Saggi critici/«Alla sua donna». Poesia di Giacomo Leopardi
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«ALLA SUA DONNA»
Poesia di Giacomo Leopardi
La poesia italiana in Dante si alzò alla essenza stessa delle cose, non essendo il suo universo che la teologia e la scienza incorporate e visibili, il pensiero fatto arte. A poco a poco la poesia si andò sempre piú scostando da quest’altezza, e l’unitá dantesca si dissolvea in due estremi indirizzi. Alcuni toglievano dallo universo il pensiero, e, cosí astratto, lo mettevano in versi; al qual genere appartengono tutte le poesie scritte sopra temi generali, sull’amore, sulla gelosia, ecc., come sono le tre sorelle del Pigna; o, quelle nelle quali il pensiero si manifesta crudo e grezzo, com’è nelle tragedie del Gravina. E cito il Gravina ed il Pigna, perché in questi due scrittori, destituiti d’ogni virtú poetica, questa tendenza si mostra chiaramente, e non piú o meno dissimulata, come ne’ sommi, per esempio, nelle Sette giornate del Tasso, ammiratore e lodatore del Pigna. Ma in generale i poeti attenendosi al nudo fatto, si gittarono in mezzo agl’interessi e alle passioni e a’ casi particolari, amori, battaglie, patria, ecc., e, perdendo sempre piú di vista l’infinito, centro del mondo dantesco, si discese fino alle poesie dette di occasione, fino alle frivolezze arcadiche. Uno de’ caratteri piú distintivi dell’arte odierna è il ritorno alla grande poesia, la ricostruzione dell’universo dantesco su di altre fondamenta: del qual genere è il Faust ed il Manfredi, moltissime poesie liriche tedesche, e parecchie del Lamartine e dell’Hugo. Ristauratore appo noi della grande poesia è Giacomo Leopardi, la cui lirica nel suo insieme costituisce una rappresentazione compiuta dello universo guardato dalla stessa altezza di Dante. Con questa differenza però: che Dante, dommatico e dottrinale, avea le debite fondamenta a costruire una «epopea», dove il Leopardi in tanta rovina di principii, con tanto scetticismo nella mente e con tanta fede nel cuore, non potea e non dovea darci che una «lirica» espressione dell’interna discordia, lamento della morte del mondo poetico, anzi della stessa poesia.
Non ho giá in animo di fare un lavoro sulla lirica del Leopardi: ché richiederebbe lunga fatica, forti studi ed omeri da ciò. Vo’ solo, come saggio, dire alcuna cosa della sua breve poesia Alla sua Donna.
Qualitá principale della poesia leopardiana è il significato generale ch’egli ha dato a’ suoi sentimenti. Il Betteloni, artefice non volgare di verso, ci ha dato alcune sue ultime poesie, nelle quali non ha saputo uscire dai suoi dolori, ed è rimaso una perduta eco malinconica in mezzo al frastuono sociale, lamento solitario di un’anima inferma in mezzo alla crudele indifferenza degli uomini. Ma nel Leopardi il dolore operò come le passioni in Dante: i quali non rimpicciolirono il mondo nel cerchio angusto de’ privati sentimenti, anzi seppero sprigionarsene e contemplarli artisticamente. Cosi, alzando a significazione generale i loro affetti, poterono amendue fondere in una sola personalitá ciò che la loro anima avea di piú proprio ed intimo e ciò che il concetto ha di piú estrinseco ed astratto: nella qual medesimezza è il miracolo dell’arte, ciò che dicesi creazione. Vediamolo in questa poesia.
