Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/V

Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - V

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - IV Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - VI
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V.


Giuseppe Belli (e non Gioacchino, tra mezza dozzina de’ suoi nomi di battesimo il quinto, ch’egli poi si aggiunse, e che il Municipio Romano ha messo erroneamente per primo ed unico nella via che ha denominata da lui) nacque in Roma il 7 settembre del 1791 da una agiata famiglia, che però nelle vicende politiche di que’ tempi, e per gravi disgrazie domestiche, perdette tutto il suo avere; sicchè egli, a sedici anni, orfano di padre e di madre, si trovò ospitato per carità, insieme con un fratello e una sorellina, da certi parenti, i quali, lo racconta egli stesso, fecero subito provare ai poveri orfani come sa di sale lo pane altrui.

Dà allora fino al 1816, egli trascinò quasi sempre miseramente la vita in meschini o uggiosi impieghi amministrativi del Governo o di case signorili; ovvero dando lezioni private, e facendo perfino il copista. Ma queste avversità furono, io credo, la sua fortuna; poichè l’essere stato costretto ad abbandonare le scuole dopo avervi appreso quel tanto che basta per dare l’aire al giovine che sente nell’animo l’inclinazione allo studio, lo avvezzò per tempo a quello studiare da sè, che sarà sempre l’unico modo di farsi uomo e non pappagallo: e la [p. ccxl modifica]povertà, madre provvidamente austera di grandi uomini come di grandi nazioni, privandolo de’ comodi della vita, spingendolo al lavoro, cagionandogli dolori ineffabili, gli apri il cuore a’ nobili affetti; e ponendolo a contatto con ogni classe di persone, gli sviluppò quella naturale tendenza allo studio minuto degli uomini e delle cose, che doveva poi essere il carattere più spiccato del suo ingegno. Tant’è: senza aver molto patito, senza aver letto molte pagine, e belle e brutte, di quel gran libraccio che si chiama mondo, non si diventa scrittori di qualche valore. A questo riguardo, i poveri son più fortunati dei ricchi; e il Belli, per propria esperienza, in un’epistola al pittore bolognese Cesare Masini, scriveva:

    Fra pompe ed ozi, che sol cerca e prezza,
Credi, Cesare mio, che assai di rado
Consigliera di studi è la ricchezza.
    Il giovinetto, il sai, quanto a malgrado
Pieghi a' travagli, si che poi rimane
Di qua dal fiume per terror del guado.
    Nè il ricco ha presso da sera e da mane
La sollecita madre che gli dica:
"Studia, figliuolo mio, buscati il pane.„
    Mal per onor si adusa alla fatica
Ventre satollo; in sugli aviti campi
Il grande ha il poverel che lo nutrica. nota

Nel 1816, una vedova, ricca e ancor giovane, s’invaghì di lui, meglio, del suo spirito arguto, che formava già, anche prima cioè de’ sonetti romaneschi, la delizia delle conversazioni; lo sposò, e perchè non si dicesse ch’egli viveva con la professione di marito, gli ottenne dal cardinal Consalvi un impieguccio, con poco stipendio, ma anche con meno da fare; e così lo mise in grado di dedicarsi più liberamente agli studi, di viaggiare un po’ per l’Italia, e di scrivere.


1 [p. ccxli modifica]Non amico, pare, alla dominazione napoleonica, egli s’era rallegrato, almeno in versi accademici, del ritorno di Pio VII; ma visti poi gli effetti della restaurazione, cominciò a volgersi alle idee liberali, di cui si trovano già manifesti segni in poesie sue qualche anno dopo il 1821. E che giudizio egli facesse delle condizioni in cui il Governo papale aveva novamente ridotto Roma, può argomentarsi da un sonetto inedito, scritto nel maggio del 28, per le nozze d’una sorella d’un amico, al quale raccomanda di tenere i futuri nipoti da ogni virtù lontani,

Che ben felici di favore e d'oro
Saran, se posto ogni rispetto in fondo,
Sieno adulteri, spie, ciacchi e ruffiani.

Versi che ricordano la canzone del Leopardi alla sorella Paolina, pubblicata quattr’anni innanzi, e ricordano insieme due altri sonetti dello stesso Belli: uno romanesco, stupendo (Er battesimo ecc., 22 maggio 34), e quest’altro, italiano e inedito, mediocre come poesia, ma prezioso come manifestazione delle idee dell’autore:


per le nozze del barone f. malvica
di palermo.

