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ccxlii Prefazione

Con questo sonetto, che insieme con tutte le carte del poeta (tra le quali ce n’è due o tre copie) lo Gnoli deve aver avuto sott’occhio; e più ancora con quel tanto di soggettivo che è ne’ sonetti romaneschi politici e nelle note, non capisco com’egli abbia potuto affermare che “in tutti gli scritti del Belli,, manca il "sentimento di nazionalità„; che il Belli "traversa quasi tutto il periodo della nostra rivoluzione, non agitato dalla passione e dalle sante ire di patria;„ che "non aveva nel suo vocabolario le parole di nazione e di straniero;„ e che, "non mai commosso da entusiasmi italiani„, fu "sempre insensibile alla libertà d’Italia e all’onore della Nazione.„1 E capisco anche meno, come tutte queste cose lo Gnoli le abbia affermate, mentre avvertiva che ne’ sonetti romaneschi contro tutta la gerarchia ecclesiastica il Belli prorompe talora "nella satira irosa, nella potente invettiva, nella forte e grande poesia„ (pag. 96); e mentre ripubblicava un passo d’una canzone del 1825, dove il poeta, dopo avere esclamato:

Oh patria! oh dolce e sfortunato nome...,

accenna alla speranza

Che pure un di si scuota
La tardità de’ neghittosi figli;

e, come dichiarava poi in una lettera del 1836, pubblicata in parte anch’essa dallo Gnoli, in codesta canzone, "sotto lievi apparenze, cioè per le discordie d’un’Accademia filarmonica, aveva "occultato più sublimi verità, non concesse dalla condizione dei tempi a libero esame;„ cioè s’era elevato a deplorare le discordie politiche, "vecchia ed eterna origine delle italiane sventure;„ e l’aveva scritta e pubblicata, perchè "il sommo pensiero,„


  1. Domenico Gnoli, Studi letterari; Bologna, 1833; pag. 61, 62, 118, 162 e 163. (Questo, su G. G. Belli e i suoi scritti inediti, era già uscito nella Nuova Antologia del 1877-78.)