Gli antichi sentivano che nel petto dell’artista si agita un non so che di divino; e, dando estrinsechezza a questa ignota possanza, generatrice dell’estro o del furore poetico, immaginarono la Musa e il dio dei carmi, Apollo. Era una spiegazione religiosa del fatto poetico, insufficiente ancora la scienza. La mitologia si è dileguata innanzi al pensiero adulto, ed oggi alla Musa è succeduto l’ideale, immagine tipica della bellezza, che si risveglia nella esagitata fantasia dell’artista allo spettacolo della creazione; o, per parlare con piú proprietá, l’ideale è lo stesso reale, la stessa creazione spogliata di ogni sua parte terrea, e fatta un velo trasparente dell’anima o della sua idea informativa. Una volta l’artista ubbidiva a questa «certa idea» senza averne piú che un sentore confuso; oggi affisa in lei lo sguardo, la considera in sé stessa e ne fa obbietto di meditazione; prima era acceso da entusiasmo, da’ sacri estri, e vagheggiava la bellezza; oggi fa poesie sulla bellezza, l’amore, l’entusiasmo, il genio, la fantasia, ecc. È il poeta che ripiega lo sguardo in sé stesso e si analizza e si piega, fattosi critico e filosofo.
È inutile mover lamenti sullo stato dell’arte e voler questo o quello; la scienza si è infiltrata nella poesia, né la si può discacciare, perché ciò risponde alle presenti condizioni dello spirito umano. Noi non possiamo volger lo sguardo a nessuna cosa si bella, che tosto fra la nostra ammirazione non s’introduca di soppiatto un: — È ragionevole? — , ed eccoci a vele gonfie in mezzo alla critica ed alla scienza. Vogliamo non solo godere, ma esser conscii del nostro godimento; non solo sentire, ma intendere. La schietta poesia è oggi tanto impossibile quanto la schietta fede; che, come non possiamo parlare di religione, senza sentirci assediati da un molestissimo:— E se non fosse vero?— , cosí non sentiamo senza filosofare su’ nostri sentimenti, non vediamo senza spiegare la nostra visione. Tale è il fatto: che giova ricalcitrare? Quelli che l’hanno con Goethe, Schiller, Byron, Leopardi, perché fanno, com’essi dicono, della «metafisica in versi», mi hanno l’aria di quei preti, che s’incolleriscono contro la filosofia o la ragione, e ripetono a coro: — Fede, fede. — Ohimè! la fede se ne è ita; la poesia è morta. O per dir meglio, la fede e la poesia sono immortali: ciò che è ito via è una particolare loro maniera di essere. La fede oggi spunta dalla convinzione, la poesia scintilla dalla meditazione: non sono morte, sono trasformate. La fede non può piú rigettare l’elemento razionale: dee appropriarselo e sottoporselo; dee essere non piú il «cieco» fato pagano, ma la provvidenza «intelligente» dei cristiani. La poesia, poiché ella non può fare che il pensiero non le si affacci dinanzi, dee lavorarlo, trasfigurarlo, incorporarselo. La sola quistione seria che dunque rimane in estetica è di determinare fino a quale punto sia ciò riuscito a’ sommi: poiché ai mediocri è questo uno scoglio insormontabile.
Finché vi è una mitologia, il pensiero è persona viva; per esempio l’ideale è la musa. Si è creduto di poter supplire alla mitologia con l’allegoria, alla persona con la personificazione. E se questo nell’infanzia dell’arte non è senza attrattivo, per quella ingenuitá amabile, per quello strano miscuglio di reale e fantastico, di antico e moderno, di pagano e cristiano che trovi, per esempio, nelle allegorie del medio evo; nelle imitazioni moderne riesce freddo ed insipido, come nella Enriade del Voltaire. Perocché quelle vuote personificazioni della discordia, della pazzia, della virtú, ecc., che stanno in troppo crudo contrasto con la severa logica e la prosaica precisione di un pensiero adulto e scredente, non sono altro nel fondo che mezzi rettorici, espedienti artificiali per simulare le apparenze di un mondo poetico scomparso.
