Scientia - Vol. IX/Il principio di relatività e i fenomeni ottici
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IL PRINCIPIO DI RELATIVITÀ
E I FENOMENI OTTICI
Introduzione.
Quando il Newton nei suoi immortali Principia poneva le nozioni di quiete assoluta e di moto assoluto, egli ubbidiva più allo spirito dei tempi che alle esigenze di uno sviluppo logico della meccanica. Il movimento di un corpo è determinato soltanto quando si assegni un secondo corpo, o sistema, a cui quel movimento possa riferirsi. D’altra parte il sistema può mutarsi con un certo arbitrio, senza che le leggi del moto si alterino. Queste enunciano solo proprietà di moti relativi, nè mai permettono di caratterizzare il moto assoluto.
La conclusione sulla relatività di ogni moto constatabile, alla quale la costruzione della meccanica ha condotto, è in pieno accordo coi risultati della critica filosofica moderna. Può esser comodo parlare di un corpo in quiete; ma la locuzione, intesa nel senso di Newton, non ha contenuto reale. Sebbene queste idee sieno ormai famigliari al mondo scientifico, tuttavia è così potente la tradizione, è così forte ancora in molti il bisogno di trovare un punto d’appoggio nell’eterno moto dell’universo, che l’antico concetto metafisico talvolta risorge ed informa spesso il linguaggio di astronomi e di fisici. Una concessione veramente vien fatta allo spirito moderno. Accanto ai corpi materiali, che entrano nella questione in esame, si introduce un mezzo ipotetico, l’etere dell’ottica e dell’elettromagnetismo, rispetto al quale si definisce il moto della materia. Ma poi si attribuiscono all’etere tali proprietà da ricostruire in esso quel sistema in quiete assoluta, di cui si credeva di esser liberati.
La storia dell’ottica è ricca di tentativi analoghi più o meno velati. I rinnovatori della teoria ondulatoria, Fresnel e Arago, indagano la ragione per cui i fenomeni luminosi non vengono turbati dal moto della terra. Non è veramente il problema intorno alla relatività dei fenomeni che li preoccupa. Troppo laboriosa era la costruzione del grande edifizio, perchè rimanesse loro il tempo di filosofare! Si trattava di stabilire quali proprietà convenisse attribuire all’etere, affinchè la teoria si accordasse coi fatti. È l’etere immobile nello spazio, come crede Fresnel? E allora perchè nessun fenomeno rivela il vento di etere che investe la Terra, nel suo movimento annuo? Oppure è trasportato l’etere dalla terra, come pensa lo Stokes? E in tal caso come si spiegano le particolarità dell’aberrazione della luce?
La grande controversia, la quale, grazie alla sintesi potente di Maxwell, investe anche i fenomeni elettromagnetici, domina gran parte del secolo scorso. Spettava al genio di Lorentz dì stabilire un perfetto accordo fra la teoria elettromagnetica dei corpi in moto ed i fatti sperimentali. Per Lorentz l’etere è in quiete assoluta, ma in virtù di ingegnosi compensi, la relatività dei fenomeni è perfettamente rispettata. Si direbbe (se lo scherzo fosse lecito in così gravi questioni) che un demone maligno, dopo aver creato il mirabile tessuto dell’etere, avesse cercato con sottili accorgimenti di nasconderne per sempre la trama ad occhio mortale.
La teoria di Lorentz, perfetta sotto l’aspetto matematico, non può tuttavia soddisfare interamente uno spirito filosofico. Se nessuna esperienza è atta a rivelare il movimento della materia rispetto all’etere, dovrà esser possibile di creare una teoria, coerente dei fatti, ove l’etere non intervenga. L’etere, nella trattazione di Lorentz, gioca un ufficio analogo a quello di un’armatura nella costruzione di un edifizio. Un progresso ulteriore doveva portare alla descrizione dell’edifizio senza riferirsi all’armatura.
Il progresso fu compiuto dall’Einstein; nei suoi bei lavori sull’argomento l’assoluto è scomparso, e la relatività trionfa. Il trionfo non è raggiunto però senza gravi sacrifizi. Le nostre idee sullo spazio, sul tempo, sulla contemporaneità dei fatti vengono profondamente turbate, a tal punto che molti si sentono perplessi nell’accogliere le nuove vedute.
Qualunque sorte però serbi ad esse l’avvenire, così grande è l’interesse dell’argomento, che ogni cultore della filosofia naturale può desiderare di conoscerlo, sia pure in forma superficiale. A tale scopo è dedicato questo scritto. Nel quale, in una prima parte, di carattere induttivo, si mostra come l’esame imparziale dei fatti elementari dell’ottica porti a formulare i principi fondamentali della trattazione di Einstein; ed in una seconda parte si fa vedere come quei principî, per via deduttiva, conducano ad una ricostruzione della cinematica diversa da quella che Galileo e Newton ci hanno tramandato.
I.
Il principio di relatività.
Quando si studia un fenomeno che accada in un corpo qualsiasi, conviene spesso collegare il corpo ad un sistema di riferimento. La scelta del sistema non è del tutto indifferente. La esperienza ci rivela la esistenza di sistemi, rispetto ai quali le leggi della meccanica assumono un carattere particolarmente semplice. Un tale sistema è fornito ad esempio dal Sole, ove si faccia astrazione dal moto di rotazione dell’astro intorno al proprio asse. Ogni altro corpo, o sistema, che sia animato da un moto di traslazione uniforme rispetto a quello, gode gli stessi requisiti. Ciascuno di questi sistemi naturali di riferimento ha nella dinamica lo stesso ufficio che lo spazio in quiete assoluta dei metafisici; nessun fatto meccanico autorizza a preferire uno dei detti sistemi agli altri.
Supponiamo ora che in un corpo dotato di un moto di traslazione uniforme (nel senso suddetto) avvenga un fenomeno, sul quale non si esercitino influenze di corpi esterni. L’esperienza ci insegna che le particolarità del fenomeno sono affatto indipendenti dal moto di traslazione del corpo, e non possono darci nessun indizio intorno al moto stesso. Così una esperienza sulla Terra, la cui durata sia abbastanza breve perchè si possa fare astrazione dal moto di rotazione e dalla curvatura dell’orbita descritta dal nostro pianeta, nulla ci dice sulla direzione e velocità del cammino che descriviamo intorno al sole. Ma se il fenomeno considerato sulla Terra dipende dalla presenza di altri corpi, come ad es. la marea dipende dall’attrazione della Luna e del Sole, potremo ricavar dei dati intorno al moto relativo dei tre astri, non già intorno al moto del sistema solare nello spazio.