    Immagini di vita, o Ferdinando,
Pegni di voluttà fur gl'imenei,
Infin che arriser più benigni Dei
A questo di virtù suol venerando.
    Ma da che Italia nostra è messa al bando,
E fra l'onta di barbari trofei
Nacque in lei morte e par vivere in lei,
Chi move all'ara de' mover tremando.
    D'onor, di senno e carità ripieno,
Se da sposa feconda avrai tu figli.
Pensa a qual terra li deponi in seno.
    Terra povera d'armi e di consigli:
Terra cui mai non sorge un di sereno:
Terra di servitù, terra d'esigli.

1 dicembre 1835.

[p. ccxlii modifica]Con questo sonetto, che insieme con tutte le carte del poeta (tra le quali ce n’è due o tre copie) lo Gnoli deve aver avuto sott’occhio; e più ancora con quel tanto di soggettivo che è ne’ sonetti romaneschi politici e nelle note, non capisco com’egli abbia potuto affermare che “in tutti gli scritti del Belli,, manca il "sentimento di nazionalità„; che il Belli "traversa quasi tutto il periodo della nostra rivoluzione, non agitato dalla passione e dalle sante ire di patria;„ che "non aveva nel suo vocabolario le parole di nazione e di straniero;„ e che, "non mai commosso da entusiasmi italiani„, fu "sempre insensibile alla libertà d’Italia e all’onore della Nazione.„2 E capisco anche meno, come tutte queste cose lo Gnoli le abbia affermate, mentre avvertiva che ne’ sonetti romaneschi contro tutta la gerarchia ecclesiastica il Belli prorompe talora "nella satira irosa, nella potente invettiva, nella forte e grande poesia„ (pag. 96); e mentre ripubblicava un passo d’una canzone del 1825, dove il poeta, dopo avere esclamato:

Oh patria! oh dolce e sfortunato nome...,

accenna alla speranza

Che pure un di si scuota
La tardità de’ neghittosi figli;

e, come dichiarava poi in una lettera del 1836, pubblicata in parte anch’essa dallo Gnoli, in codesta canzone, "sotto lievi apparenze, cioè per le discordie d’un’Accademia filarmonica, aveva "occultato più sublimi verità, non concesse dalla condizione dei tempi a libero esame;„ cioè s’era elevato a deplorare le discordie politiche, "vecchia ed eterna origine delle italiane sventure;„ e l’aveva scritta e pubblicata, perchè "il sommo pensiero,„ [p. ccxliii modifica]che gli occupava "continuamente„ lo spirito, era "quello delle cause della italiana decadenza, non che di quella specie di fato che questa già si potente e pur sempre nobilissima terra mantiene vile e derisa.„

Che si vorrebbe, dunque, di più? che il povero Belli si fosse gettato come Curzio nella voragine? O, per uscir dallo scherzo, si vorrebbe forse ch’egli avesse propugnato anche l’unità d’Italia, quando ancora non la speravano neppur Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele; e quando il Manzoni e il Mazzini erano, per essa, dichiarati utopisti? Il vero è che, almeno dal 1830 fino al 48, il Belli fu un liberale sincero e convinto; e con quella cinquantina de’ suoi sonetti politici che diventarono popolari, fece più danno lui al Governo dei Papi, che non gliene avrebbero potuto fare, allora, cinquanta battaglioni di volontari. E quando io vedo (per non dir altro) che l’odio contro le idee liberali, anche le più temperate, spingeva il Diario di Roma, cioè il giornale ufficiale del Papa, a pubblicare il 18 maggio del 1833 un’ignorante e invereconda offerta di due scudi per i fanciulli cinesi, "in ringraziamento al Signore, per essere stata proibita l’Antologia a Firenze„ (alla quale, sia detto tra parentesi, il Belli con alcuni amici era associato); e penso che lo scoprire e accertare il nostro poeta come autore d’un solo de’ sonetti politici o religiosi sarebbe potuto bastare per tapparlo perpetuamente in galera, mi verrebbe una gran voglia di dire che in quel periodo di tempo egli fu un miracolo di eroismo patriottico!3

[p. ccxliv modifica]Se nel 37, rimasto vedovo e di nuovo in gravi angustie economiche, temendo di morire del colera che invase Roma, fece testamento, e nelle Istruzioni che vi unì prescrisse che i sonetti romaneschi, nascosti in casa dell’amico Biagini, si bruciassero; è evidente che fu mosso a dare quest’ordine dai pericoli e dai danni probabilissimi, che da que’ sonetti sarebbero potuti derivare al suo unico figlio, che allora aveva tredici anni, e ch’egli amava d’un affetto addirittura sviscerato. Nell’ordine, [p. ccxlv modifica]infatti, non c’è neppure una sillaba, che condanni ciò che è detto ne’ sonetti; e il colera non era neppure del tutto scomparso, che il poeta si rimetteva a scriverne altri con più ardore di prima.

