Numeri

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La grazia Théros
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NUMERI

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Sognavo di essere appena uscita da una clinica, dove per lunghi giorni ero stata tra la vita e la morte. La gioia di vivere ridestava in me un senso di rapida e leggera fanciullezza; camminavo in punta di piedi, sentivo odore di alba e di rose nella strada asfaltata che per la doppia incessante corsa delle automobili scintillava e tremava tutta come un ponte sospeso sul fiume glauco del crepuscolo.

A casa non mi aspettavano ancora. Che felicità, per i miei ragazzi, rivedermi al posto della mensa da tanti giorni vuoto! Mio marito prenderà dalla cantina la sua più antica bottiglia. Per completare la festa penso di portare anch’io qualche cosa: ed ecco mi si apre subito a fianco la vetrina luminosa e fragrante di una pasticceria. Entro. Una strana coppia, un uomo e una donna che si rassomigliano perfettamente, grassi, rossi, calvi entrambi, con gli occhi di pistacchio, si sporgono verso di me dal banco [p. 248 modifica] di metallo. Io indico la torta che voglio comprare. La donna l’avvolge, la lega, mi dice:

— Cinquantanove lire e trenta centesimi.

È un po’ cara; ma non voglio fare brutta figura: traggo il portamonete per pagare; e questo portamonete è una scatola di fiammiferi.

Eppure è lo stipendio ultimamente riscosso da mio marito. L’uomo, al banco, accetta la strana moneta; ma dev’essere un sovversivo perché dice con aria tragica:

— Ecco come lo Stato paga i suoi funzionari.

E mi restituisce, contandoli uno per uno, sessantun fiammiferi.

Nel medesimo tempo la luce si spegne; un avventore seduto in un angolo della pasticceria, al quale non avevo badato, esclama con voce ironica e trionfante:

— Questo, a casa mia, non succede, posso giurarvelo.

Io riconosco la voce: è quella di un mio vecchio amico, scapolo impenitente, che si vanta di vivere come gli uccelli dell’aria: senza casa, senza impegni, senza denari.

— Come? — domando. — Se lei non ha casa, la luce certo non ci si può spegnere.

Sempre al buio, egli ribatte:

— Lei si sbaglia, illustre amica. Io ho la [p. 249 modifica] casa sui monti. E c’è un candelabro con sei braccia e ventitré candele. Mia madre, che è ancor viva e vegeta, lo tiene sempre acceso.

*

Mi svegliai con un profondo senso di angoscia. Angoscia per la fine improvvisa del sogno, ma anche per la rivelazione di quella vecchia madre che nella casa sui monti teneva accesa la luce patriarcale, mentre il figlio, già vecchio anche lui, errava per le strade ambigue di una vita senza scopo e senza luce.

Ma subito mi riprese un senso di leggerezza, quasi allegria: ricerco i numeri sognati, li ricordo nitidamente, godo la gioia fantastica della mia infermiera quando le regalerò questa magnifica cinquina. Lei correrà al botteghino del lotto: ci rimetterà certamente le due lire del biglietto; ma per tre o quattro giorni vivrà nel fasto e nell’ebbrezza della speranza di una vincita favolosa. Povera Lina, povera e grande come le pie donne che accompagnarono Gesù al sepolcro, tu lo meriti: tu che sei la mia prima [p. 250 modifica] e vera amica; tu che tratti il mio corpo come un corpo santo, che in esso rivedi appunto la divinità del Cristo crocefisso; e scherzando affermi di essere, e lo sei davvero, la mia seconda balia. E credi ciecamente nei miei sogni perché sai che l’anima, quando riesce a staccarsi dal corpo dolente, spazia nel regno della verità inconoscibile all’uomo che crede di essere sveglio e vivo solo perché sono svegli e vivi i suoi sensi mortali.

*

Ma Lina quel giorno non venne. S’era ammalata anche lei e mi mandò a dire che le dispiaceva solo perché non poteva assistermi. Non so; un senso quasi di rispetto m’impedì di comunicarle, per mezzo della suora che l’aveva sostituita, i numeri sognati: un caso, che, come del resto molti casi della vita, ha dell’incredibile, e a me prima di tutti sembra grottescamente inverosimile, mi diede però lo stesso giorno il modo di liquidarli.