In breve: nessun fenomeno il quale avvenga tra più corpi, di cui siano conosciuti i moti rispetto ad un sistema naturale di riferimento, permette di decidere se il sistema stesso sia in stato di quiete o di moto.
È questo il principio di relatività, a cui tutti i fatti meccanici soddisfano. Si ha ragione di ritenere che il suo campo di applicazione sia molto più esteso, che si tratti veramente di una legge naturale valida per ogni ordine di fenomeni, come l’enunciato stesso dichiara. Ma poichè le conseguenze di quella legge, in certe regioni della fisica, sembrano in contrasto con i risultati di teorie classiche, la verifica del principio di relatività, convenientemente precisato, non è superflua.
La questione si impone per l’ottica (e per l’elettrodinamica di cui quella è caso particolare). Si tratta di stabilire se un fenomeno ottico, nel quale si tenga conto esclusivamente dei corpi materiali che vi prendono parte e dei mezzi materiali che la luce attraversa, possa dare qualche indizio sul moto di quei corpi o di quei mezzi rispetto ad un particolare sistema, di riferimento (l’etere in quiete assoluta). Solo quando la risposta sia negativa, diremo, con Einstein, che il fenomeno soddisfa al principio di relatività.
I fenomeni ottici entro un sistema in quiete relativa.
Conviene, per maggior chiarezza, esaminare anzitutto il caso che gli strumenti, i mezzi, tra i quali ha luogo il fenomeno, siano in quiete gli uni rispetto agli altri. Supponiamo, per precisar le idee, che la sorgente luminosa, gli specchi, i prismi sui quali la luce si riflette o si rifrange, siano fissati sulla superficie terrestre. Dipenderanno le particolarità del fenomeno dall’angolo che il raggio luminoso forma colla direzione del moto della Terra sulla sua orbita?
Lo spirito geniale di Arago si è proposto la domanda, ed ha tentato di rispondervi coi mezzi di cui la fisica disponeva al principio del secolo scorso. La risposta fu negativa; egli la comunicò al Fresnel, invitandolo a trovarne la spiegazione in base alla teoria ondulatoria che allora, si stava formando. Il Presnel, in una celebre lettera del 1818, osserva che la spiegazione più naturale si otterrebbe supponendo che l’etere fosse trasportato dalla Terra nel suo moto; egli però non vi si ferma, sembrandogli quella ipotesi incompatibile col fenomeno dell’aberrazione astronomica. Accogliendo l’ipotesi opposta il Fresnel è condotto a chiedersi quale legge debba regolare la propagazione luminosa nei mezzi materiali in moto, perchè gli indici di rifrazione dei corpi non si risentano del moto della Terra, come esigono le esperienze di Arago. La ricerca ha condotto a scoprire il coefficiente di trascinamento delle onde nei mezzi materiali, del quale dovremo poi discorrere. Vogliamo per ora restare nel dominio dei fatti. Ci limiteremo dunque a constatare che le esperienze di Arago e dei fisici che con maggiori mezzi sperimentali seguirono lo stesso indirizzo (tra gli altri il Mascart) hanno condotto alla seguente conclusione: le leggi della riflessione, rifrazione, polarizzazione... della luce non si risentono menomamente del moto della Terra.1 L’ottica geometrica, sulla superficie terrestre, soddisfa interamente al principio di relatività.
Rimane però ancora da risolvere una importante questione. La velocità della luce emessa da una sorgente terrestre, e misurata rispetto alla Terra, ha un valore costante (circa 300.000 km. al sec.) in tutte le direzioni, come esige il principio di relatività, e come avverrebbe se l’etere fosse trascinato dalla Terra? Oppure la detta velocità si compone colla velocità (circa 30 km. al sec.) della Terra lungo l’eclittica, e varia quindi tra i due limiti e secondo la direzione del raggio, come porta l’ipotesi dell’etere in quiete assoluta? I risultati sperimentali sopra riferiti nulla dicono in proposito, giacchè essi si accordano sia coll’una, sia coll’altra ipotesi. Occorreva dunque una nuova esperienza.
L’esperienza, mirabile per semplicità di concetto e per accuratezza di tecnica, fu proposta ed eseguita dal Michelson nel 1881, e ripetuta sei anni dopo dallo stesso fisico insieme col Morley. Un raggio orizzontale di luce, incontrando sotto l’angolo di 45° una lastra verticale di vetro, si scinde in due, di cui l’uno corre sul prolungamento del primo, l’altro in direzione perpendicolare; questi due raggi mediante opportune riflessioni vengono ricondotti sui loro cammini e costretti alla fine a sovrapporsi. I fenomeni di interferenza, a cui i due raggi sovrapposti danno luogo, permettono di valutare con somma esattezza la differenza dei tempi impiegati dai due raggi a percorrere le rispettive vie, le quali, nelle parti ove divergono, possono riguardarsi come i due cateti di un triangolo rettangolo isoscele. Il triangolo può esser poi ruotato intorno al suo vertice in guisa da attribuire orientazioni arbitrarie ai suoi cateti, uno dei quali può esser portato a coincidere colla direzione del moto annuo della Terra. L’esperienza fu condotta con tale accuratezza, che essa avrebbe permesso di rivelare se due raggi luminosi propagantisi in direzioni perpendicolari presentassero una differenza di velocità dell’ordine di un diecimillesimo del valore totale (30 km. su 300,000 km.), quale era prevista dalla teoria di Fresnel e dalla prima forma della teoria di Lorentz. Orbene, il risultato fu negativo. Le due velocità risultarono uguali, entro il grado di approssimazione compatibile coi mezzi impiegati.2
È dunque lecito concludere che sulla superfìcie terrestre la propagazione luminosa avviene colla stessa velocità in tutte le direzioni, conformemente alle esigenze del principio di relatività.
Le conclusioni precedenti sono valide, come dicemmo, sulla superficie terrestre, ed anzi per sorgenti luminose immobili rispetto alla terra. Lo spirito filosofico però non si è accontentato eli raccogliere i frutti di queste memorabili esperienze. Con quell’audacia, che può portare all’errore, ma che spesso ha condotto ai maggiori trionfi della scienza, esso ha voluto estendere i risultati all’intero universo, affermando che i fenomeni ottici soddisfano dovunque al principio di relatività. Si ammette, in particolare, che la propagazione luminosa nel vuoto avvenga in tutte le direzioni colla stessa velocità, per un osservatore in quiete rispetto alla sorgente, qualunque sia lo stato di moto uniforme rettilineo di questa.
