e sorella di Dio. Chi parlò d’infedeltà? Nel Convivio Dante vuol cancellare dal suo primo amore, dall’amore inestinguibile per la gentilissima, quell’unica macchia che di quell’amore aveva narrata nel suo libello giovanile. Vuol cancellarla, nel momento in cui ha cambiato il proposito di scrivere la mirabile visione che accenna nella Vita Nuova, e sta per dare, in altra forma ma con la medesima sostanza, il frutto degli studi che annunzia in quel capitolo stesso.
Perchè il Convivio deve essere da noi guardato col medesimo occhio col quale il passeggere guarda al chiarore d’un baleno l’abisso sul cui orlo aveva il piede. Per il Convivio gli uomini rischiarono di non aver la Comedia! Il Convivio Dante sostituì al Poema Sacro! Il Convivio doveva essere, in altra forma ma con la medesima sostanza di dottrina, quel che fu il sacrato Poema! Anche nel lor fine secondario e personale, l’uno vuol ciò che l’altro. Se il Poema mirava a vincere la crudeltà che serrava il Poeta fuor dell’ovile, il Convivio doveva liberarlo dall’ingiusta pena “d’esilio e di povertà„; doveva rimarginare “la piaga della fortuna„; doveva dare sosta e riposo “al peregrino„ che andava “quasi mendicando„; doveva offrire un porto al “legno senza vele e senza governo, portato... dal vento secco„. Doveva adempiere, in fine, il desiderio dell’esule, cacciato fuori dal “dolcissimo seno„ della bellissima e famosissima figlia di Roma; doveva adempiere il suo desiderio di riposarvi l’animo stanco e terminarvi il tempo che gli era dato.12 E Dante esule e povero e peregrino e vile fatto nel cospetto di molti, nell’imbandir questo Convivio, nel rinunziare alla visione in cui aveva a dire di Beatrice ciò che non fu detto d’alcuno, provvedeva, con una sollecitudine a cui è cosa trista e pia pensare, provvedeva a purgar d’ogni macchia il suo primo ed unico amore. E così poteva affermare di non derogare dalla Vita Nuova, anzi di maggiormente giovarle. Egli in vero per una parte asseverava che non d’altra in terra era stato preso, che di quella che ora gloriava in cielo, e terminava “lo parlare di quella viva Beatrice beata„, ragionando dell’immortalità dell’anima;13 e per l’altra diceva pur sempre che da quella morta gentilissima era stato tratto allo studio e alla conoscenza e alla sapienza; poichè per consolarsi della sua perdita, egli si era dato a leggere libri e a entrare “nello Latino„, egli si era innamorato della sposa dello Spirito, alla quale Beatrice era stata così devota come Dante. Un soave pensiero, che era vita del suo cuore dolente, andava ai piedi di Dio: un altro pensiero ora lo faceva fuggire, quel pensiero soave; cioè consolava Dante del suo dolore. Quale? Quello che lo faceva guardare un’altra Donna. Ma qual Donna? Una ch’egli omai doveva pensare a chiamare Donna cioè signora: la Donna14
pietosa ed umile,
saggia e cortese nella sua grandezza,
la Donna dunque, “umile e alta„, la Donna in cui è misericordia e pietà, e che precorre al domandare. Oh! l’infedele, che si consola nello studio e nella scienza! Oh! l’apostata, che si consola pensando all’immortalità dell’anima, e alla verace sapienza che lo condurrà, per la misericordia della Vergine, a riveder Beatrice ai piedi di Dio!
Ma il Convivio rimase interrotto. Dante riprese la mirabile Visione. Quando? Quando disperò di salire al bel colle. Il Poema significa la rinunzia alla vita attiva o alla via del mondo, e l’ingresso nella vita contemplativa o nella via di Dio. La via del mondo è impedita dalla lupa che esprime la cupidità che si svolge in malizia. Questa non lascia passare alcuno per la sua via. Dante deve fare altro viaggio, se vuole scampare. Egli si ritrae avanti la bestia malvagia; è per ricadere nell’oscurità della selva. Egli sembra destinato a vivere come non fosse mai nato, a essere un di quelli infiniti che corrono nel vestibolo e che non lasciarono alcuna fama di sè: un servo, un cieco, un nullo. Un veltro, sì, deve venire a sgombrar la via e rimettere nell’inferno la lupa. Ma fin che egli non sia venuto, vano è dirigersi al bel colle. Ora il veltro è colui che ci fu dato a lume e guida della vita civile: l’imperatore Romano.