Era il primo giorno che mi si permetteva di alzarmi, e già qualche persona di mia [p. 251 modifica] conoscenza domandava di visitarmi: altri telefonavano, e, verso sera, mentre stavo per rimettermi a letto, io stessa dovetti andare al telefono perché un signore chiedeva con insistenza di parlarmi.

Era l’uomo del sogno.

— Sa che ho sognato di lei? — gli dissi dopo la sua comunicazione. — Niente malignità, oh! Anzi lei mi ha dato i numeri del lotto.

— Li ha giocati?

— Io? Io non ho mai giocato al lotto; anzi mi ricordo che una volta tolsi la mia del resto inutile amicizia a una signora intelligente che ci giocava.

Sentii l’uomo ridacchiare: e mi parve di essere ancora nella pasticceria misteriosa, al buio, nella nebbia del sogno. Egli disse con ironia:

— Ebbene, mi dia i numeri e, se crede, mi tolga pure il saluto.

Sullo stesso tono glieli diedi: egli se li fece ripetere due volte, per non sbagliare. [p. 252 modifica]

*

La convalescenza è felicemente finita; questa volta non è un sogno l’uscita dalla sinistra dimora che tuttavia, forse per lo stesso dolore e lo stesso sangue che ci si lascia, diventa tristemente cara. È l’alba della terza domenica dopo Pasqua: un’alba che è tutta una rete sfolgorante di suoni di campane e di canti d’usignuoli. Il rumore della città che si desta ha pur esso qualche cosa di armonioso, di fluviale; tutti gli uomini, oggi, hanno riaperto gli occhi con letizia e quelli che già camminano sono come ragazzi in vacanza. Io non posso più restare a letto: mi sollevo, suono. Lina accorre, allarmata.

— Lina, io voglio alzarmi; io voglio andar via.

La donna, tutta bianca e profumata come un giglio, mi tasta il polso.

— Eppure febbre non ce n’ha! Buona; non vaneggi. Si rimetta giù: le porto il caffè.

— Lina, mi dia almeno un giornale.

Ecco, col caffè ristoratore, un giornale della sera avanti; la prima escursione si fa nella terza pagina, la seconda attraverso la cronaca cittadina, la terza nell’ultima [p. 253 modifica] pagina: e proprio in fondo, quasi inquadrati nella stessa cornice nera, vedo alcuni numeri e alcune parole che mi dànno un senso di vertigine mortale. Sono i numeri dell’ultima estrazione del lotto: i miei numeri: 59 - 30 - 61 - 6 - 23.

E, sotto, un annunzio funebre: la morte per «improvviso malore» dell’uomo al quale io ho dato questi numeri.

*

Dopo il primo stordimento, cerco di orientarmi. Ha l’uomo giocato o no? E quanto ha giocato? Se la posta è stata di molte lire, la vincita è enorme. Vediamo a che ora è morto: alle undici del mattino: a quell’ora l’estrazione è già avvenuta: l’innocente bambino che, bendato come la sorte, estrae dall’urna i numeri fatali ha già forse incrinato l’arido cuore dell’uomo che da tanti anni batte i selciati della Città nella vana ricerca della fortuna.

È così? Non è così? Richiamo Lina: voglio farle domandare notizie, ricercare il filo della verità.

Ma quando rientra, invece di dar retta alle mie domande, ella spalanca i vetri e [p. 254 modifica] dà un grido di gioia: poi si inginocchia sotto l’azzurro della finestra e si fa il segno della croce.

Un suono d’organo e un coro di voci bianche riempiono la triste camera: il mondo è mutato; è tutto un tempio dove si celebra una festa primaverile: pace ai morti e pace ai vivi.

La donna si solleva e dice:

— È la Comunione in fiocchi. Il Signore è uscito dalla sua Casa e va a trovare gli infermi.