Né mi pare che a vincere la difficoltá basti ornare il pensiero d’immagini, di metafore, di paragoni: sempre ci rimane al disotto qualche cosa di prosaico che resiste, il pensiero come pensiero: voi l’avete ornato, non l’avete trasformato. Certo è difficile trovare un poeta, che piú di Dante abbia saputo abbellire il pensiero; novitá d’immagini e di paragoni, vivacitá di metafore, audacia di traslati, tutto ha messo in opera: diresti ch’egli pensi con l’immaginazione. E nondimeno perché sotto a tanto splendore di stile resta pur sempre nella sua integritá l’elemento scientifico, voi non potete senza deliberato proposito rassegnarvi a leggere i suoi ragionamenti in versi.
Che si ha dunque a fare? La mitologia è morta; e voi, se vi ci ostinate, non riuscirete a darle che una vita fattizia; se volete parlarmi dell’ideale, che cosa sostituirete alla musa? E se voi lasciate per disperato l’ideale nella sua natura scientifica, per voi non è piú una dea, una creatura, ma un pensiero; invano mi adopererete i piú splendidi colori: la vostra poesia rimarrá una prosa in veste poetica.
I poeti moderni si sono posti nel vero. Venuto meno il mondo delle immagini, rimane il sentimento: onde quella tendenza spirituale insieme e sentimentale che qualifica l’arte moderna. E dico tendenza, perché non voglio portare quest’opinione fino alla pedanteria, affermando ciò in modo assoluto, senza tener conto di tutte le varietá e gradazioni: che è il difetto di Schlegel. L’ideale non è piú la musa; non piú una dea, non una persona: che cosa è? Una forma incerta che fluttua nella fantasia; che, comparsa appena, si dilegua, ma lasciando orme profonde nel vostro cuore; una voce armoniosa che non giunge piú all’orecchio, ma che suona ancora nell’anima. Ne addurrò ad esempio gli Ideali di Schiller. Egli lamenta la sua giovinezza spenta, l’ideale fuggitogli per sempre dinanzi, e con esso tante nobili fantasie, tanti dolori, tante gioie, tutto l’universo. Nonpertanto egli è ancora capace di conforto; il suo cuore è aperto alle care gioie dell’amicizia ed un avvenire gli trema ancora dinanzi. Quindi egli può essere eloquente nel suo dolore e rifare la sua giovinezza, il suo ideale, come rimembranze. La sua fantasia si caccia indietro nel passato, lo fa rivivere nella memoria e lo ha innanzi come cosa presente. Ed ecco l’ideale scomparso ricomparire, piú caro ancora, perché accompagnato col sentimento di averlo perduto: è la voluttá del passato confusa con la malinconia del presente. Il Leopardi nel suo Risorgimento canta:
Meco ritorna a vivere La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar. |
Questo momento labile di gioia, cosí raro per l’infortunato recanatese, che egli canta con una dolcezza metastasiana, è tutto un passato delizioso per Schiller, che ha ancora la forza di evocarlo e rappresentarselo innanzi alla fantasia. «Come una volta Pigmalione con supplichevole desiderio abbracciava la pietra, infino a che nelle fredde guance del marmo fiammeggiò il sentimento; cosí con giovanile ardore io stringeva la natura tra le amorose braccia, insino a che ella cominciò a respirare, a incalorire sul mio trepido petto, e, accesa della stessa mia fiamma, la Mutola ebbe la parola, mi rese il bacio dell’amore, ed intese il palpito del mio cuore: ecco vivermi intorno l’albero, la rosa, e cantare la cascata dell’onda argentina; anche l’inanimato acquistava senso, quasi eco della mia vita»1. E segue descrivendo in magnifici versi una vita poetica, di cui rimpiange la perdita: «Spenti sono i chiari soli, che illuminavano il sentiero della mia giovinezza, vanirono gl’ideali che un di m’inebbriavano il cuore, mancata è la dolce fede negli esseri generati dalla mia visione, fatto rozza realtá ciò ch’era si bello, tanto divino»2.