Ebbene, quando Dante disperò dell’altezza? quando disperò di salire al bel colle? alla felicità, vale a dire, della vita attiva? Si può scegliere tra queste due ipotesi: prima della venuta d’Arrigo, dopo la venuta di Arrigo. Se prima, egli aveva come un sentore del veltro che era per venire, e certo egli raffigurava in Arrigo il veltro. In vero nell’epistola a lui, quando fu disceso in Italia (nel 1310), Dante ricorre a imagini consimili. Arrigo deve uccidere l’idra, Arrigo deve uccidere la vulpecula, la vipera, la pecora infetta. Non ancora o non più pensava di cambiare la vulpecula di Cicerone nella sua lupa, allora; e questa considerazione vale come gravissimo argomento in favore dell’autenticità di questa lettera, contro la quale, del resto, non c’è alcun pregiudizio. Come avrebbe potuto un falsario sapere che Dante nella figurazione delle tre fiere aveva sotto gli occhi un dato passo di Cicerone?15
Or bene: accogliendo l’ipotesi che alla Comedia Dante si mettesse prima della venuta di Arrigo, si ammetterebbe questo assurdo: che Dante rinunziava alla vita attiva o civile, appunto quando poteva credere ch’ella fosse possibile. Meglio ricorrere alla seconda; e credere che Dante appunto a quella rinunziasse, quando ogni illusione in lui fosse spenta, quando l’ultima speranza se ne fosse andata; dunque dopo la morte di Arrigo in Buonconvento. E se ne può trovar la riprova mettendo a confronto l’epistola sopra citata e la profezia del veltro. Egli scrisse quella epistola perchè, come egli dice “il nostro sole (sia che questo ne insinui il fervor del desiderio o la sembianza della verità), o si crede che si fermi (morari) o si sospetta che torni indietro„. Continua meravigliandosi perchè così tarda irresolutezza (tam sera segnities) si frapponga. Lo rimprovera di credere che tutto l’impero si chiuda nei confini dei Liguri. Gli dice che tutto il mondo lo aspetta. Gli rinfaccia d’indugiarsi a troncar le teste dell’idra a una a una; di essere per consumare il tempo a Cremona; a Brescia, a Pavia, Vercelli, Bergamo... Oh! non viene in mente quel verso, in cui non suona solo la rima, ma riluce il pensiero:
questi la caccerà per ogni villa?
Non vedete perchè il poeta abbia pensato come uccisore della lupa un veltro (tolgo questa citazione al bello e dotto studio del mio caro Cian),16 il veltro che era considerato nel medio evo come cane velocissimo, e di cui Dante stesso nel Convivio aveva detto, che la bontà propria era il bene correre? Non capite che egli dice perchè il grande Enrico non potè uccidere la lupa? Perchè non corse, perchè indugiò, perchè fu lento e tardo. Rumpe moras: diceva Dante all’imperadore da sotto la fonte dell’Arno. Velocità ci vuole, fa dire a Virgilio nella piaggia deserta. E così chi non sente piuttosto il dolore della speranza delusa, che il fremito della speranza risorta, nelle parole17
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di quaggiù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
Non è l’esclamazione, questa, d’uno che aspetti, ma di chi aspettò e fu deluso. Persino quella espressione “par che si creda„ rispetto a cosa, a cui Dante credeva benissimo, sa di sconforto supremo. Oh! il veltro fu pensato dopo la delusione di quella che egli chiamò invano faustissima corsa del divo Enrico; quando egli vide che corsa più rapida ci voleva, e più risoluto principe.
Israele non fu liberato. Il suo retaggio, che piangeva senza intermissione a lui tolto, non gli fu restituito. Dante continuò a gemere esule in Babilonia; non potè, tornato cittadino, respirare in pace e ricordare la miseria nel tempo felice. Anzi si fece più grave la condizione del suo esilio. Nella riforma di Baldo d’Aguglione si confermavano le sentenze contro lui. Egli riprese la sua dura via. Continuò a mendicare, a scendere e salire, e non sperò più. La sua vita era infranta per sempre.
