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494 | sotto il velame |
al bel colle. Il Poema significa la rinunzia alla vita attiva o alla via del mondo, e l’ingresso nella vita contemplativa o nella via di Dio. La via del mondo è impedita dalla lupa che esprime la cupidità che si svolge in malizia. Questa non lascia passare alcuno per la sua via. Dante deve fare altro viaggio, se vuole scampare. Egli si ritrae avanti la bestia malvagia; è per ricadere nell’oscurità della selva. Egli sembra destinato a vivere come non fosse mai nato, a essere un di quelli infiniti che corrono nel vestibolo e che non lasciarono alcuna fama di sè: un servo, un cieco, un nullo. Un veltro, sì, deve venire a sgombrar la via e rimettere nell’inferno la lupa. Ma fin che egli non sia venuto, vano è dirigersi al bel colle. Ora il veltro è colui che ci fu dato a lume e guida della vita civile: l’imperatore Romano.
Ebbene, quando Dante disperò dell’altezza? quando disperò di salire al bel colle? alla felicità, vale a dire, della vita attiva? Si può scegliere tra queste due ipotesi: prima della venuta d’Arrigo, dopo la venuta di Arrigo. Se prima, egli aveva come un sentore del veltro che era per venire, e certo egli raffigurava in Arrigo il veltro. In vero nell’epistola a lui, quando fu disceso in Italia (nel 1310), Dante ricorre a imagini consimili. Arrigo deve uccidere l’idra, Arrigo deve uccidere la vulpecula, la vipera, la pecora infetta. Non ancora o non più pensava di cambiare la vulpecula di Cicerone nella sua lupa, allora; e questa considerazione vale come gravissimo argomento in favore dell’autenticità di questa lettera, contro la quale, del resto, non c’è alcun pregiudizio. Come avrebbe potuto un falsario sapere