Sermoni giovanili inediti/Sermone XIII
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SERMONE DECIMOTERZO.
LE IMPOSTE.
Se col vivido raggio il Sole attira
Dall’ampio mare e dall’angusto stagno
In sottile vapore onda conversa,
L’aura impregnata ai campi sitibondi
5E ai ruscelletti poveri dischiude
La benefica stilla e la corrente
Limpida vena, sì che il verde prato
E il pingue cólto ne sorride, e lieto
Il variopinto margine si abbella.
10Tale in sembianza alle ingannate menti
O ingannatrici appar l’arte infinita
Dello smungere i popoli maestra.
Cogli effluvi, che intorno in parti mille
Dalle fortune singole delibi,
15Miracol novo, il sempiterno rivo
Della fortuna pubblica ristori,
Alimenti e propaghi; e in mille parti
L’adduci intorno serpeggiando, e avvivi
Dell’arti la moltiplice semenza.
20Ma dimmi, o che la tua vista si appanni
Per caligine densa, o che l’altrui
Deluder tenti con dipinto vetro,
Se da celeste vampa inaridite
Languon l’erbette tenere, cui manca
25Il vital succo di materna gleba;
Dimmi, che giova se il perduto umore,
Che al gioco avanzi di mutabil vento,
Nè per l’etere vano si disperda,
L’avara pioggia e tarda in parte renda?
30Poni, che cento e cento aurati nummi
Di fabbrili a dotare ordigni io serbi
L’officina, che langue inerte e muta;
Od a solcar delle infeconde zolle
Con vomere potente il sen ritroso.
35Tu del riposto cofano mi sforzi
Sino il fondo a toccare e cento e cento
Aurati nummi liberal presumi
Indi partir fra le diverse schiere.
Ma non intendi a qual patto si mostri
40La tua pretesa liberal natura?
O doni altrui quel che a me togli; e puote
Di tua virtude il generoso esempio
Anche il ladro vantare: o il prezzo rendi
Dovuto all’opra; e di giustizia adempi,
45Nulla donando, il sacrosanto uffizio.
Ehi! mercatante, porgimi cinquanta
Monete; e compro il vagheggiato drappo,
Degli scaffali illustre pondo. È pronta
La mia sinistra a solvere il metallo,
50Onde la destra aggraverai cortese.
Così ritorno coll’alterno giro
Le cinquanta monete a te faranno,
E rapid’ale al tuo commercio impenno.
Il mercatante alla proposta inarca
55Le ciglia, in dubbio se per celia parli,
O da senno o con fraude. A che ridarmi
Le annoverate piastre m’imprometti,
Purchè nel ricontarle il drappo io perda?
L’une e l’altro serbar mi sia concesso:
60Che all’une accoppierò tante sorelle
Di numero, valore e grazia eguali,
L’altro cedendo a lui che non si piaccia
Di vuote ciance rintronar gli orecchi.
Perchè l’obolo suo rechi ciascuno
65E in un s’accolga, chi ne tiene il sacco
Forse materia ad utile lavoro
Ampia darà, più che l’industre cura
Non farebbe dei singoli? La prova
Dai zoppicanti calcoli discorda.
70Del ricettore le primizie io lascio;
Lascio la preda delle ingorde arpie;
E degli Arghi, che i cento occhi non hanno,
Le incerte veglie e il sonnecchiare eterno.
Mentre all’esca d’insoliti proventi
75Entro ad angusta cerchia in grande calca
Accorrono le turbe, in più lontana
E largha cerchia a più diffuse genti
Equabile e maggiore esca si toglie.
I cento ricordando aurati nummi
80A me sottratti, alle infeconde zolle,
All’officina squallida e deserta,
Forse di qualche faccendier la fame
Avrai satolla; inutile genía,
Quando infesta non è. Ma delle bionde
85Spiche non ride l’ispido terreno,
Nè dell’ammutolita eco la voce
Il suon ripete delle agresti note,
Onde la baldanzosa villanella
E l’ardito garzon lieti festeggino
90Le dovizie di Cerere e di Bacco.
Oh! quante labbra s’aprono per fame
Allo sbadiglio, oh! quante braccia a forza
Inoperose pendono. Smarrita
L’arte vacilla, di cui fiacchi il nerbo:
95Male i compensi alle fatiche adegua;
E mentre al desïar poco risponde,
Manda i cultori suoi poveri e ignudi.
La ragione, gli effetti e la misura
Come librar de’ pubblici tributi,
100Se l’indole, l’obbietto ed il confine
Del sovrano poter non riconosci?