E allora ripensò alla fanciulla morta, ripensò alla visione che aveva avuto di lei, nella quale essa dalla terra lo richiamava al cielo. E allora, nella seconda disperazione della sua vita, riprese il disegno che aveva avuto nella prima, non meno amara. E gli studi che già allora aveva destinati alla visione mirabile, a quella ravviò e ricondusse.
Un’antica tradizione afferma che Dante ebbe un tempo il pensiero di lasciare il secolo e farsi frate minore. Si dice anzi che fu terziario, e che la corda, che gittò a Gerione, la corda che aveva cinta e con cui credè un tempo di prendere la lonza, era la corda di quell’ordine. Lo Scartazzini non rigetta la leggenda, e congettura che il proposito di Dante dovesse avvenire “nel tempo che corse dalla morte di Beatrice al matrimonio„ suo. Lo Scartazzini ha ragione nel dar peso alla leggenda.
Quella tradizione spiega il fatto della corda, e consuona col significato della Comedia: per ciò è attendibile. Ora quel pensiero sorse nel Poeta, prima che egli s’innamorasse della donna gentile, o dopo? Dopo: perchè quel pensiero di lasciare il mondo, e darsi allo spirito, è tutt’uno con la mirabile Visione, se questa è, come è, tutt’uno col concepimento fondamentale della Comedia. Dopo, dunque, non solo l’innamoramento ma anche il pentimento, dopo le due imaginazioni nelle quali egli vide Beatrice giovinetta e Beatrice santa. Ma certo prima del suo matrimonio; prima dunque, non solo del 1300, ma del 1298. La mirabile Visione, che poi dal Poeta fu posta nel 1300, era stata veduta o, diciamo, concepita, prima.
Se avesse adombrato allora il suo disegno! Il principale personaggio del poema, sarebbe pur stato lui, Dante: Dante, che domato da un grande dolore, di quelli che vengono da Dio e non dagli uomini, lasciava la via degli uomini o del mondo, e s’incamminava per quella di Dio, dove avrebbe ritrovata la donna che aveva perduta. Sarebbe stato il poema della rassegnazione, la cui suprema parola poteva esser questa: Dio, tu me l’hai tolta nella vita, tu me la rendi nella morte: sii benedetto! Ma gli uomini, che esso avrebbe abbandonati, di nulla erano ancora rei verso lui, verso lui che guardava allora tutti con occhi d’amore, e indirizzava le sue dolci parole agli sconosciuti romei. Egli, ferito dal primo strale, si sarebbe rifugiato là dove non aveva a temere più altre ferite. Egli si sarebbe messo nel porto dopo un primo tuono, avanti lo scoppiare della procella.
Ma ora? Egli ritrovava nel suo cuore il dolor d’allora e il proposito d’allora; ma dove, ma quale vedeva sè stesso! Bandito, infamato, dannato al fuoco, lontano dal luogo del suo battesimo, senza tetto e senza pane.
Il libello ascetico ch’egli avrebbe scritto, diventò la Comedia: il frate minore diventò il Cristo. Il dannato al fuoco, il mendico perduto tra gli uomini di corte, l’umile pedagogo, il modesto lettore dello studio, si sublimò sui tempi e sulle nazioni e sulle fazioni e sulle scuole e sui re e sui papi. Discese come il Cristo di San Paolo, per ascendere. Morì per vivere e per redimere. Fu più d’un eroe e più d’un apostolo. Volle fondare la città del ben vivere. Bandì una nuova Apocalissi e un nuovo Vangelo. Entrò nella morte dall’esilio e dalla condanna e dalla infamia; e uscì a giudicare i vivi e i morti.