Questa poesia è dunque un lamento della morte delle immagini di cui non rimane che la mesta ricordanza. Ma se la visione è svanita, sopravvive il sentimento che essa ha prodotto:
. . . . . ed ancor mi distilla Nel cor lo dolce che nacque da essa. |
Di eternitá sul mare Si affrettan giá le tue onde spietate, Tempo dorato di mia scorsa etate! |
È noto che questo sentimento è l’anima della poesia leopardiana. Al grande Italiano non resta della poesia, che solo la «rimembranza acerba» e la piange morta nella sua vita, morta nel mondo. Tutto ciò che fa palpitare il cuore umano è per lui illusione, inganno «aperto e noto», menzogna della natura; e nondimeno egli corre appresso a quest’inganni e li cerca e se ne consola: la poesia morta nella sua mente vive ancora nel suo cuore: diresti che la sua anima sia partita in due, scissione profonda la cui espressione è il dolore. L’ideale brilla innanzi alla sua fantasia e commove il suo cuore; ma non si tosto vi si abbandona e vi si oblia, che la voce della ragione o del vero lo trae dalla sua estasi e gli risponde: — Quello che vagheggia la tua fantasia è una larva; quello che commove il tuo cuore è una illusione. — Nondimeno il Leopardi rimane sempre poeta; il credente in lui vince lo scettico; la poesia, scacciata dalla scienza, trova un asilo nel suo cuore. Né mai l’immagine muore: si dilegua innanzi al vero e risorge piú bella di sotto alla morte, risorge per morire un’altra volta, vicenda perpetua di creazione e distruzione; il mistero della poesia leopardiana è il mistero della natura:
Che per uccider partorisce e nutre. |
L’immagine ed il pensiero, elementi di ogni poesia, sono qui dunque scissi, distruggentisi a vicenda, in contraddizione, e forse non ci è alcuna poesia moderna nella quale si rilevi con coscienza tanto profonda questa sociale infermitá che travaglia le presenti generazioni. Nella poesia leopardiana non solo vi è la contraddizione, ma l’angoscioso sentimento di essa contraddizione.
Questo concetto che il Leopardi avea dell’universo, i diversi aspetti sotto i quali si mostra questa lotta, il prevalere ora dell’immagine, ora del pensiero, e le diverse gradazioni del sentimento determinano il significato, il valore, la varietá della sua lirica.
L’immagine talora egli te la colloca nel passato e vi gitta su il malinconico sguardo del disinganno, come nella Silvia o nell’Aspasia; talora la fa germinare e fiorire nel seno stesso della morte, come nel suo capolavoro, il Consalvo; alcuna volta è una fuggevole apparizione, da cui il poeta si gitta nel campo della riflessione, come nella Ginestra. Ma quali si sieno queste gradazioni, certo è che l’immagine non solo non è sbandita dalla poesia leopardiana, ma n’è la condizione, parte integrale del tutto: toglietela e la sua poesia non avrá piú significato. L’immagine ci sta, e ci sta nel senso moderno; il poeta te la sa cogliere nel seno stesso della realtá. Cosi, che cosa è l’ideale per lui? Schiller ha distrutto la sua personalitá, la sua unitá; il suo ideale non è piú una creatura, ma i tipi, gli esemplari poetici; è il grave linguaggio del vero succeduto alle antiche fantasie; le forze naturali succedute alle pagane divinitá; il sole di Galileo che ha spodestato Apollo. Il Leopardi te lo rifá persona, il suo ideale è una donna: ricomparisce l’antica poesia su tutta la sua possanza, ma fatta moderna. In effetti questa donna non è giá la musa, e neppure una personificazione artificiale. È una creatura, che tutti conoscono, che tutti hanno avuto talora avanti alla fantasia, che spesso ci fa battere il cuore. Non è uomo che, massime nella sua giovinezza, non si sia veduto comparire in certi momenti ineffabili di estasi una donna fantastica, ornata di tutta la bellezza a cui la sua immaginazione abbia saputo alzarsi. E l’ha vagheggiata lungamente, accarezzata ne’ suoi sogni, desiderata: e poi quanto piú invocata, tanto piú ritrosa, infino a che, succedendo la prosa della vita, a poco a poco si dilegua, lamentata con desiderio da pochi, dimenticata da’ piú. Ecco la donna del Leopardi; ecco il suo ideale vivente in mezzo alla realta, una poesia dell’anima che è ad un tempo storia.
