Sole d'estate/La grazia
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LA GRAZIA
I miei primi piccoli successi letterarî furono accompagnati, come certi grandi successi, da vivi dispiaceri.
In famiglia mi si proibiva di scrivere: poiché il mio avvenire doveva essere ben altro di quello che io sognavo: doveva essere cioè un avvenire casalingo, di lavoro esclusivamente domestico, di nuda realtà, di numerosa figliolanza.
Finché si era trattato di novelline per ragazzi, transeat; ma quando cominciarono le novelle d’amore, con convegni notturni, baci e paroline compromettenti, la persecuzione si manifestò inesorabile, da parte di tutta la parentela, con rinforzi esterni, che erano i più temibili e pericolosi.
Una ragazza per bene non può scrivere di queste cose, se non per esperienza o per sfogo personale: cosa che, se attira in un certo modo su di lei la curiosità dei giovanotti dell’intero circondario, non desta in loro l’idea fondamentale di chiedere la mano di sposa della scrittrice.
Vuol dire che tutto il mondo è stato sempre paese.
Ma non di questo io mi dolevo: le frecce che miravano più dritto e mi ferivano al cuore erano quelle della critica letteraria locale. Ricordo in modo speciale una lunga lettera anonima, scritta su carta protocollo come un regolare atto di accusa, che con raffinatezza crudele mi raggiunse un bel mattino di settembre, mentre si era in procinto di partire per una festa campestre. Nove giorni durava questa festa, intorno alla chiesa della Madonna di Valverde, nella conca omonima, dolce al mio ricordo come la selvaggia culla dove furono allevati i miei primi sogni d’arte e d’amore.
Si dormiva, per modo di dire, — poiché buona parte della notte si passava fuori, al chiarore dei fuochi intorno ai quali si ballava al suono della fisarmonica, — in certe celle addossate alla chiesa: e durante la giornata la nostra casa era la verde conca col suo ruscelletto, le pietre per sedie, le ombre degli alberi per tende.
Io portavo con me la lettera anonima, come un cilizio che doveva fra le gioie della terra ricordarmi l’espiazione da venire: e, simile al bandito mistico al quale la tradizione attribuisce la fondazione della chiesa di Valverde, mi nascondevo fra le rocce ed i lentischi, per rileggere i capi d’accusa che stroncavano la mia opera appunto come quella di un malfattore.
I colpi più giusti ed inesorabili della denunzia prendevano naturalmente di mira gli errori di grammatica: ma non questo era il maggior dolore: il dolore che mi uccideva era il vedere stroncate e calpestate le mie povere creature: neppure una si salvava dall’eccidio, ed io ero lì, con loro, la più maltrattata e rotta.
E il colore tragico della disavventura prendeva toni più foschi dal fatto che la lettera, si diceva, era stata scritta da una donna.
*
Toccava però ad un’altra donna rendermi subito giustizia.
Come nei sogni che aboliscono il tempo e la distanza, ma anche con quella luce di angoscia misteriosa che illumina i sogni e fa sentire all’anima sopita la vanità della visione, mi rivedo sul ciglione sopra la valle pietrosa, poco distante da certe rocce scavate e con le aperture basse che non mi permettevano di penetrarci; le domus de janas, i celebri monumenti megalitici, abitazioni o tombe preistoriche, dove la fantasia del popolo fa ancora abitare certe piccole fate generose o malefiche a seconda dei casi.
Il cielo, ad occidente, sopra il versante opposto della valle, è tutto di carminio, e al suo riflesso le foglie dei lentischi sembrano tante fiammelle.
Come l’esule che fissa l’orizzonte pensando alla patria perduta, io sto a sedere su un macigno e penso che dunque la mia carriera letteraria è finita. La mia vita oramai è simile a quella valle solitaria, senza strade, senza giardini, sotto una luce di passione che non avrà sbocco se non nelle tenebre della morte.