Se nei popoli il vario ordine e grado
Di bisogni, d’ingegni e di fortune
Non indaghi, secondi e al meglio pieghi?
105La civile famiglia, a cui siam nati,
Dispersa errando con guerra e rapina
Andrebbe, allor che a governarla intento
Niuno più fosse con paterno senno.
Con unica suprema potestate
110Regni la Legge, interprete fedele
Del pensiero d’Iddio. Mano per tutti
Egual si ponga ad essa; e a tutti splenda,
In bella pace liberi e securi,
Limpido raggio di vita serena.
115O tu, che siedi vigile custode
Del comun dritto a guardia, oh! quali offese
Da noi rimovi, e quai frutti benigni
Coglier ci doni dalle intatte piante.
Quali discacci tenebre, ed abbatti
120Importune barriere; ed apri vie
Agli alternati cambi; e quale infondi
Novello ardore alle agghiacciate vene,
E nova agli abbattuti animi e stanchi
Speme e fidanza. Del servigio degna
125È la mercede imposta alle soggette
Genti in proporzïon delle diverse
Fortune all’ospitale ombra cresciute.
Chi l’armi impugna, e chi la toga indossa
A tutela comune, equo ritragga
130Dal tesoro comune il suo compenso.
A che ti lagni, se una parte cedi
Di tue dovizie a lui, che l’altra parte
I giorni spende a conservare intento?
Al castaldo, al donzello, al portinaio
135Neghi forse il salario? O non t’incresce,
Che a dar nel sangue e nell’aver di piglio
Ti piombi addosso il ladro e l’assassino?
O contro ad essi valido riparo
Del tuo petto farai, se non gli affreni
140Il timor della legge? O non discerni
Come col mezzo del comun tesoro
Il premio paghi delle altrui fatiche
Al tuo bene rivolte? A questa norma
La mente affisa; e la ragion riposta
145De’ pubblici tributi nel bisogno
E nel servigio pubblico ritrovi.
Loro discrezïone indi misuri,
Se al sacrificio minimo risponda
Il servizio maggiore; e questo sia
150Pari al bisogno e pronto. Il tempo, il loco,
Il modo scegli ad evitare acconcio
Le importune ricerche, i repentini
Sforzi molesti e le coperte fraudi.
A te non giunga logora e sparuta
155Per cammin lungo, avviluppato e torto
La moneta, che a me di fresco conio
Dalla tasca evocavi. Il reo costume
Lascia che i vani sogni e i pazzi giochi,
Onde vinci tu sol che l’urna tieni,
160E le infelici cabale fomenta.
Nè la feconda pianta abbatterai
Per raccoglierne i frutti, onde poi sempre
Il famelico dente asciutto resti.
Varia di nome e forma e di sostanza
165È de’ balzelli l’avida famiglia,
Che più le voglie stemperate allarga
E meno abbraccia; simile a colui,
Che dietro al corpo di persona viva
Correr sognando, stringe al vuoto petto
170Una immagin che al vento si dilegua.
Non sempre il finanziero abbaco mostra
Che il due sommato al due risponda al quattro:
Anzi talor, se il quattro al quattro aggiungi,
Dell’otto invece appena il due consegui.
175Voi, che all’onesto il tergo rivolgendo
Con cieca foga l’utile cercate,
Più dell’antica esperïenza vane
Non rendete le prove; e questo vero,
Se di un lucro maggior cura vi prenda
180Che di giustizia e di onestà si abbelli,
Eternamente a voi novo non parli.
Quale di spesse, tacite e minute
Stille si bagna l’arido terreno,
Più che de’ larghi sprazzi, onde fuggendo
185La fragorosa nube si disgravi;
Tale de’ prezïosi atomi intorno
Con mano leggerissima raccolti
Ricco farai tesor, che a te s’invola
Se con aperte spanne ad esso agogni.
190Al fine bada; chè l’imposto carco
Spesso dall’uno all’altro si trabalza,
E precipita là dove col grave
Pondo e col fiero colpo abbatte e schiaccia
Chi più deboli al suol gli omeri piega.
195Perchè dell’Epulon gonfio e pasciuto,
Quasi auretta gentile appena lambi
Con ali soavissime le tazze
Tempestate di gemme; e dalla bocca
Dell’affamato Lazzaro non temi
200Quasi strappare i bricioli caduti
Dalle alte mense? Il poverel che siede
Con numerosa prole a picciol desco,
Le stanche forze e languide ristora
Di maggior pane; e se del pan sudato
205Colla importuna tassa il prezzo accresci,
Ride Epulone, e Lazzaro vien manco.