Solo i progressi delle nostre conoscenze astronomiche potranno dirci se l’audacia sia giustificata, come varie considerazioni sin d’ora indurrebbero a credere.I fenomeni ottici fra corpi in moto.
Nelle esperienze sopra riferite abbiamo supposto che la sorgente luminosa, l’osservatore ed i mezzi materiali che la luce attraversa fossero in quiete relativa. Nuovi problemi si presentano nella ipotesi opposta.
Precisiamo la questione immaginando una esperienza schematica. Un raggio emesso da una sorgente attraversa un tubo vuoto ; due osservatori, situati agli estremi di esso, misurano il tempo impiegato dalla luce a passare da in , e deducono la velocità della luce rispetto ad essi. Come varia questa velocità quando la sorgente ed il tubo si muovono, in modo indipendente, lungo la retta ? L’ottica classica risponderebbe così: la velocità non varia se si muove solo la sorgente, ha un certo valore se gli osservatori e sono immobili rispetto all’etere, ed ha il valore se essi si muovono colla velocità nel senso della propagazione della luce. Orbene questa risposta è formalmente contraddetta dall’esperienza di Michelson e Morley, se si suppone l’etere in quiete assoluta, ed è certo incompatibile colle conclusioni sopra enunciate che da quella esperienza si son volute trarre. Siamo dunque indotti a ritenere che la velocità richiesta non possa dipendere se non dal moto relativo degli osservatori rispetto alla sorgente, d’accordo col principio di relatività. La legge di dipendenza è incognita; le ipotesi più semplici che si possono fare in proposito son queste:
a) o la velocità della luce, entro il tubo , è una costante universale , indipendente dallo stato di quiete o di moto del tubo rispetto alla sorgente (principio di Einstein);
b) o la detta velocità, uguale a se il tubo è in quiete rispetto alla sorgente, assume il valore quando quello si allontana da questa colla velocità (ipotesi balistica).
Secondo la prima ipotesi un osservatore, che misurasse la velocità dei raggi luminosi provenienti da varie sorgenti in varie condizioni di moto, dovrebbe ottener sempre uno stesso valore. In virtù della seconda ipotesi invece il valore dovrebbe esser maggiore o minore, secondo che la sorgente si avvicinasse o si allontanasse dall’osservatore, come succederebbe per un proiettile lanciato da un cannone in moto rispetto al bersaglio.
Tra queste ipotesi solo la esperienza può decidere. Disgraziatamente non par facile dare una risposta sperimentale, finchè si resta sulla superficie terrestre. Si è pensato perciò di ricorrere a sorgenti extraterrestri.
Una via è suggerita dal fenomeno dell’aberrazione della luce. Come è noto, e come poi diremo, la direzione secondo cui una stella vien vista non coincide colla retta congiuugente la stella all’osservatore, ma forma con essa un certo angolo. Il massimo valore di che questo raggiunge nel corso di un anno (costante di aberrazione), permette di valutare la velocità della luce proveniente dalla stella, giacchè il seno di quell’angolo è il rapporto della velocità della terra lungo l’eclittica alla velocità della luce. Se questa dunque potesse dipendere dal movimento proprio dell’astro osservato, si dovrebbero trovare, per la costante di aberrazione, valori diversi in relazione a diverse stelle. Il celebre astronomo W. Struve esaminò a tale scopo una serie di osservazioni fatte a Dorpat tra il 1818 e il 1826 sulla stella polare e sopra un presunto compagno di essa, e credette di riscontrare tra le aberrazioni di questi due astri una differenza da imputarsi alla causa suddetta. Ma l’esame di osservazioni più recenti fatte dal Nyrén nel 1888 ha posto in dubbio la discussione dello Struve. D’altra parte, pur ammettendo l’ipotesi balistica, un astro che si precipitasse verso la Terra colla velocità (già rilevante) di 60 km. al secondo darebbe luogo ad una diminuzione di un cinquemillesimo soltanto nel valore dell’aberrazione; ora quale astronomo può garantire, nella misura di un angolo, l’esattezza di quattro millesimi di secondo?
Un mezzo per risolvere la questione potrebbe esser fornito da uno studio sistematico di quelle stelle doppie, che descrivono orbite in piani passanti presso a poco per il Sole o per la Terra (ciò che equivale data la immensa distanza dell’astro). Nell’orbita di una simile stella si trovano due posizioni, in cui l’astro si avvicina o si allontana dal Sole colla massima velocità. Gli istanti in cui l’astro passa alternativaniente per queste posizioni, possono in prima approssimazione ritenersi equidistanti. Noi però osserviamo, mediante lo spettroscopio, questi istanti ritardati a causa del tempo che la luce impiega a giungere dalla stella sino a noi. Ora nella ipotesi di Einstein il ritardo sarebbe costante, di guisa che l’istante osservato di massimo allontanamento dovrebbe risultare ancora equidistante dagli istanti osservati di massimo avvicinamento che lo precedono e lo seguono. Nell’ipotesi balistica invece il ritardo sarebbe minore o maggiore, secondo che l’astro si avvicinasse o si allontanasse dal Sole, e quindi l’intervallo di tempo trascorso tra la prima e la seconda osservazione dovrebbe superare l’intervallo tra la seconda e la terza. La differenza avrebbe anzi un valore rilevante (di parecchie ore, ed anche di qualche giorno) in conseguenza dell’enorme distanza della stella, come un facile calcolo dimostra. Le conoscenze imperfette che abbiamo intorno ai moti delle stelle doppie non permetterebbero, a dir vero, di eliminare altre eventuali anomalie. Ma se per tutte le stelle doppie nelle condizioni suddette apparisse una causa costante di irregolarità, vi sarebbe una forte presunzione per attribuire quella causa alle variazioni di velocità della luce.
Su questi problemi l’avvenire potrà dare una risposta. Nello stato attuale della scienza nessun fatto autorizza a preferire l’ipotesi balistica all’ipotesi che Einstein trasse dalla teoria elettromagnetica di Lorentz.3 E poichè anzi le conseguenze di questa sembrano conformi all’esperienza, siamo condotti ad adottare il principio della costanza della velocità della luce rispetto ad un qualsiasi sistema naturale di riferimento.