Una volta sola, in codesto periodo liberale della sua vita, egli si contradisse, e fu quando nel 1839 e nel 40, in un sonetto italiano al cardinal Lambruschini e in una istanza allo stesso Gregorio XVI, desiderando d’essere riammesso in un impiego migliore di quello dal quale fin [p. ccxlvi modifica]dal 1° gennaio del 1827 era stato collocato provvisoriamente in riposo con l’intero soldo, usò espressioni di suddito fedele e di devoto cattolico. Ma a questa umiliazione egli fu spinto da quel suo affetto sviscerato di padre, che in certi momenti, com’è provato da mille altri fatti, lo accecava addirittura. Nell’istanza al Papa, dice esplicitamente che quel che chiede, lo chiede "in pro d’un figliuolo giovanetto;„ e in una lettera ad Antonio Neri fa capire lo sforzo che quell’atto gli era costato: "Quando io supplicai per tornare in impiego, .... mi vi ridussi stimolato dall’amor di mio figlio.„ Ed era verissimo, com’è vero che, dopo ottenuto il nuovo impiego, continuò a scrivere cose di fuoco contro Gregorio e un po’ anche contro il Lambruschini. Pur troppo, il dispotismo conduce spesso perfino gli uomini più onesti a queste flagranti contradizioni. Anche il povero Regaldi, nel settembre del 1836, se volle improvvisare nell’oraziana Tivoli (dove, del resto, fu prosasticamente bastonato), dovette inneggiare al "nome santo„ di Gregorio.4

Ma quest’atto del Belli, che se può scusarsi non merita lode di certo, non deve punto confondersi con la sua vera conversione di nove anni dopo, che fu sincera, aperta e interamente disinteressata.

Alle prime mosse liberali di Pio IX, egli si schierò subito, meglio si trovò senza nessuno sforzo naturalmente schierato, tra’ più preveggenti e più schietti fautori di lui, cioè tra que’ patriotti moderati, che volevano aiutarlo a navigare in mezzo alle due opposte correnti de’ gregoriani e de’ liberali eccessivi. Ciò apparisce evidente anche dai bellissimi sonetti suoi di quel tempo, benché egli, al solito, si studi di ritrarvi impersonalmente, e come le concepiva la plebe, le opinioni del giorno. Ma meglio ancora apparisce da una nota, tutta [p. ccxlvii modifica]sua personale, d’un sonetto del 5 novembre 1846 (vol. V, pag. 363), dove chiama stolta l’ingiuria che si diceva "fatta al Pontefice, spedendogli per la posta una elegante cartella, entro la quale era dipinto il suo stemma con sostituite ai leoni due tartarughe.„

In un sonetto che porta la data del 1847 (V, 449), senza indicazione di mese e di giorno, e che probabilissimamente è, de’ romaneschi, il penultimo ch’egli scrivesse e l’ultimo d’argomento politico, manifestava, come già in un altro dell’anno precedente (V, 364), l’opinione, comune a molti, che Pio IX in quella tempesta finirebbe per naufragare. E le probabilità, ogni giorno maggiori, che questa previsione si avverasse, tolgono al Belli la voglia di ridere; tanto che nel resto del 47 e in tutto il 48 non scrive più sonetti, e l’ultimo, del 21 febbraio 49, è d’argomento familiare, diretto a Cristina Ferretti, che un mese dopo doveva diventare sua nuora, e salvargli col matrimonio il figliuolo dall’esser compreso nella civica mobile repubblicana. Questo silenzio della sua musa romanesca attesta il profondo turbamento che gli agitava l’animo. "Gli eccessi del novembre 1848,, (racconta il suo intimissimo Francesco Spada), “commovendolo fino a piangerne, come pianse in realtà per l’uccisione del Rossi, quantunque noi conoscesse più che di veduta e di fama, ... lo ricolmarono di tale sgomento e di tale orrore, che a nessuno poteva riuscire di liberarnelo.„ E un mio amico, l’editore Alessandro Natali, l’udì chiamare gesuiti rossi i repubblicani: la qual frase compendia a maraviglia tutte le sue opinioni politiche d’allora.