Ma come comparisce l’immagine, ed ecco scoppia la contraddizione. Non è un’anima tutta poetica, che si abbandona alla contemplazione e s’inebria di voluttá; è il poeta moderno, il moderno Amleto in cui il pensiero agghiaccia ogni bellezza, avvelena ogni godimento. Giá ne’ suoi primi anni, come l’umanitá ne’ suoi primi tempi, egli credette a questa donna, e sperò di mirarla viva in terra; ora il senso del reale ha occupato «il suo animo, e, dopo lunga esperienza e spessi disinganni, l’arido vero ha spento in lui ogni fede. La fantasia ha creata questa donna; il pensiero l’ha distrutta.
Qual è il sentimento che nasce da questa contraddizione, da questa discordia dell’ideale e del reale? Finché il Leopardi rimane poeta, può ritirare lo sguardo dalla ruvida realtá e riposarlo nella dorata regione dei sogni. Ben la voce sconsolata del vero gli ripete: — Cotesti sono sogni; — pure ne riceve conforto,
. . . . ché dell’imago, Poi che del ver m’è tolto, assai mi appago. |
Conservare ancora tanta virtú di fantasia ch’ei possa formarsi un mondo di vaghe immagini, ancorché sappia che la natura discordi da esse3; conservare ancora un cuore che viva, ancorché sappia che tutto ciò per cui ci commoviamo è vanitá ed ombra; potere insomma conservare il caro dono della poesia in tanta sua miseria: questo egli chiama il suo «risorgimento», la sua felicitá:
Mancano, il sento, all’anima Alta, gentile e pura, Il fato e la natura, Il mondo e la beltá. Ma se tu vivi, o misero, Se non concedi al fato, Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dá. |
Rari intervalli! Il piú spesso quelle immagini vaniscono innanzi alla «vista impura dell’infausta veritá» ed il poeta rimane solo e desolato «col suo pensiero», col suo scetticismo. Questo sentimento di sconforto, che domina nelle sue poesie, si manifesta in diverse forme; ora vivace dolore, ora dolce mestizia, ora ultima disperazione, ora ironica calma. Per ben giudicare di una poesia del Leopardi è necessario avere non solo il concetto generale della sua lirica, ma la situazione speciale nella quale questo concetto s’incarna, questa unitá si differenzia, questo ideale si realizza.
Il suo ideale è una donna. La vede egli? La vagheggia? Se cosí fosse, avremmo la stessa situazione del Risorgimento. Questa donna non è reale, è vero; ma che importa? egli può figurarsela alla fantasia, può vivere di poesia ed è contento. Ma no: è giá tempo ch’ella gli nasconde il suo viso, apparendogli solo alcuna volta nel sonno o nel riso de’ campi, immagine fuggevole. È in lui morta ogni speranza non pur di vederla viva, ma di contemplarla in ispirito; gli viene meno la realtá e la poesia. A Schiller rimane pure alcuna consolazione; il dolore del Leopardi è senza conforto. Pure, finché il dolore può sgorgare con impeto dall.’animo infiammato, questa virtú del pianto e delle querele rivela un cuore ancor vivo.
Pur di quel pianto origine Era l’antico affetto; Nell’intimo del petto Ancor viveva il cor. |
Ma qui il sentimento del poeta è un dolore stanco, ineloquente.
