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496 | sotto il velame |
bello e dotto studio del mio caro Cian),1 il veltro che era considerato nel medio evo come cane velocissimo, e di cui Dante stesso nel Convivio aveva detto, che la bontà propria era il bene correre? Non capite che egli dice perchè il grande Enrico non potè uccidere la lupa? Perchè non corse, perchè indugiò, perchè fu lento e tardo. Rumpe moras: diceva Dante all’imperadore da sotto la fonte dell’Arno. Velocità ci vuole, fa dire a Virgilio nella piaggia deserta. E così chi non sente piuttosto il dolore della speranza delusa, che il fremito della speranza risorta, nelle parole2
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di quaggiù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
Non è l’esclamazione, questa, d’uno che aspetti, ma di chi aspettò e fu deluso. Persino quella espressione “par che si creda„ rispetto a cosa, a cui Dante credeva benissimo, sa di sconforto supremo. Oh! il veltro fu pensato dopo la delusione di quella che egli chiamò invano faustissima corsa del divo Enrico; quando egli vide che corsa più rapida ci voleva, e più risoluto principe.
Israele non fu liberato. Il suo retaggio, che piangeva senza intermissione a lui tolto, non gli fu restituito. Dante continuò a gemere esule in Babilonia; non potè, tornato cittadino, respirare in pace e ricordare la miseria nel tempo felice. Anzi si fece più
- ↑ «Sulle orme del Veltro, Messina, 1897»: al qual libro, tutto acume e forza, rimando il lettore per ciò che si riferisce al Veltro.
- ↑ Purg. XX 13 segg.