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ccxliv Prefazione

Se nel 37, rimasto vedovo e di nuovo in gravi angustie economiche, temendo di morire del colera che invase Roma, fece testamento, e nelle Istruzioni che vi unì prescrisse che i sonetti romaneschi, nascosti in casa dell’amico Biagini, si bruciassero; è evidente che fu mosso a dare quest’ordine dai pericoli e dai danni probabilissimi, che da que’ sonetti sarebbero potuti derivare al suo unico figlio, che allora aveva tredici anni, e ch’egli amava d’un affetto addirittura sviscerato. Nell’ordine, in-


    dizi delle idee liberali del Belli nel 1824, non è di circa quel tempo, ma del 19 gennaio 1836.
       (Pag. 69.) Nelle prime nove righe del passo in cui son descritte le mascherate del Belli nel carnevale del 1827 e in quello del 28 (si veda la mia nota a pag. 134 del vol. V), bisogna dire, non che egli andava in volta, ma che andò a un festino in casa Casciani; non che distribuiva due versi, ma motti di due, quattro, cinque od otto versi; non che questi versi contenevano la parola rosso, ma, come dice alla buona lo stesso Belli, qualche parola di rosso (Rossini, Rossetti, rossetto, ecc.); non che egli si volgeva al suo servitore, ma a’ due suoi servitori.
       (Pag. 71-72.) I primi sonetti romaneschi del Belli non furono i due del 1827; ma quello che, come io dimostro, fu di certo composto tra il 1818 e il 1820 (pag. 9 del presente volume); e l’altro che lo segue, e che, accertata la data del precedente, non può più dubitarsi non appartenga anch’esso a quel periodo di tempo: al quale, inoltre, potrebbe appartenere anche qualcuno de’ sonetti senza data, specialmente i due del vol. VI. Con ciò, cade tutto quel che lo Gnoli dice a pag. 74 e 73 circa la precedenza del Giraud sul Belli nello scrivere in romanesco; e viene anche ridotta al suo vero valore l’influenza che nel 1827 potè sul nostro poeta esercitare la lettura del Porta, da cui dunque egli ricevette una spinta, non a cominciare, bensì a proseguire a scrivere in dialetto; ma in altro modo da quel ch’egli stesso aveva tentato fin lì, e in modo molto diverso, così per mezzi come per fine, anche da quello del Porta.
       (Pag. 75-76.) Se è vero che il Micheli cominciasse a scriver sonetti e altre poesie in romanesco circa il 1750 (come è affermato anche dalla Bibliografia Romana; Roma, 1880; pag, 167), bisogna aggiungere che prima di lui, e precisamente per il Conclave del 1724, avremmo due quartine romanesche, pubblicate nel citato saggio del Romussi (Emporio Pittoresco; Milano, 1878; n. 712), le quali hanno anche tutta l’aria d’esser parte d’un sonetto. E del 1774 posseggo io un sonetto intero in lingua trasteverina contro il Bischi e compagni (V. addietro, pag. clixxxix-cxc); e un altro del 1775, composto da Domenico