Sole d'estate/La chiesa nuova

La chiesa nuova

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Il tappeto La grazia
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LA CHIESA NUOVA

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Tornavo, sofferente anch’io per un malessere fisico, dall’aver visitato, in una clinica, una carissima persona da lungo tempo malata di un terribile male: male al cui sbocco la morte risplende come un giardino di rose e d’aranci in riva al mare, in primavera: forse il giardino dal quale l’uomo fu scacciato per il suo peccato originale e dove rientrerà dopo che la vita gli avrà succhiato atomo per atomo ogni possibilità di gioia e di speranza.

La malata mi aveva chiesto un veleno; ed io risalivo la strada sfolgorante di verde e di luce, pensando al modo di procurarglielo.

Così, oltre l’angoscia, mi accompagnavano, neri e sinistri, la disperazione e il delitto.

Là, in fondo alla grande strada dove le ville fra i parchi profondi sembrano case di fate, e sono invece quasi tutte cliniche e alberghi di dolore, lassù c’è una farmacia dove forse potrò riuscire a procurarmi il veleno. [p. 222 modifica]

Cammina, cammina, come il bambino smarrito nella selva, il terrore e la speranza spaventosa di un’uscita nel vuoto, mi guidano. Ma la stanchezza del corpo frena il triste camminare: un ginocchio s’irrigidisce e rifiuta di seguire l’altro: eppure continuo; e la mia ombra mi pare il diavolo zoppo che spaurisce e fa ridere i fanciulli.

La strada è lunga, però; tramonta il sole, cade la sera, ed ho paura di smarrirmi davvero.

Domani. Lasciato il progetto al divino domani, per tagliare corto imbocco una strada nuova che so diretta alla mia casa.

È una strada nuova, ma aperta in un parco antico divorato dalla città affamata di spazio. Lecci millenarii la fiancheggiano, e la loro ombra ha come un senso di ostilità e di tragedia: sembrano grandi vecchi sopravvissuti ai loro discendenti, capitani fatti prigionieri dopo l’ecatombe del loro esercito.

Strada nuova? Eppure mi sembra di riconoscerla; come credo di riconoscere i lecci, coi loro occhi rossi di tramonto fissi a guardarmi dallo sfondo del cielo.

Io ho percorso altre volte questa strada, ho conosciuto questi alberi. Quando? In una vita anteriore? O nella fanciullezza ricca e dolce, nel paese favoloso della mia stirpe antica come il mondo stesso? [p. 223 modifica]

Non ricordo, e un senso di stordimento mi prende: penso alla leggenda che dice appunto la Sardegna un grande scoglio sopravvissuto alla sommersione dell’Atlantide: ad ogni modo sono certa di aver percorso questa strada con compagni ben diversi da quelli che adesso, muti e ferrati come un branco di sgherri, mi stringono e spingono.

La gioia azzurra, l’illusione vestita d’iride, il peccato, forse, ma coperto di porpora e d’oro come un principe d’Oriente, mi accompagnavano, in quel tempo lontano; e i lecci non erano sinistri e torvi: felici, anzi, come antenati in mezzo alla numerosa famiglia, e superbi come capitani in mezzo all’esercito vittorioso, non si degnavano di por mente alle comitive dei piccoli uomini che violavano col loro passaggio la quiete panica del luogo.

Adesso tutto è ombra: e il luminoso mistero della vita si è mutato in quello tenebroso della morte.

D’un tratto però la strada svolta, sale, va verso l’occidente; e d’improvviso uno sfondo migliore rischiara il triste andare: è uno sfondo agitato anch’esso; un cielo quasi verde, ferito di nuvole vermiglie, dolorante, ma in lotta contro le tenebre: un cielo di dolore e di speranza. [p. 224 modifica]

*

Il suo riflesso però rimaneva per me esterno: potevano brillare i miei occhi, ma non penetrava la luce nell’anima mia.

Domani.

La lieve salita rendeva più faticoso l’andare: il ginocchio malato si faceva trascinare malamente dall’altro come un bambino stanco dalla madre cattiva.

Ancora un poco e saremo a casa: già si vedono le ville nuove, affacciate alla sera con le loro loggie di trina e le terrazze fiorite: le ville nuove, tutte belle e agghindate come spose novelle. Il silenzio le circonda, così profondo che dà un senso di stupore come quando si è bevuto un liquore forte.

La vita è dolce, là dentro; tutti vi sono felici, ricchi e sani: le porte ben custodite non si aprono all’ospite terribile che mi aspetta, da lungo tempo insediato nella mia stanza, e al quale io non ho saputo chiudere mai la porta.