Eppure chi lo guidava ora l’avrebbe guidato anche allora. Virgilio lo conduceva, Virgilio in cui non solo Dante ma tutti assommavano allora il concetto di studio e di scuola. Lo conduceva a una giovane morta. Nessuno sapeva la strada meglio di lui, che aveva cantato la discesa negl’inferi. Nessuno avrebbe significato meglio di lui questo concetto: lo studio che conduce alla vera sapienza per l’oltremondana via della contemplazione. E questo concetto è quello della Comedia e quello delle ultime parole della Vita Nuova che suonano: studiare per dir di lei, per tornare a lei, per riveder lei, la morta amata. Dante riprese tal quale la mirabile Visione d’allora; che aveva messa da parte, prima, perchè non ancora addottrinato; poi... perchè? Perchè non abbastanza infelice! Perchè aveva ancora qualche rifugio di speranza nel mondo! Perchè poteva ancora ricoverarsi in qualche luogo che non fosse il regno della morte!
La fine dell’alto Enrico, come egli lo chiama, voleva dire per lui la perdita per sempre della patria. Se dopo ebbe qualche barlume di speranza, che il poema sacro vincesse la crudeltà dei proscrittori, allora, nel 1313, questo barlume non l’aveva. Fu quella fine che lo determinò all’altro viaggio; cioè a mortificare ciò che nella sua anima era di mortale, giù per gli abissi; e purificare ciò che nella sua anima era ancora di macchia e di caligine, su per il monte; e salire, bello della santa ira sua e della sua santa carità, a Dio, di spera in spera.
E quasi alla fine dell’altro viaggio, quando mancano appena i tre ultimi canti ineffabili dell’ineffabile Trinità, egli vede un seggio vuoto con su una corona. È il seggio destinato ad Enrico
ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
Quel seggio deve ricordare a lui la speranza venuta meno, del suo ritorno in patria; deve ricordare a lui il momento, in cui scrisse il primo canto della Comedia, quello che tutta la riassume. Oh! non fu il veltro, questi cui si aspetta il seggio vuoto! Oh! non fu rapido e forte, come doveva! Oh! l’esilio continuò più duro che mai! Pur quanta dolcezza nelle parole di Beatrice, che accennano al futuro ma riflettono il passato! Gl’Italiani che non hanno accolto il buono Enrico sono assomigliati al fantolino
che muor di fame e caccia via la balia.
Dante, quando scriveva questo canto, sentiva già forse il freddo della morte. Pensate: in otto anni egli compì quel poema, cui pose mano cielo e terra! il cielo: la fede; la terra: il dolore. La vita di Dante, quando egli era a questo punto, dava forse gli ultimi guizzi: i tre altissimi guizzi di luce, che sono i canti della Trinità; poi si spense. Ebbene cantando il seggio vuoto dell’alto Enrico, egli ha una tristezza così dolce! così accorata! Esso non morrà in patria; non lo vedrà più il suo bel San Giovanni. E poco dopo Beatrice si allontana da lui e riprende il suo posto nella candida rosa. Essa gli è ora così lontana, come il fondo del mare dalla più alta regione del tuono. Presso lui è un sene, dal volto sorridente, dall’atteggiamento paterno.
Dante è avanti la morte. E non solo la sua anima è purificata e fatta degna di contemplare Dio, ma anche il suo dolore è lontano.
La mirabile visione è già tutta narrata. Dante può rifugiarsi, dall’amarezza della vita nella dolcezza del riposo; dall’esilio nella patria, dalla morte nell’immortalità.
Che cosa restava più, di quel dolore? di quel primo e di quel secondo, che si comprendono nella morte di Beatrice e nella morte di Enrico? La Divina Comedia.
L’adolescente si smarrisce non avendo la prudenza. La riacquista nella sua età piena. Si mette per la via del mondo, verso la felicità buona e non ottima. Vuol essere utile ai suoi simili. Ha, con la prudenza riacquistata, le altre tre virtù necessarie alla vita attiva. Ma la malizia degli uomini lo respinge. Non c’è chi governi, e l’ingiustizia regna. Allora l’uomo cambia di cammino. Si mette, per ispirazione della donna amata, che ora è morta e vede Iddio ed è la verace Sapienza, si mette nella via di Dio: si dà alla vita contemplativa, studiando per giungere all’arte e alla sapienza. L’arte gli deve servire per rivelare agli altri ciò che avrà veduto: chè utile anch’essa, e più dell’altra anche, è la vita contemplativa ai nostri fratelli.