Dobbiamo però metter subito in luce una conseguenza singolare di questo principio. Esso è in pieno contrasto colla legge di composizione dei movimenti enunciata da Galileo e adottata dalla meccanica classica. L’Einstein, adottando il principio della costanza della velocità della luce, fu condotto infatti a costruire una nuova cinematica, nella quale le velocità si compongono secondo una legge diversa e più complicata di quella che ordinariamente si adopera. Ma su ciò dovremo ritornare in seguito.
L’aberrazione della luce.
Questo fenomeno, la cui geniale scoperta è dovuta a Bradley (1728), ha avuto una parte rilevante nella discussione delle varie ipotesi intorno al moto della Terra rispetto all’etere. Però, nell’ordine di idee in cui ci siamo posti, la teoria dell’aberrazione interessa solo per ciò che essa conferma il principio di relatività. Mostreremo anzi come valendosi di questo principio si arrivi alla spiegazione più semplice di quel fenomeno.
Una sorgente di luce (astro) invia un raggio verso l’osservatore (Terra), che per il momento supporremo si muova di traslazione uniforme rispetto ad . Se la propagazione luminosa fosse istantanea, l’astro sarebbe visto da nella direzione reale . Per esaminare come si modifichi il fenomeno nella ipotesi opposta, si può ricorrere indifferentemente ad un sistema di riferimento legato con o con . Atteniamoci alla seconda scelta, riguardiamo cioè come fisso l’osservatore e mobile l’astro . Un raggio luminoso abbandona l’astro nell’istante in cui questo occupa la posizione , e percorrendo la retta raggiunge l’osservatore dopo un certo tempo . Intanto l’astro è passato dalla posizione alla posizione . L’osservatore vede l’astro nella direzione descritta dal raggio; ma la direzione reale dell’astro nell’istante dell’osservazione è . Le due direzioni formano l’angolo di aberrazione. È l’angolo di un triangolo di cui il lato opposto ed il lato adiacente stanno nel rapporto , della velocità di rispetto a (o, ciò che fa lo stesso, della Terra rispetto all’astro) alla velocità della luce.
Se il moto relativo di e fosse traslatorio, il fenomeno di cui parliamo sfuggirebbe all’attenzione degli astronomi, giacchè solo la direzione apparente e non la effettiva vien rivelata dal telescopio. In realtà la Terra descrive un’orbita presso a poco circolare intorno al sole, l’eclittica. Ciò fa sì che l’angolo di aberrazione vari di grandezza e di orientazione nel corso di un anno, come se la posizione apparente dell’astro descrivesse, intorno alla posizione reale, un cerchio in un piano parallelo al piano dell’eclittica, col raggio (cerchio che vien proiettato sulla volta celeste in forma di ellisse). Il massimo valore dell’angolo di aberrazione è, come già dissi, la costante di aberrazione , tale che .
La teoria dell’aberrazione, come sopra fu esposta, rende subito ragione di un noto paradosso. Il Padre Boscovich, appoggiandosi sull’ultima formula, aveva espresso l’idea che, osservando gli astri con un cannocchiale pieno d’acqua, si dovesse trovare per la costante di aberrazione un valore diverso dal precedente, tale che , dove è la velocità della luce nell’acqua. L’esperienza eseguita da Airy a Greenwich smentì la previsione. E così doveva essere, giacchè il raggio conserva la sua direzione rettilinea anche se è costretto ad attraversare un telescopio pieno d’acqua, la cui superficie superiore ed inferiore risulti normale al raggio stesso; la direzione apparente della stella non dipende quindi dal mezzo trasparente contenuto nel telescopio. Nè varia la direzione reale , giacchè il tempo che la luce impiega a percorrere la distanza dalla stella all’osservatore non viene sensibilmente accresciuto per effetto dell’acqua contenuta nel cannocchiale. Ma se a questo si potesse dare una dimensione comparabile colla detta distanza, verrebbe alterato il valore dell’angolo . La previsione di Boscovich sarebbe solo verificata, quando l’obiettivo del telescopio potesse raggiungere l’astro!
II.
Le unità di lunghezza e di tempo nei sistemi in moto.
I fenomeni di cui abbiamo rapidamente discorso danno qualche indizio sulle leggi alle quali obbedisce l’ottica dei corpi in moto. Ma una conoscenza più profonda di queste non può ottenersi che moltiplicando le esperienze ed accrescendone la precisione. D’altra parte, per guidare lo sperimentatore è opportuna la costruzione di una teoria, la quale da alcune ipotesi fondamentali deduca conseguenze atte ad esser confrontate coi fatti.
La teoria a cui si allude è in sostanza dovuta al Lorentz. L’Einstein però la ricostruisce rimanendo nell’ordine dei concetti svolti sinora. La parte elementare (cinematica) di cui solo vogliamo discorrere, si appoggia sopra due principî. L’uno è il principio di relatività, che abbiamo già sufficientemente chiarito. L’altro riguarda la costanza della velocità della luce, ed esige qualche ulteriore avvertenza, giacchè la valutazione di una velocità implica la scelta di una unità di misura per lo spazio e per il tempo.
La scelta, a dir vero, è indifferente finchè ci riferiamo ad un determinato sistema, finchè operiamo ad esempio sulla superficie terrestre. Il postulato di Einstein afferma allora che la velocità di propagazione della luce nel vuoto, riferita a quel sistema, ha un valore costante, indipendente dallo stato di quiete o di moto della sorgente luminosa, e dalla lunghezza d’onda della luce in esame. È questa una ipotesi che l’esperienza potrà confermare o negare. Ma quando siamo costretti a confrontare due diversi sistemi di riferimento, in moto l’uno rispetto all’altro, come potremo paragonare le rispettive unità di misura? Il trasporto delle unità può essere praticamente ineseguibile, o dar luogo ad alterazioni di cui non è nemmeno possibile precisare il significato. Conviene perciò, seguendo una tendenza famigliare ai fisici, ricorrere ad unità naturali, e scegliere ad esempio come unità lineare per ogni sistema la lunghezza d’onda di una determinata radiazione emessa da una sorgente collegata al sistema, e per unità di tempo il periodo corrispondente a quell’onda. La velocità di propagazione è allora uguale ad 1. Il principio di Einstein afferma che la stessa conclusione vale per ogni propagazione luminosa nel vuoto, qualunque sia il sistema di riferimento. Il principio si scinde dunque in due parti: una ipotesi che può esser sottoposta all’esperienza, ed una pura convenzione dipendente dalla scelta delle unità di misura.