Sarò anch’io come il lentischio, che solo per gli umili che ne conoscono il segreto nasconde nelle sue radici la potenza del fuoco, e nel frutto selvatico l’olio per la lampada e per gli unguenti.
È troppo poca cosa, però, vivere solo per i poveri, quando si ha sedici anni e si crede di avere il diritto di esistere non sulla terra ma nel sole.
È l’ingiustizia stessa che grava sul povero: l’ingiustizia che, se solleva ancora di più sopra sé stesso l’uomo grande, arrivato al vertice della sapienza umana, atterra le creature ignoranti.
— L’ingiustizia...
Una voce ha risposto ai miei pensieri, come una misteriosa eco interiore. Ma no: è proprio una voce viva; mi volgo quasi spaventata e vedo dietro di me, simile ad una delle janas che abitano le case delle rocce, una piccolissima vecchia tutta vestita di nero. Anche il suo rosario è nero; ma due cose raggianti illuminano la sua figura: la medaglia grande che pende dal rosario, di argento filogranato, con due zaffiri; ed il piccolo viso di lei rassomigliante alla medaglia. Il tempo ha logorato ugualmente il viso e la medaglia, lasciandovi lo stesso splendore: e gli occhi della vecchia pare abbiano acquistato quel loro liquido bagliore d’azzurro, a furia di guardare i due zaffiri antichi.
Questi occhi adesso si affissano su di me, e a loro volta mi dànno l’impressione che una nuova luce si sovrapponga all’arido splendore di prima: la luce della fede.
La vecchia si è seduta per terra, a’ miei piedi, e sgranando il suo rosario come davanti alla Madonna di Valverde, pronunzia la sua preghiera.
— L’ingiustizia mi ha spinto a cercarti, figliolina mia d’oro; e sono venuta qui perché là dove stiamo c’è troppa gente maliziosa che ascolta. Perché mi guardi così? Non mi riconosci?
La riconosco sì, adesso: è la vecchietta che si è portata in un canestro tutto quanto le occorre per dormire e per nutrirsi — punto centrale la caffettiera, — e passa i nove giorni del rito in un angolo della stanzetta che a noi è stata concessa ad uso di cucina.
*
Proseguì:
— Tu, dicono, sai scrivere meglio degli avvocati: persino la Regina legge i tuoi scritti. È un dono che Dio ti ha dato, e tu devi adoperarlo per il bene dei poveri. Tu devi scrivere una supplica per conto mio. La carta te la compro io, anche se costa una lira. Me la fai, questa grazia?
— Di che si tratta?
Ella mi guardò, sorpresa che solo io ignorassi la sua sventura.
— Come? Non lo sai? Mio figlio, il mio unico figlio, Sebastiano, è stato condannato innocente a venti anni di reclusione, per un delitto che egli non ha commesso.
Questo preambolo è invariabile in tutte le storie del genere; per ciò osservai:
— Dicono tutti così...
Ma il viso della piccola madre si coprì di una tale maschera d’angoscia che ne rimasi turbata.
— Quando te lo dico io, che Sebastiano è innocente, tu mi devi credere. E se no, a che ti serve il talento?
Questa osservazione mi lusingò da prima, poi mi fece pensare: sì, l’alata intelligenza può intendere e scavare il mistero delle vicende umane meglio che una grave per quanto coscienziosa istruttoria.
Allora lasciai che la vecchietta raccontasse la lunga e complicata storia del suo Sebastiano.
L’origine del dramma risaliva nientemeno che all’infanzia di lui, e ad una lepre addomesticata che egli aveva rubato nell’ovile attiguo a quello di suo padre.
Il padrone della lepre, anche lui ragazzo, figlio unico pure lui del pastore accanto, aveva giurato di vendicarsi. Gli anni erano passati. Sebastiano, già uomo di trent’anni, si era fidanzato e doveva sposarsi; ma alla vigilia delle nozze la promessa sposa dichiarò che non intendeva mantenere la parola data.