Ma bisogna morire per fruire di questa vita: morire alla tenebra, e riaver in atto la luce o la prudenza; morire al peccato, sì della carne, sì dello spirito; e riavere in atto le virtù di temperanza, di fortezza, di giustizia.
E l’uomo... o non più l’uomo, ma Dante, Dante si configura al Cristo, e muore come lui, e si fa viatore, nel mistico mondo, per divenire comprenditore e dire agli altri ciò che avrà compreso. Studia e ama. Muore alla carne o al peccato; muore alle sette ferite mortali. Ora ha la virtù. Sana le sette cicatrici; coi sette doni dello Spirito si fa degno di sette beatitudini. Attraversa il fuoco, che monda il cuore e l’occhio, e si fa tutto puro. Di cieco è veggente, come di servo si è fatto libero. Ha obliato ogni resto del peccato. È giunto alla perfezione della vita attiva. Così può passare all’altra, alla quale è disposto dalla prima. Ha la sapienza e ha l’arte di rivelarla altrui. Può salire al cielo. All’ultimo la sapienza umana non basta più. Soltanto quella che vide gli abissi del mistero di Dio, può impetrargli la visione di Dio. E la sapienza umana è una frale donna di quaggiù, ch’egli amò e ama;18 e l’altra, la divina, è pure un’umile donna, la moglie d’un fabbro Nazareno. Con l’amor per la prima si ha la filosofia degli uomini; con l’amor per la seconda, si ha quell’altra che in Dio è “per modo perfetto e vero, quasi per eterno matrimonio„.19
Come il Cristo punì in sè i peccati del mondo, così Dante in sè uccide e cancella e oblia tutti i mali dell’anima umana. Come S. Paolo, che salì, come lui, vivente al cielo, egli ha appreso altissime verità, che Dante fa manifeste per la salute del genere umano nell’una e nell’altra via: in quella del mondo e in quella di Dio. Così Lia è la virtù “per la quale si provvede all’infermità e necessità„ degli uomini; e Rachele è la sapienza donde l’uomo “impara alcunchè di celeste e immutabile„.20 E Dante dallo studio fu reso abile all’uno e all’altro uffizio. Fu addotto da Virgilio a Matelda e a Beatrice. Inoltre, da Bernardo a Maria, da Maria a Dio.
E qui finisce il libro, la cui rubrica è Sotto il velame, e comincia l’altro da ciò a cui il primo apre più presto che conchiuda: La mirabile visione.
FINE
Note
- ↑ V. N. 39.
- ↑ V. N. [Sonetto XXV].
- ↑ Purg. XXXI.
- ↑ Conv. II 13.
- ↑ Conv. III 15.
- ↑ ib.
- ↑ Conv. II 13.
- ↑ Par. XVII 131.
- ↑ Conv. I 7.
- ↑ Conv. II 16.
- ↑ V. N. 28.
- ↑ Conv. I 3.
- ↑ Conv. II 9.
- ↑ Conv. Canzone «Voi che intendendo».
- ↑ Epist. VII.
- ↑ «Sulle orme del Veltro, Messina, 1897»: al qual libro, tutto acume e forza, rimando il lettore per ciò che si riferisce al Veltro.
- ↑ Purg. XX 13 segg.
- ↑ Mi pare verisimile che nel concepire le coppie Lia e Matelda, Beatrice e Rachele, Dante avesse nel pensiero l’essere, ognuna delle due mogli del Patriarca, con un’ancella; Rachele con Bala, l’inveterata, Lia con Zelfa, l’os hians. Io penso ai segni «veteris» flammae che Dante conosce all’apparir di Beatrice (Purg. XXX 48); io penso alla bocca di Matelda che si apre al canto. Vedasi a pag. 445. Ne riparleremo. Ad ogni modo, qual trasformazione, sì di Bala e sì di Zelfa! E non voglio intendere che Dante imaginasse Beatrice (tutt’altro!) su Bala e Matelda su Zelfa, ma che cogliesse qualche cenno, qualche nota di simiglianza.
- ↑ Conv. III 12.
- ↑ Vedi a pag. 445.