Lo spazio e il tempo secondo Minkowski.
Non seguiremo l’Einstein nella costruzione della nuova cinematica. Ma vogliamo dare una idea dei principali risultati, valendoci di una rappresentazione geometrica, che fu posta sotto una nuova luce dallo spirito geniale di Ermanno Minkowski, di cui la scienza piange ancora la perdita immatura.
Il movimento di un punto sopra una retta dà luogo ad un diagramma, di uso frequente, che si ottiene conducendo per le posizioni occupate dal punto negli istanti altrettante perpendicolari alla retta , di lunghezze Gli estremi di quelle perpendicolari formano una linea, la quale rappresenta, per dir così, la storia del punto attraverso ai tempi. Un punto fisso avrà per immagine una retta perpendicolare all’asse ; se in particolare il punto coincide coll’origine , da cui si contano le distanze sull’asse , la retta in questione è l’asse del tempo . Un punto che si muova di moto uniforme è rappresentato da una retta obliqua; e così via.
È chiaro d’altra parte che un simile procedimento può servire a rappresentare il moto di punti od aree appartenenti ad un piano , mediante linee o superficie tubulari dello spazio a tre dimensioni ; e potrebbe estendersi ulteriormente alla descrizione dei movimenti nello spazio ordinario, se si sorvolasse sulla difficoltà di concepire le figure in uno spazio a quattro dimensioni.
A questa rappresentazione il Minkowski attribuisce un senso più profondo, di quel che abbia un semplice diagramma. Egli immagina uno spirito superiore al nostro, il quale concepisca il tempo come una quarta dimensione dello spazio, e possa seguire l’eroe di un noto romanzo di Wells nel suo viaggio meraviglioso attraverso ai secoli. I movimenti, che noi vediamo succedere sopra un piano , appariscono al demone di Miukowski cristallizzati nei rispettivi diagrammi dello spazio . Costui può abbracciare con un solo sguardo la storia dell’universo, mentre noi siamo costretti a costruirla penosamente, salendo passo a passo una scala interminabile i cui gradini rappresentano le ore.
Questo mondo fantastico che il Minkowski evoca al nostro spirito, suggerisce una immagine che è opportuno tener presente. Si concepisca nello spazio di Minkowski un corpo che si estenda all’infinito, per esempio un cilindro permeabile, un cilindro d’ombra, come diremo, prendendo a prestito un termine suggerito dalla cosmografia.4 Il cilindro sia obliquo rispetto al piano orizzontale e vi lasci una traccia d’ombra. Si immagini ora che il detto piano si sposti parallelamente a sè stesso al variare del tempo, e trascini con sè un osservatore, il quale descriva l’asse verticale . Allora l’ombra sezione del cilindro (che è fisso) si sposterà rispetto all’osservatore. Se questi però non ha coscienza del movimento che lo trascina insieme al piano, egli attribuirà la percezione visiva al moto effettivo di un disco sopra un piano orizzontale fisso; a quel moto, precisamente, che ha per immagine il cilindro nella rappresentazione di Minkowski.
Si trovi ancora sul piano un secondo osservatore, il quale al variare del piano descriva, pur senza accorgersi, una nuova retta , parallela questa alle generatrici del cilindro. Esso giudicherà immobile l’ombra e in moto il primo osservatore. I due individui insomma percepiranno in modo diverso gli stessi fenomeni, secondo le leggi ben note dei moti relativi nell’ordinaria meccanica. Il principio di relatività significa dunque, nella rappresentazione di Minkowski, che l’asse del tempo può scegliersi ad arbitrio. In questo ufficio la retta può sostituirsi indifferentemente alla , giacchè di due osservatori è indifferente riguardare in quiete il primo o il secondo.
Qual’è ora la portata del principio di Einstein! Per maggior chiarezza limitiamoci a considerare il moto di un punto sopra una retta , nel qual caso il diagramma è contenuto nel piano . L’osservatore nell’istante lancia un segnale luminoso nei due sensi lungo l’asse . Se le unità di spazio
e di tempo sono scelte in modo che la velocità della luce valga 1, le due propagazioni vengono rappresentate nel diagramma dalle due bisettrici , , dell’angolo . Queste rette rappresentano lo stesso fenomeno anche per un secondo osservatore , che si muova rispetto ad lungo l’asse con una certa velocità , ed abbia come asse del tempo una retta diversa da . Ora se il diagramma che gli corrisponde differisse dal precedente solo per l’asse del tempo, restando invariato l’asse dello spazio , le velocità di propagazione di quei segnali luminosi sarebbero, per il nuovo osservatore, ed , d’accordo colla ordinaria cinematica. Affermare che la velocità della luce vale sempre 1, qualunque sia l’osservatore, equivale ad asserire che il cambiamento nell’asse del tempo porta pure un cambiamento nell’asse dello spazio, in tal guisa che le rette , risultino ancora bisettrici dell’angolo , come erano dell’antico angolo .
Appariscono così in evidenza le due diverse rappresentazioni, secondo Minkowski, del principio di relatività nella cinematica di Newton e in quella di Einstein. Nella prima la direzione dell’asse del tempo può variare ad arbitrio, senza che muti l’asse , o il piano , o lo spazio , ove vediamo succedere i fenomeni. Nella seconda invece l’asse del tempo e lo spazio rivelatoci dai sensi sono legati tra loro; ogni cambiamento nella direzione di quell’asse porta un cambiamento nell’orientazione di questo spazio.5
Il cambiamento a dir vero sarebbe solo percepito dal demone di Minkowski. Ma di qualche differenza nelle particolarità dei fenomeni dovremmo accorgerci noi pure, quando i nostri sensi fossero abbastanza delicati.
La contrazione dei corpi in moto.