E il contrasto rende più oscuro il cammino. [p. 225 modifica]

*

D’improvviso però mi fermai. Dove la strada è più silenziosa, come in vetta ad un monte, sorge la chiesa nuova: la piccola chiesa del nuovo quartiere dei ricchi. Un po’ questi, un po’ i poveri che vivono intorno ai ricchi, molto i più ricchi e felici del mondo, i bambini innocenti, hanno contribuito a costruirla.

Qui non si sa descriverla: come si fa a descrivere una piccola chiesa nuova, che invece d’incenso odora di vernice, che non ha cupola né torre, ma una semplice croce timida che pare voglia nascondersi fra le nuvole della sera?

Ancora non avevo veduto la chiesetta; tanto però ne avevo sentito parlare, fin dalla posa della prima pietra, da una bocca innocente, che mi venne desiderio di visitarla.

Da quanto tempo non entravo in una chiesa!

Si usa dire: la miglior chiesa è la casa, e Dio è in noi. E così abbiamo dimenticato il vero Dio, che è sopra di noi, l’Altissimo; e nostro compagno è Satana che ci offre i regni della terra. [p. 226 modifica]

Questi pensieri già cominciavano a sviare la mia mente dalla sua strada, e allontanavano di qualche passo i miei compagni feroci: la curiosità sola, ed anche un po’ di stanchezza, entrarono con me nella chiesa.

Dentro c’era come un’allucinazione di luogo incantato. Persona viva non l’animava: solo le sedie, legate fra di loro, nuove e fresche, pareva pregassero, in mancanza di fedeli.

Sulle prime il pavimento mi parve azzurro, come un vetro sul mare: era il riflesso delle vetrate azzurre.

I santi sono coperti di viola. E sento un primo colpo al cuore, perché mi sembra che essi si siano nascosti dietro i veli del lutto per non vedere l’anima mia attraverso i miei occhi di morte.

Poi mi metto a sedere e ricordo. È la Settimana di passione.

*

E a poco a poco ricordo il resto: la piccola Bibbia sulla cui copertina gli uomini salgono l’erta verso Gerusalemme, il vangelo di Matteo, la donna Cananea, i segni dei tempi, e su, su, fino a Gesù nell’orto [p. 227 modifica] degli olivi, e le sue ultime parole: sia fatta la tua volontà, o Signore.

Di nuovo ho un senso di sogno. Mi sembra di riconoscere anche la chiesa: quell’azzurro perlato e alto delle vetrate lo conosco: conosco i volti santi velati di viola, ma di quel viola che domani si muterà in rosa: e infine riconosco i fiori sull’altarino di legno accanto a me.

Sulle prime il loro colore si era nascosto nel colore del velo; ma adesso che i miei occhi cominciano a vedere, anch’essi si rivelano, vengono a me quasi con un grido di esultanza.

Sono i giaggioli del mio orto.

*

Chi li ha portati? Io non lo so: ed ecco di nuovo non li vedo più. Ma adesso sono io che mi nascondo, per nascondere il tumulto improvviso dell’anima mia, che si sovrappone al primo come l’onda si sovrappone all’onda nel mare agitato.

E il velo è più grave di quello dei santi, perché intessuto di lagrime.

Allora, come nell’involucro di un sogno [p. 228 modifica] vero, rivivo la vita anteriore che già mi era riapparsa sotto i lecci.

La chiesa è quella, il bosco è quello. È la chiesetta antichissima, in cima al Monte Orthobene, sopra la cascata di lecci, nell’ora quando il cielo si sprofonda fino a Dio, e dal mondo salgono le nuvole rosse che hanno assorbito e disperdono le passioni degli uomini.

Sono ancora fanciulla: la vita è dentro il mio pugno, come una manciata di gemme; ma io la depongo ai tuoi piedi, Signora del Monte, come nella canzone nuorese la giovane fidanzata morente offre le sue collane alla Vergine Maria.

Tutto io ti offrivo, Regina del Monte, purché tu mi conservassi la fede. E il canto dei fedeli intorno a me rinnovava il mito della nave salvata dalle onde: se ne sentiva il rombo di lotta, nelle voci di mare e di vento, nella cadenza monodica della melodia.

Su Munsignore sacradu,
In su mare navighende,
Mentres fit periculende,
In s’abba casi annegadu,
Cando a tie hat invocadu,
Sa tempesta est isvanida.
Imploranos, de su Monte
Reina, s’eterna vida.

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*

Quando riaprii gli occhi mi sentii pure io salva: e con me l’infelice che da me aspettava la morte.

E così ritornai a casa: l’ospite mi venne incontro, come fosse lui il padrone, porgendomi il pane e la bevanda per ristorarmi, l’unguento per sanare il male.

Ben venga l’ospite inesorabile e divino, che purifica le vene e brucia le scorie del peccato; l’ospite sacro che se ben trattato lascia la casa ribenedetta e il ramo d’olivo che il Signore ci manda per mezzo della sua mano: il Dolore, che è l’intermediario fra noi e Dio.