E di piú far lamento Valor non mi restò. |
Adunque in questa poesia non può prevalere né la rappresentazione, né il sentimento. Da una parte il poeta non ha piú innanzi l’immagine della donna; non può rappresentarla; rimane per lui un fantasma confuso, che non può a sua voglia rivocare alla mente. D’altra parte non gli resta pur valore di querelarsene; contempla il suo fato senza sdegno, senza pianto. Ha veduto, ha pianto; non vede piú, non piange piú. L’immagine e il sentimento traspariscono in questa canzone come un passato scomparso per sempre. Schiller può almeno ricordarlo, dipingerlo, lamentarlo; nella sua bella poesia l’immagine fuggita ritorna alla sua memoria; il sentimento prorompe al di fuori Uberamente.
Non rappresentazione, non sentimento: nel suo animo vacuo è una calma, che non è serenitá, ma stanchezza. Nell’umanitá, come in ciascun uomo, quando tacciono le immagini e le passioni, sottentra la riflessione. Nel Leopardi il pensiero avvelena tutte le gioie della vita, e ci sono momenti ne’ quah occupa esso solo l’animo, spogliato l’universo di ogni bellezza, di ogni affetto: vedetelo nelle sue prose, aride come l’ignudo vero che ivi regna solo.
Non vede l’immagine, non ha piú virtú di dolersene. Egli adunque è in tale stato dell’animo, che può filosofare sulla sua donna, farne obbietto di meditazione. — Che cosa è ella? dov’è? la vedrò mai? — Rassomiglia colui che, raccolto in sé dopo le tempeste della vita, considera con inquieta curiositá quel mondo che gli è stato cagione di tanti dolori, di tante gioie, contemplatore pacato di ciò che lo turbava innanzi, eppure scontento della presente tranquillitá, desideroso senza speranza di quelle agitazioni. L’autore adunque in luogo di rappresentarsi alla fantasia la sparita immagine, medita sulla sua natura; e nondimeno la situazione non diviene prosaica: egli rimane poeta. Lá dove si stende la scienza, se ne ritira la poesia: il vero tarpa le ali all’immaginazione. Ma l’universo del Leopardi è un mistero doloroso, ed il suo ideale, la sua donna è fuori de’ termini della scienza nel cielo dei poeti, anch’essa un mistero, a cui non basta l’intelligenza; e dove l’intelligenza è muta, spazia la fantasia. Il Leopardi rassomiglia a’ filosofi primitivi, che contemplano l’enigma della vita con anima di poeta, chiamando spiegazione filosofica quello che è ipotesi poetica: ciò che allora dicesi scienza, è religione e poesia. Il mondo dogmatico dissoluto dallo scetticismo, la vita ritorna un enigma: non ci è piú scienziato e ignorante, il più dotto filosofo ne sa quanto il pastore errante di Arabia; la scienza ridiventa poesia; il mondo ricade in balia dell’immaginazione maravigliata, curiosa. Il Leopardi innanzi al mistero impenetrabile alla sua ragione si abbandona a tutte le ipotesi, a tutti i sogni della fantasia, e cerca la sua donna nell’etá dell’oro, o nell’etá avvenire, e tra le idee di Platone e ne’ mondi celesti. Questa sola differenza è fra il contemplatore moderno e gli antichi: che quelli immaginavano un mondo invisibile per ispiegare il visibile e se ne appagava la loro ragione ancora fanciulla; costui erra negli spazi infiniti della fantasia senza trovar mai riposo, senza risolvere l’enigma; egli sogna e sa che sogna; questa coscienza è l’avoltoio che lo rode: gli antichi trasformavano i loro sogni in religione e vi si acquietavano; egli rimane scettico ed alza il grido straziante:
. . . . . Arcano è tutto Fuorché il nostro dolor. |
La sua donna, il suo ideale rimane un mistero: l’ha veduta. l’ha lamentata; ora si sforza di comprenderla, e non gli vien fatto. Tutte le facoltá della sua anima restano inappagate, la fantasia che non sa piú serbare l’«alta specie»; il cuore che non sa piú espandersi al di fuori; la mente che non può addentrarsi in quel mistero: onde nasce quel senso profondo di tristezza che forma il principale attrattivo della poesia leopardiana, il desiderio ripullulante sempre e non placato mai.