Non il capo dell’uom, ma la fortuna
Premi e colpisci; e tu ben sei crudele
Se al tuo pressoio, al tuo martel condanni
210Non il fortuneggiar, ma il viver gramo.
Delle cose l’acuto occhio sagace
Il valore ed il reddito ricerchi,
Misuri e segua. Egual di tutte cose
L’uso non è. Necessitade a queste
215Inesorabilmente incalza; a quelle
Costumanza civile astringe: ad altre
Con leggiadre lusinghe e vario metro
Invita il genïal vezzo, o trascina
Sempre derisa e venerata sempre
220La volubile moda, a cui le fasi
Sembrano della luna a correr tarde.
Le tue gabelle mi sapran di sale,
Da quel diverso, onde al bifolco neghi
Far maggior copia e ai campi ed agli armenti,
225Finchè a necessità danno di cozzo;
E me digiuno, lasciano od ’orbato
Della materia al mio lavoro addetta.
Ma ben ti assolvo allor, che degli obbietti
A cui ricorro più, come la voglia
230Più mi sorrida e l’opra mi secondi,
Lieve lieve s’accresca il prezzo, ond’io
Ne sopporti l’acquisto; e mentre pago
Degli obbietti il valore, io paghi insieme
Inavvedutamente in lui confuso
235Il valor delle tacite gabelle,
Che si nomâr dalle gabbate genti.
Talora avviene, che pel dazio offesa
Tanto la merce sia ch’io la rifiuti.
Tu dell’ingrato pondo la disciogli;
240E vendendo la merce il dazio porti.
Indi l’una restringi, e chi ne move
In cerca desïoso, all’altro inchina
Volontario le spalle. Etenia lotta
Il prezzo delle cose agita, e volge
245Del mercato le sorti. A che mi stillo
Dunque il cervello a raddrizzare il becco
Dello sparviero? Giudice e maestro
Ed arbitro supremo il caso sia,
Ch’esso è duce e signore e la contesa
250Vana sarebbe. È cieco il caso? Oh! quanto
Di coloro, che credon di vedere,
Ed han la vista più dell’ugne corta,
Meno in fallo cadrebbe il caso cieco!
A che le imposte varïate e strane,
255E le mobili e immobili tariffe,
Gli armati sgherri ed i tranelli infidi,
Quando per se medesmo il carco scende,
E con moto invincibile si parte
Sugli omeri diversi? Unico e solo
260Un carico s’imponga, e la sua legge
Segua, com’acqua in disugual terreno
Caduta, la nativa indol seguendo.
Con certo e naturale ordin si appiana.
La sofistica nebbia al primo raggio
265Si dilegui del ver. Volge alla china
E si dilata il liquido elemento,
Se noi rattenga delle opposte dighe,
Delle sponde e degli argini riparo.
Che al valor degli obbietti si disposi
270Delle imposte il valore, e intenda e mova
Equabilmente a spargersi d’intorno,
Io nol ti niego allor, che ostacol nullo
Ne impedisca il connubio, o ne distorni,
Ne rallenti o ne fermi il moto impresso.
275Se la sorgente inaridisci, asciutto
Colla povera arena il letto giace
Dello sperato rivo; e se alla foce
Tutta ne assorbi la scorrevol onda,
Indarno delle dolci acque tributo
280Il mare attende. All’intima sorgente
Dello sperato rio si rassomiglia
L’arte cui nutrimento e vita togli,
La materia aggravandone, il lavoro
E il debito profitto. Un magro fiume
285È il popol vario che anelando corre,
Stimolato dal pungolo diverso
Degli umani bisogni, ove la copia
A soddisfarli con perenne giro
Delle umane dovizie si riversi.
290L’indiscreto rigor del tuo balzello
Ogni vena ristagna, e dalla chiusa
Angusta foce scaturir non lascia
Misera stilla, che l’aride labbra
Del sitibondo Tantalo ristori.
295Incauto, bada, che una spada tratti
A doppio taglio. All’un tronchi le braccia,
Nè il lavoro ti appresta; all’altro storpi
Le gambe, e ad accattarlo non arriva;
E a te, se non insanguina la destra,
300Almen vuota la stringi. Al comun bene
L’occhio non apri, e a tuoi danni lo chiudi?
L’arma che impugni a maneggiare apprendi,
I colpi misurandone, e la mira
Giusta prendendo. Chi l’arte disprezza,
305Colla benda sugli occhi i colpi mena.