Figuriamoci, dunque, che impressione dovettero poi fargli le prepotenze, le devastazioni, le ruberie e gli assassini, commessi in nome della libertà nella prima quindicina di maggio del 49, e fulminati con severe parole negli stessi proclami del Triumvirato, dell’Avezzana e del Pisacane! A detta di tutti, que’ quindici giorni [p. ccxlviii modifica]furono i più nefasti per Roma e per la Repubblica. E appunto il giorno tredici, il giorno che il canto dell’inno popolare:

   Dell’Italia sulla terra
Non più Papa non più Re:
Più servaggio qui non v’è:
Guerra, guerra!

veniva bruscamente interrotto da "due scoppi tremendi di mina,„ che fecero credere a un attacco de’ Francesi, e misero sottosopra tutta la città,5 il Belli scriveva e chiudeva nella cassetta dov’erano i sonetti l’ordine di bruciarli dopo la sua morte; perchè da lui "fatti per solo capriccio e in tempi di mente sregolata,„ e perchè opposti "agl’intimi e veraci sentimenti„, dell’animo suo: con che egli veniva implicitamente a riconoscere che essi contenevano anche molto di soggettivo.

Da allora in poi, non fu più lui.

Caduta la Repubblica, nella cui breve durata si era, a suo dire, "compendiato quanto di fellonesco, di barbaro e di abbietto abbia saputo mai osare la depravata coscienza dell’uomo;,, il 12 aprile 1850, giorno in cui Pio IX rientrò in Roma "con mirabilissimi applausi del popolo,„ egli compose il seguente sonetto, e lo mandò poi in giro stampato, ma anonimo:

al signor giuseppe mazzini.

   Signor Giuseppe mio, che ve ne pare
Di questi popolacci papalini
Che rinnegano voi, Saffi, Armellini
E messer Belzebù vostro compare,

   Per rimetter sul trono e sull'altare
Un prete che non ama gli assassini
E pospone agli oracoli divini
Le vostre profezie semplici e chiare?

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   Fin che abbiate però carta ed inchiostro
Ben saprete a costor mettere in testa
Che lo Stato del Papa è Stato vostro.
   Sfoderate ogni giorno una protesta,
E fra un secolo e mezzo il popol nostro
Tornerà, se vivrete, a farvi festa.


E a questo sonetto uniformò poi, con costante coerenza, tutti i successivi e numerosi suoi scritti, e tutti gli atti della sua vita, che si spense improvvisamente in Roma il 21 dicembre 1863, quando già l’Italia, un po’ anche per merito della ripudiata opera sua, era risorta a nuova libertà, a nuova vita, a nuove e non fallaci speranze d’intera unità e indipendenza, e il Governo de’ Papi accennava oramai a certa e compiuta rovina.

Possiamo quindi affermare con piena sicurezza che il Belli rimase fedele a Pio IX, lo seguì spiritualmente a Gaeta, e non aspettò il suo ritorno per ripudiare, come già le aveva ripudiate lui, le idee liberali, visto che con esse non era stato possibile un governo ordinato e tranquillo.

Contro la sentenza di Tacito: Malo periculosam libertatem, quam quietam servitutem, il Belli preferì la servitù. Non ebbe il coraggio del Mamiani, del Farini, del marco Minghetti e di tanti altri del suo partito, i quali, abbandonati da Pio IX che si gettava anima e corpo nelle braccia della reazione, guardati con sospetto dai repubblicani, stettero fermi al loro posto, fidenti ne’ destini d’Italia; e passando sopra a que’ brutti, ma non molti e del resto inevitabili fatti accaduti durante la Repubblica, acclamarono all’eroica difesa contro i Francesi, che salvava almeno l’onore del nome e delle armi italiane. Del Belli può ripetersi, e con più ragione, quel che il Guerrazzi,6 poco diversamente, disse del Giusti:

[p. ccl modifica]Cominciò a scuoter l’edifizio, e poi ebbe paura de’ calcinacci.

Ma nel curioso fatto che al poeta romanesco mancò anche l’altro coraggio di bruciare da sé, allora o dopo (e la cosa era materialmente tanto facile!), que’ sonetti che si opponevano agl’intimi e veraci sentimenti dell’animo suo, abbiamo non solo una prova che a questa frase va dato un valore assai relativo; ma che in lui c’era e ci rimase sempre molto (sia pure in parte per amor proprio letterario) dell’uomo di prima: precisamente come ne rimase un po’ sempre (sia pure per vanità politica) nello stesso Pio IX.