Una prima osservazione è questa: uno stesso oggetto si presenta sotto forme diverse, secondo che viene esaminato da un osservatore in quiete, o in moto rispetto ad esso. Ciò trova riscontro nel fatto che una stessa figura dello spazio di Minkowski, ad es. il cilindro d’ombra di cui sopra discorremmo, presenta sezioni diverse secondo la inclinazione dei piani secanti (piani paralleli ad o ad , secondo che si tratta del primo o del secondo osservatore). Così un disco circolare od una sfera immobile rispetto ad un primo individuo, dà ad un secondo spettatore la impressione di un disco ellittico o di un ellissoide in moto. Un esame più minuzioso della figura geometrica (tenuto conto delle varie unità di misura) fornirebbe anche il valore della deformazione. Mentre i segmenti perpendicolari alla direzione del moto conservano inalterati i loro valori, i segmenti paralleli alla traslazione vengono contratti nel rapporto di 1 a , essendo il rapporto tra la velocità del movimento e la velocità della luce. La contrazione è veramente impercettibile per i movimenti che scorgiamo sulla Terra o nel cielo, i quali sono lenti di fronte alle propagazioni luminose. Per esempio una sfera grande presso a poco come la nostra Terra, e animata dalla stessa velocità di traslazione, apparirebbe ad un osservatore situato sul sole come un ellissoide rotondo schiacciato, il cui asse più corto differirebbe dagli altri di soli 6 centimetri.
Ma la contrazione è rilevante per corpi animati da velocità comparabili con quella della luce (come gli elettroni). Ed è tale da impedire che un corpo possa muoversi più rapidamente della luce. Nella cinematica di Einstein vi è dunque un limite che nessuna velocità può superare. O, in forma, più precisa, quella cinematica non si applica a corpi animati da velocità superiori, giacchè per essi le definizioni date di unità di spazio e di tempo diventano illusorie.
La legge della contrazione dei corpi in moto, già enunciata da Fitz Gerald, fu posta in rilievo dal Lorentz, il quale mostrò come essa possa servire a giustificare il risultato dell’esperienza di Michelson e Edward Morley nella ipotesi dell’etere in quiete assoluta. Ma la stessa legge ha un significato ben distinto nelle teorie di Lorentz e di Einstein.
Il primo ammette l’etere in quiete ed immagina le unità di lunghezza e di tempo che spettano ad esso. Con queste unità assolute egli misura le unità relative appartenenti ad un corpo in moto, e trova che il rapporto tra le seconde e le prime unità è . Un segmento mobile ha dunque una lunghezza che dipende dalla velocità; il valore massimo è raggiunto, quando il segmento è in quiete rispetto all’etere.
La interpretazione è ben diversa per Einstein. Egli non ammette la quiete assoluta, e può solo paragonare corpi in quiete o in moto relativo. Si abbiano sopra una retta due segmenti , , di cui il secondo si muova rispetto al primo colla velocità . Un osservatore , in quiete con , misura questo segmento colla propria unità di lunghezza, e trova ad es. il valore 1. Supponiamo che lo stesso valore trovi per un secondo osservatore , in quiete con questo secondo segmento. I due segmenti sono dunque uguali. Ma se l’osservatore tenta, mediante segnalazioni ottiche, di misurare il segmento che egli vede scorrere innanzi a sè, non trova già il valore 1, bensì il valore più piccolo . E lo stesso valore trova , se egli tenta di misurare il segmento .6 La contraddizione tra i due giudizi sta soltanto a significare che i metodi per paragonare le due lunghezze sono fallaci. Le unità di misura appartenenti a due sistemi, in moto l’uno rispetto all’altro, sono in realtà irriducibili tra loro. Mentre la contrazione per Lorentz è un fatto, essa non è che un’apparenza per Einstein.
Il tempo locale ed il concetto di contemporaneità.
Osservazioni analoghe si presentano quando si paragonino le unità di tempo di due sistemi in moto. La questione è anzi la stessa per il demone di Minkowski, ma assume un’apparenza diversa per i nostri spiriti terreni.
È facile concepire come si riesca ad accordare due orologi che siano in quiete tra loro, mediante segnalazioni ottiche scambiate nei due sensi. Nello stesso modo si potranno regolare gli orologi di una rete ferroviaria. Il macchinista di un treno, che percorre la linea, valuta però il tempo secondo un’altra unità di misura, l’unità che spetta al sistema in moto di cui egli fa parte. Ora le due unità sono diverse. Se quindi i vari orologi avessero una sensibilità così squisita da poter valutare i trilionesimi di secondo, dovrebbe accorgersi il macchinista di una discordanza tra la propria ora e quella delle stazioni davanti a cui passa. L’orologio mobile ritarda sugli orologi fissi. Se il tempo che il treno impiega a passare da una stazione all’altra è di un’ora (3600 sec.) quando venga misurato sugli orologi fissi, il tempo stesso, valutato dal macchinista, è dato dal numero più piccolo , dove è il rapporto tra la velocita del treno e la velocità della luce. La differenza tra i due numeri è estremamente piccola per le velocità cui siamo abituati, ed anche per i moti dei corpi celesti. Si pensi che un orologio terrestre ritarderebbe sopra un orologio fissato sul sole di 15 secondi ogni secolo!
La osservazione è tuttavia notevole, specialmente quando si rifletta al significato fisico dell’unità di tempo, che è il periodo di una determinata radiazione. Risulta intatti che l’analisi spettroscopica dovrebbe essere in grado di rivelare non solo i movimenti che hanno luogo nel senso del raggio luminoso, ma anche gli spostamenti normali, purchè abbastanza rapidi. Se la nostra Terra percorresse la sua orbita con una velocità cento volte superiore a quella che ha, o se i nostri strumenti fossero diecimila volte più sensibili, uno spettroscopio puntato sul sole permetterebbe di scoprire questo movimento. Il principio di Doppler assume dunque un carattere più complesso nella cinematica di Einstein che nella trattazione ordinaria.
Ad ogni astro vagante nel cielo spetta un determinato tempo, che l’astro può comunicare ad un corpo in quiete rispetto ad esso, ad ogni punto dell’universo che si consideri trasportato da esso; è il tempo locale di quell’astro. Un osservatorio, situato sulla Terra o sul Sole, potrebbe registrare sopra altrettanti orologi i tempi locali di varie stelle. Questi orologi sarebbero tutti discordi tra loro, e tutti ritarderebbero sull’orologio che segna il tempo locale dell’osservatorio.