Per quale vera ragione non si seppe mai: si disse che le avevano dato da bere l’acqua dell’oblio; ond’ella aveva dimenticato il suo amore e non voleva più sposare un uomo che non amava.
Ai replicati rifiuti di lei, Sebastiano si rassegnò: dopo tutto, ragazze da sposarsi se ne trovano in tutti gli angoli del mondo, e basta frugare con un bastoncino per farle saltar fuori.
Ma un fatto tragico avvenne: una notte, nell’ovile del pastore padre della ragazza, lui assente, furono sgarrettate dieci vacche, e poiché il mandriano si opponeva e gridava fu ucciso a pugnalate.
— Quella notte, — afferma la piccola madre, — il mio Sebastiano dormiva in casa, accanto al focolare. Ebbene, alla prima alba, tanto io che lui si sentì un grido strano che strisciava intorno ai muri della nostra casa come la punta di un pugnale. Era il grido del nostro vicino d’ovile, del padrone della lepre. Aveva egli colto l’occasione che le apparenze accusavano mio figlio, per vendicarsi? Noi non l’abbiamo mai saputo di certo, se non dal nostro cuore. Il fatto è che Sebastiano fu preso e condannato. Ed egli quella notte aveva dormito accanto al focolare, innocente come il fuoco stesso.
*
Vera o fantastica, questa versione della madre, io non cercai di controllarla: né d’altronde ne avevo i mezzi. Ero come un avvocato sul serio, che pur di avere una causa appassionante, l’accetta con buona volontà, e si investe di una parte che può procurargli un successo. Io volevo questo successo, che mi risollevasse, sopratutto, ai miei occhi stessi.
— Faremo la supplica: ma a chi?
— E me lo domandi, cuoricino mio? Alla Regina.
La vecchietta diceva questo, come si trattasse di scrivere una lettera confidenziale ad una mia zia o magari alla mia mamma; mentre il nome della grande, della fulgida Regina, alta sopra i nostri cuori come la stella del mattino, faceva rabbrividire l’anima mia.
E fui presa nel cerchio di fede e di fantasia della piccola donna che credeva ciecamente alla potenza magica della parola scritta: potenza d’altronde che se scaturisce dal cuore vivo dell’uomo può davvero attraversare i secoli e gli spazî infiniti e arrivare dal mendicante al re.
Con la parola scritta io dunque comunicherò con la nostra Regina: attraverso la mia voce muta Ella sentirà il cuore della piccola madre, e giustizia sarà fatta.
*
Avere qui ancora il foglio della supplica! Sostituirebbe, col suo ingenuo soffio di umanità, tutte queste paginette che hanno l’aria di una novella, e non lo sono; o forse era un documento di letteratura che il commosso ricordo trasforma e fa rivivere di più profonda vita?
Non si sa dirlo. So che era scritto in bella calligrafia, a nome della madre, con la firma apocrifa identificata da una piccola croce tremula, significativa immagine della madre stessa, della sua fede, del suo dolore.
Anche l’indirizzo fu scritto da me.
A Sua Maestà
Margherita di Savoia
Regina d’Italia
Roma
*
Passò del tempo, e nulla si seppe.
La madre sperava sempre. Io non ci pensavo più, felice di aver per conto mio ripreso nel pugno la fede in me stessa.
Un giorno Sebastiano, che aveva ancora da scontare tre anni, fu per effetto di amnistia rilasciato libero: la madre venne a trovarmi, tutta raggiante come quel giorno fra i lentischi rossi di Valverde.
— Vedi che la Regina ha fatto la grazia?
Invano tentavo di disilluderla. Se la Regina non avesse parlato, ella diceva, il decreto di amnistia non avrebbe mandato libero Sebastiano.
Ed in segno di gratitudine ella mi offrì un ricordo che conservo ancora: è una fiaschetta da viaggio, fatta di una piccola zucca tutto intorno finemente istoriata: lavoro di arte, di pazienza, di attesa, che il condannato aveva eseguito nella casa di pena.