Il qual sentimento è inacerbito dalla rimembranza. Le speranze e le illusioni del passato rendono piú amaro il disinganno. Né il passato muore tutto. L’immagine non è al tutto spenta; ricomparisce alcuna volta e non può rattenerla. Il sentimento non è al tutto inaridito; il cuore pur talora gli batte, e muore subitamente.
Voi vedete in tanta semplicitá di concetto quanta varietá di gradazioni, quanta ricchezza di particolari! Ciascuna strofa riproduce una parte della situazione. Nella prima e l’ultima è, piú che un ragionamento, un fantasticare intorno alla sede ed alla natura del suo ideale. In mezzo vi gitta tutte le sue impressioni: dapprima l’acerba certezza di non poterla mai vedere in terra, contrapposta alle fallaci illusioni della sua giovinezza; poi dalla sua miseria si allarga all’infelicitá del genere umano, a cui è negata la sua vista; indi con malinconico ritorno sopra sé stesso assapora la voluttá di vedersela pur talora innanzi, congiunta con l’angoscia del suo subito sparire. Cosi il concetto si svolge naturalmente nelle sue parti. Né basta. La parola traduce infedelmente il pensiero, costretta di esprimere a spizzico ed a bocconi ciò che nell’anima è uno. Nella parola la vita si dissolve, s’incadaverisce: hai le membra, non la persona. Tale è lo scoglio in cui rompono gl’ingegni mediocri, i quali sanno analizzare, decomporre il pensiero ne’ suoi elementi, non afferrarlo nella sua vivente unitá. La poesia principalmente è essa medesima la vita; e se il poeta non fa che rappresentarne singole parti, me l’annichila. Proprio del grande ingegno, che dicesi «genio», è il riprodurre in ciascuna parte con idee accessorie il rimanente, di modo che avanti al lettore stia sempre la persona intera con l’attenzione piú particolarmente rivolta a questa o quella parte. Qualitá mirabile del Leopardi, nel quale non so, se fu maggiore l’intelletto o la ragione, preciso nell’analisi, potentissimo nella sintesi. Sotto alla sua penna, spesso in grazia di una particella o di un epiteto, tu vedi un frammento ricongiungersi d’improvviso al suo tutto, dal quale pareva distaccarsi. Se qui ciascuna strofa non dovesse rappresentare che una parte della situazione, ciò che i pedanti chiamano ordine, avresti un tutto disgregato; cosa tollerabile forse in certe scienze, assurda in poesia. Ma qui i diversi periodi di ogni strofa sono per modo concretati, che, mentre una parte sta di prospetto, il resto le si annoda attorno in frasi episodiche, in proposizioni incidenti, in avverbi ed aggiunti: allato ad una parte comparisce la situazione tutta intera: immagine, pensiero e sentimento si ridestano a vicenda, eco l’uno dell’altro, come è la vita, com’è l’anima nella sua veritá. Prendiamo ad esempio la prima strofa. — Dove sei tu? forse fosti nell’etá dell’oro? forse sarai nell’etá avvenire? — ecco l’idea principale: innanzi al mistero il poeta fantastica. Ma allato a questa vi sta come incidente il sentimento che la sua donna gl’ispira, e l’immagine di lei che gli scuote il core nel sonno o nei campi; non hai frammenti, hai giá tutta innanzi la situazione.