Ora quel disaccordo porta una conseguenza paradossale, che viene a turbare profondamente una delle idee più radicate nel nostro spirito: il concetto della contemporaneità dei fenomeni. Supponiamo che una esplosione solare ed una perturbazione magnetica sulla Terra avvengano contemporaneamente; intendiamo dire (tenuto conto del tempo impiegato dalla luce a giungere sino a noi) che l’astronomo avverte il fenomeno solare 500 secondi dopo che l’ago magnetico ha subito un brusco spostamento. Noi siamo portati a ritenere che qualunque spettatore sperduto nell’universo, il quale potesse scorgere i due fenomeni, li giudicherebbe ancora contemporanei, tenendo conto, ben inteso, dei ritardi dovuti alla trasmissione luminosa. Ma le cose non stanno in questi termini secondo Einstein. Due orologi, uno sulla Terra, l’altro sul Sole, regolati sul tempo locale di quello spettatore, che si suppone in moto rispetto al sistema solare, non segnerebbero lo stesso istante mentre i due fenomeni avvengono. Se lo spettatore viaggiasse dal Sole alla Terra colla velocità di 600 km. al secondo, egli concluderebbe che l’esplosione solare ha seguito di un secondo la perturbazione magnetica; alla conclusione opposta egli arriverebbe se la direzione del suo moto si invertisse.
Insomma fenomeni contemporanei per un osservatore non sono più tali per un secondo spettatore che sia in moto rispetto al primo; la contemporaneità ha carattere relativo, come i valori delle lunghezze e dei tempi.7
Le cronologie dell’universo raccolte dagli abitanti di due astri vaganti nel cielo presenterebbero non lievi discordanze.
La legge di composizione delle velocità ed il coefficiente di trascinamento di Fresnel
Fu già notato che la cinematica di Einstein è incompatibile colla legge di composizione delle velocità della meccanica classica. Se sopra una retta scorre una sbarra allontanandosi con velocità dal punto , e nello stesso senso si muove sopra la sbarra un punto animato dalla velocità rispetto ad , quel punto, secondo Galileo e secondo l’intuizione ordinaria, si allontana da colla velocità . Per Einstein la velocità del punto ha invece l’espressione più complicata , se come velocità unitaria si assume quella della luce.8
Per i moti che avvengono sulla Terra le due formole conducono allo stesso risultato; per i moti dei corpi celesti (qualche decina di km. al secondo) i risultati differiscono tutto al più di pochi millimetri al secondo. Ma la discordanza delle due formole appare, quando una delle velocità si accosti a quella della luce. Già risulta subito che la velocità della luce nel vuoto, composta con qualsiasi altra velocità, dà per risultante la stessa velocità della luce, d’accordo col principio di Einstein.
Un’applicazione molto notevole deila nuova formola di composizione dei moti fu fatta da Lane per giustificare la legge di propagazione della luce in un liquido (o in un mezzo trasparente) in moto. La velocità della luce in un liquido in quiete è uguale a , dove è la velocità nel vuoto o nell’aria, ed è l’indice di rifrazione di quel liquido ( per l’acqua). Come si modifica il risultato, se il liquido si muove con velocità nota nella direzione in cui la luce si propaga?
Fresnel previde la risposta seguendo una via teorica molto ingegnosa. Per spiegare come le esperienze già citate di Arago non permettano di rivelare il moto della terra, è necessario supporre che la velocità della luce nel liquido in quiete, si accresca, quando il liquido è posto in moto, non di tutta la velocità , ma soltanto della frazione , di guisa che la luce si propaghi entro il liquido colla velocità complessiva .
Le esperienze fatte da Fizeau e ripetute in epoca più recente da Michelson e Morley confermarono l’esattezza della previsione di Fresnel. Dallo stesso Fresnel e dai maggiori cultori dell’ottica teorica si cercò di giustificare, in base alle varie ipotesi sulla natura della luce, la formola precedente. Ma la spiegazione più semplice risulta dalla teoria di Einstein. La velocità della luce si compone effettivamente colla velocità del mezzo , ma la composizione avviene secondo la formola della nuova cinematica, la quale, dato il valore rilevante di , si discosta notevolmente dalla formola classica, e porta al risultato sopra riferito. Il trascinamento delle onde luminose nel liquido in moto, che sembra parziale quando ci si attenga alla cinematica di Galileo, è, in realtà, totale per Einstein.
La deduzione così semplice (di cui ho qui riprodotto solo le linee generali) della legge sperimentale di propagazione della luce in un corpo in moto, partendo dalla ipotesi della costanza della velocità della luce nel vuoto, costituisce certo una brillante conferma della teoria di Einstein. È da augurarsi che al controllo dell’esperienza possa sottoporsi qualche altra conseguenza immediata dei due principi che di quella teoria formano la base. I tentativi fatti, con mirabile abilità sperimentale, dal Kaufmann e da altri per verificare conseguenze più remote della teoria, lasciano qualche dubbio sulla interpretazione che ne fu tratta; giacchè la conferma o la negazione di risultati teorici complessi investe non solo i due principî di cui più volte abbiamo parlato, ma tutte le altre ipotesi più o meno esplicite che a quelli occorre aggiungere per ottenere i detti risultati.
Riassunto
Perchè il lettore possa orientarsi in questo scritto, dove il desiderio di chiarezza ha costretto talora a fermarsi sui particolari, è opportuno che io riassuma i punti capitali.
1. Il principio di relatività nella sua forma vaga non è smentito da nessun fatto e corrisponde ad un bisogno del nostro spirito. Si tratta d’altra parte di una di quelle verità elastiche, suscettibili di assumere diversi aspetti secondo il modo con cui si cerca di precisarle, e destinate perciò a sopravvivere ai cataclismi che di tratto in tratto colpiscono le teorie scientifiche più concrete.
2. Nello studio dei fenomeni ottici, il detto principio fu precisato da Einstein coll’ipotesi ulteriore che i fenomeni stessi vi soddisfino quando si tenga conto solo dei corpi materiali partecipanti all’esperienza, prescindendo dall’etere riguardato come una rappresentazione priva di realtà.
3. Intorno alla velocità di propagazione della luce nel vuoto si possono presentare svariate ipotesi accordantisi col principio di relatività. Le più plausibili sono: la ipotesi balistica, secondo la quale la velocità della luce si compone (nel senso di Galileo) colla velocità della sorgente e dell’osservatore; la ipotesi di Einstein, secondo la quale la velocità della luce è una costante universale, qualunque sia il moto della sorgente o dell’osservatore. La prima ipotesi è conforme alla cinematica classica, ma non sembra confermata dai fatti; la seconda è incompatibile colla detta cinematica, ma le conseguenze a cui dà luogo sembrano accordarsi coll’esperienza.
4. La ipotesi di Einstein costringe a modificare profondamente le nostre idee sulle lunghezze, sui tempi, sulla contemporaneità, ed a costruire una cinematica più complessa dell’ordinaria; quest’ultima varrebbe solo in prima approssimazione per velocità piccole di fronte a quella della luce.