Dal bruciare i sonetti lo sconsigliò anche il suo amicissimo (Ofr. voi. V, pag. 160 e 173-74) monsignor Tizzani, nelle cui mani erano di certo stati, in numero di duemila, dal novembre del 1839 al 21 dicembre del 1842, giorno che il Belli li ritirò e ne prese nota. E pare che anche prima di morire affidasse la preziosa cassetta al Tizzani; il quale, morto lui, la restituì al figliuolo; e quindi s’incaricò, con altri, di ridurre ad usum Delphini la maggior parte de’ circa ottocento sonetti dell’edizione romana, perchè la censura li lasciasse passare. Morto poi nel 1866 anche il figliuolo del Belli, la cassetta rimase nascosta in casa di Luigi Ferretti, zio e tutore de’ nipoti del poeta.7

E del Ferretti, così bravo, così buono e così presto [p. ccli modifica]perduto (nato nel 1836, mori nel 1881), eccoci condotti naturalmente a parlare, poiché egli fu de’ più originali e felici continuatori della poesia romanesca del Belli.

Note

  1. Versi inediti di G. G. Belli, romano; Lucca, 1843; pag. 83.
  2. Domenico Gnoli, Studi letterari; Bologna, 1833; pag. 61, 62, 118, 162 e 163. (Questo, su G. G. Belli e i suoi scritti inediti, era già uscito nella Nuova Antologia del 1877-78.)
  3. Detto così in che punto capitale io dissenta dallo Gnoli, rimando volentieri al suo scritto chi desideri di conoscere tutti i particolari della vita del Belli; poiché non voglio rifare inutilmente, come pur troppo fanno tanti, un lavoro di cui non c’è più bisogno. Devo però notar qui alcuni altri orrori, in cui lo Gnoli è caduto.
       (Pag. 8.) Il Belli non nacque il 10 settemhre del 1791, ma il 7. Lo Gnoli scambiò la data della nascita con quella del battesimo, da cui la fede parrocchiale comincia.
       (Pag. 57B9.) Il sonetto: I tre colori, ch’egli adduce com’uno degl'indizi delle idee liberali del Belli nel 1824, non è di circa quel tempo, ma del 19 gennaio 1836.
       (Pag. 69.) Nelle prime nove righe del passo in cui son descritte le mascherate del Belli nel carnevale del 1827 e in quello del 28 (si veda la mia nota a pag. 134 del vol. V), bisogna dire, non che egli andava in volta, ma che andò a un festino in casa Casciani; non che distribuiva due versi, ma motti di due, quattro, cinque od otto versi; non che questi versi contenevano la parola rosso, ma, come dice alla buona lo stesso Belli, qualche parola di rosso (Rossini, Rossetti, rossetto, ecc.); non che egli si volgeva al suo servitore, ma a’ due suoi servitori.
       (Pag. 71-72.) I primi sonetti romaneschi del Belli non furono i due del 1827; ma quello che, come io dimostro, fu di certo composto tra il 1818 e il 1820 (pag. 9 del presente volume); e l’altro che lo segue, e che, accertata la data del precedente, non può più dubitarsi non appartenga anch’esso a quel periodo di tempo: al quale, inoltre, potrebbe appartenere anche qualcuno de’ sonetti senza data, specialmente i due del vol. VI. Con ciò, cade tutto quel che lo Gnoli dice a pag. 74 e 73 circa la precedenza del Giraud sul Belli nello scrivere in romanesco; e viene anche ridotta al suo vero valore l’influenza che nel 1827 potè sul nostro poeta esercitare la lettura del Porta, da cui dunque egli ricevette una spinta, non a cominciare, bensì a proseguire a scrivere in dialetto; ma in altro modo da quel ch’egli stesso aveva tentato fin lì, e in modo molto diverso, così per mezzi come per fine, anche da quello del Porta.