Le complicazioni portate dalle vedute di Einstein negli stessi concetti più elementari, sembrano così gravi a varî fisici illustri, da renderli diffidenti verso la nuova teoria. E la diffidenza può esser provvidenziale, giacchè il progresso della scienza impone che nessuna complicazione si accetti, finchè essa non sia dimostrata, necessaria, o per lo meno atta a fornire una visione sintetica di più larghi orizzonti.
D’altra parte è lecito chiederci se la posizione agnostica di fronte all’etere, con cui Einstein precisa il principio di relatività, soddisfi la nostra intuizione fisica.
Certamente la ipotesi che le proprietà di configurazione, i caratteri e le costanti fisiche dell’etere siano rigorosamente le stesse in tutto l’universo, conduce a ritrovare lo spazio assoluto, da cui tentiamo di liberarci. Ma di fronte a quella ipotesi di omogeneità assoluta, che ha un carattere puramente matematico, la fisica ci suggerisce una concezione di regolarità statistica, analoga a quella che la teoria cinetica ammette nei gas. Non potrebbero i caratteri dell’etere variare, sia pure in limiti ristretti, al mutare del tempo e della posizione nello spazio? Le leggi di una propagazione vibratoria in un siffatto mezzo avrebbero naturalmente un valore di media, e potrebbero dar luogo a scarti, i cui valori assoluti crescerebbero coll’estendersi del campo di osservazione.
Un’ottica fondata sopra ipotesi di questo tipo soddisferebbe ancora ad un principio di relatività, non già nel senso di Einstein, bensì analogo a quello che regge i fenomeni acustici nella nostra atmosfera. La relatività sarebbe anzi più completa, giacchè la stessa costante universale (velocità della luce) che nella teoria di Einstein sopravviveva al naufragio dell’assoluto, verrebbe qui sostituita da un valore di media. L’ottica classica si otterrebbe mediante un passaggio al limite, estendendo all’intero universo l’omogeneità supposta del mezzo in uno spazio infinitesimo. Ma precisamente questo passaggio al limite farebbe risorgere l’assoluto, che più o memo esplicitamente accompagna ogni ipotesi di omogeneità.
Si potrà costruire una soddisfacente teoria statistica dell’ottica e dell’elettromagnetismo? È questa una domanda che aspetterà per molto tempo la risposta, ma che è suggerita dall’evoluzione del pensiero scientifico. Il dominio delle grandi e semplici leggi naturali attribuenti ad un’unica causa molteplici conseguenze è meno esteso di quel che pareva un secolo fa. Il nostro interesse viene ora attratto verso la valutazione degli effetti risultanti dal concorso di innumerevoli e minuscole cause. I metodi di ricerca delle scienze fisiche e delle scienze sociali tendono ogni giorno più ad accostarsi fra loro.
- Roma, Università.
G. Castelnuovo
Note
- ↑ Una sola esperienza, eseguita da Fizeau, sul piano di polarizzazione di un raggio di luce costretto ad attraversare una serie di lastre di vetro apparve in contrasto coll’affermazione precedente. Ma il risultato è sembrato dubbioso allo stesso Fizeau, e a Maxwell e Rayleigh che hanno discusso l’esperienza, la quale sinora non fu più ripetuta.
- ↑ Tenendo conto del doppio cammino dei raggi luminosi lungo i due cateti, si vede che, nell’ipotesi di Fresnel-Lorentz, la differenza dei tempi fornita dall’esperienza doveva avere, rispetto a ciascuno di questi tempi, un valore del secondo ordine, cioè comparabile col quadrato del rapporto . Precisamente, attribuendo ai cateti la lunghezza di 11 m., si sarebbe dovuto riscontrare una differenza, di circa secondi. La possibilità di misurare un intervallo così estremamente piccolo può dare una idea del grado di perfezione a cui l’ottica è arrivata!
- ↑ Durante la pubblicazione di questo scritto, ho letto nella «Physical Review» due articoli che riguardano la questione qui trattata. Nel primo (N.º del febbraio 1910) è brevemente riferita una comunicazione fatta dal sig. Comstock alla riunione tenuta dalla Società fisica americana a Princeton nell’ottobre 1909. Il Comstock propone il metodo delle stelle doppie, che ho suggerito io stesso qui sopra, ed aggiunge che le ricerche da lui fatte sinora per questa via sembrano non accordarsi coll’ipotesi balistica. Nel secondo articolo (N.º del luglio 1910) il sig. Tolman espone una semplice osservazione atta a discriminare le due ipotesi. Egli, dopo aver rilevato che l’effetto Doppler presenta nelle due teorie particolarità differenti, deduce dall’esame spettroscopico dei moti celesti e terrestri che solo la ipotesi di Einstein è accettabile.
- ↑ Nella fig. di pag. 77 si supponga verticale il foglio di carta , perpendicolare a questo in l’asse (non segnato) e quindi orizzontale il piano ; si supponga poi che il cilindro seghi il piano lungo le rette , .
- ↑ Il legame tra gli assi , , , e i nuovi assi , , , è tale, che le formole di passaggio mutino la espressione nella analoga . Da questa condizione si può dedurre come varino, al mutare degli assi, le unità di misura delle lunghezze e dei tempi. Ad es. sulla figura della pag. 77, le unità di misura uscenti da nelle varie direzioni avrebbero l’altro estremo sopra l’una o l’altra delle iperboli .
- ↑ La fig. di pag. 77 va interpretata così. Quando l’orologio di segna , egli vede il primo segmento nella posizione , ed il secondo nella posizione , e trova, per questo il valore . Quando invece l’orologo di segna , il secondo osservatore vede il primo segmento nella posizione . il secondo in e trova per quello il valore .
Ora, data la scelta delle unità di lunghezza sugli assi , , risulta , dove . - ↑ Queste ed altre simili conseguenze risultano dalla interpretazione del diagramma di Minkowski. Per un primo osservatore, il cui sistema di riferimento sia (v. fig. di pag. 77), fenomeni che accadono contemporaneamente sono rappresentati da punti di una retta parallela ad . Per un secondo osservatore (in moto rispetto al primo), al quale appartengano gli assi fenomeni contemporanei hanno come immagini punti di una retta parallela ad Il fatto geometrico che ed hanno direzioni diverse si traduce nel fatto fisico sopra ricordato.
- ↑ Se si prende per unità la velocità di 1 centimetro al secondo, la espressione precedente diviene , dove vale 30 bilioni.