       (Pag. 75-76.) Se è vero che il Micheli cominciasse a scriver sonetti e altre poesie in romanesco circa il 1750 (come è affermato anche dalla Bibliografia Romana; Roma, 1880; pag, 167), bisogna aggiungere che prima di lui, e precisamente per il Conclave del 1724, avremmo due quartine romanesche, pubblicate nel citato saggio del Romussi (Emporio Pittoresco; Milano, 1878; n. 712), le quali hanno anche tutta l’aria d’esser parte d’un sonetto. E del 1774 posseggo io un sonetto intero in lingua trasteverina contro il Bischi e compagni (V. addietro, pag. clixxxix-cxc); e un altro del 1775, composto da Domenico Crudeli da Orvieto, imbastàro in Borgo Vecchio, lo possiede l’egregio marchese G. Ferrajoli. E chi sa quanti altri, anche dei secoli precedenti, ci sarebbe da tirarne fuori! Ma poi (questo non lo dico per lo Gnoli), quando si fossero scovati, secondo le esagerazioni di certi critici, tutti i Titi Livi Cianchettini della poesia romanesca anteriori al Belli, la conclusione sarebbe sempre che il Belli non imparò l’arte sua da nessuno.
       (Pag. 83.) I sonetti che nell’edizione Barbèra io diedi come conservati dalla tradizione popolare, non sono tutti i dugento ch’essa contiene; ma i soli primi settanta, compresi anche gli apocrifi. E importa non errare su questo punto, perchè, come ho già avvertito (pag. ccvii-ccviii), il Belli fu meno popolare di quel ohe comunemente si crede.
       (Pag. 132.) Non è vero che il Belli in poesia romanesca non scrisse mai altro che sonetti. In romanesco egli scrisse anche (oltre parecchie prose) due lunghi componimenti in terzine, da me accennati nel voi. V, pag. 165, nota 8; il secondo de’ quali era già nell’ediz. Salviucci (IV, 91-95), e fu pure ripubblicato dal padre Daniele Olckers a Monaco di Baviera nel 1878. (Cfr., in questo volume, la nota 26 a pag. 228.)
       (Pag. 153.) La data agosto del 1831 va corretta in agosto del 1841.
       (Pag. 158.) Non è vero che dal 1839 al 41 il Belli non scrivesse nessun sonetto romanesco. Ne scrisse due nel 39, due nel 40 e altri due nel 41.
       (Pag. 180.) «In un foglietto,„ dice lo Gnoli, "trovo queste strane parole: A Papa Grigorio je volevo bbene, perché me dava er gusto de poténne dì male.„ In queste parole non c’è nulla di strano, come potrà vedersi dal posto che io ho naturalmente assegnato loro qui sopra, a pag. ccxxxiii.
       (Pag. 162, nota.) Il sonetto accennato in questa nota è del 21 febbraio 1849. Cristina Ferretti non era dunque ancor divenuta nuora del Belli, poiché il suo matrimonio col figliuolo del poeta segui il 20 marzo successivo,
       (Pag. 171, nota.) Qui paro che i sonetti romaneschi del Belli siano poco più di 1900, mentre in realtà son più di 2150.
  4. Notizie del Giorno, 30 settembre 1836.
  5. Giuseppe Spada, Op. cit., vol. III, pag. 473.
  6. Beatrice Cenci, cap. XX, nota prima.
  7. Se nella vecchia Prefazione io dissimulai l’esistenza degli autografi, fu perchè in realtà non me ne potei giovare, e perchè me ne aveva pregato lo stesso Ferretti, onde non cadessero nelle mani della polizia pontificia; tanto più che ci sorvegliava . . . anche la polizia italiana! Ed ecco come. Nell’agosto del 69, esaurita già la prima edizione d’una quarantina di sonetti da me fatta in quello stesso anno, stavo preparando in Spoleto l’altra de’ dugento per il Barbèra; e il povero Ferretti, per comunicarmi qualche variante ohe sapeva a memoria, e qualche nuova notizia sulla vita del Belli, m’invitò ad andarlo a trovare a Gubbio, dove villeggiava con la famiglia; raccomandandomi però di non dire a nessuno il motivo della mia andata. E io, infatti, partii da Spoleto, dicendo senz’altro ohe mi recavo a Gubbio per vedere un amico romano. Ma al mio arrivo nella patria di messer Cante, mi venne incontro, ridendo, il vice-cancelliere della pretura, Filippo Bontà, e mi confidò che il Prefetto di Perugia, informato da Spoleto della mia misteriosa partenza, aveva telegrafato che mi sorvegliassero, temendosi qualche novo complotto garibaldino, avendo io preso parte alla campagna del 67. E, come si vede, il Prefetto di Perugia era servito a dovere! Ma se la cosa non era punto pericolosa per me, poteva esserlo assai per quella preziosa cassetta. E quindi una ragione di più per dissimularne l’esistenza.