Cara beltá che amore Lungi m’ispiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne’ campi ove splenda Piu vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome, O leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Ch’a noi t’ascose, agli avvenir prepara? |
Ciò che in questa strofa è incidente, diviene parte principale appresso, come «nascondendo il viso» nella seconda, e l’apparizione della immagine ne’ campi nella quarta. Cosi ogni strofa è ricchissima di particolari che vi stanno condensati, ma senza intoppo ed intrico, con naturale distribuzione, con quella pienezza che simula il rigoglio della vita.
L’interesse in questa poesia nasce tutto dalle cose: non ti accorgi di alcuno artificio di stile. La situazione è si nuova e si ricca e ne sgorga tanta abbondanza di pensieri e di sentimenti, che basta a tener viva l’attenzione senza che ci sia bisogno di assottigliarli, di ornarli. Oggi che tanti pensieri e immagini pel lungo uso sono invecchiate, non si può dir cose comunali semplicemente senza pericolo di addormentare il lettore. Quindi lo studio delle parole, il cumulo delle metafore, il rimbombo de’ suoni, la sottigliezza nei concetti, lo strano nelle immagini, il raffinato ne’ sentimenti: palliativi della volgaritá. Il Leopardi ha potuto ricondurre la poesia alla prisca semplicitá, alla veritá della natura, ringiovanendo, riverginando l’universo poetico. Dice cose peregrine, ignude di ogni ornamento estrinseco, belle di sé sole: non trovi qui paragoni o metafore, non modi inconsueti, che attirino l’attenzione al di fuori; hai innanzi viva l’immagine; dimentichi la parola.
Ecco i primi due versi:
Cara beltá che amore Lungi m’ispiri o nascondendo il viso,... |
Qui niente è nelle frasi che fermi l’attenzione, la quale rimane unicamente e perciò gagliardamente allettata dalla novitá del pensiero, da quel non so che di misterioso che ti presenta una donna, la quale ispira amore, lontana, o non veduta. Dalle prime parole il poeta s’insignorisce dell’anima tua e la forza a seguirlo. In che è posto ciò che dicesi la «casta trasparenza» del suo stile: la parola non è per lui altro che un istrumento, ch’egli maneggia maestrevolmente, divenuta mezzo diafano entro il quale si riflette il pensiero in tutta la sua limpidezza ed evidenza.
Tanti pensieri e sentimenti si succedono con grata abbondanza, ma senza sviluppo, onde nasce il colorito severo e sobrio di questa poesia. Dee il poeta parlarti dell’immagine? Si contenta di dire: «cara beltá»: non una parola mai che ti mostri uno sforzo, una intenzione di dipingerla piú particolarmente. Dee esprimere il dolore della perduta giovinezza? Udite con quanta semplicitá e brevitá:
Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m’abbandona. |
Dee esprimere il risorgimento del suo cuore, quando gli si affaccia al pensiero ^a. sua donna? Udite:
. . . . . di te pensando, A palpitar mi sveglio. |
Onde nasce quest’apparente ariditá? «A palpitar mi sveglio»! Ma Schiller, quando pensa al suo passato, sente rinfiammarsi il cuore o si abbandona all’onda de’ suoi pensieri e ridá vita al suo ideale; nella sua poesia si lamenta che l’ideale lo abbandona, e nondimeno lo riafferra e lo rattiene con la sua immaginazione: onde il suo stile pittoresco, vivace, copioso. Altro è qui lo stile, perché altra è la situazione. Il poeta passa di cosa in cosa, senza che niente valga a scuoterlo, a tirarlo a sé, si ch’egli vi si riposi e vi si addentri. Parla della sua immagine, ma quell’immagine non può piú figurarsela; parla del suo dolore, ma quel dolore non può piú disfogarlo; parla del suo «risorgimento», e non può goderne, e non può descriverlo; il suo cuore riman chiuso, nella sua anima è appena una fievole eco della vita’ esteriore. Questo stile cosí schivo, cosí severo lo diresti didattico, se non vi alitasse per entro un’insanabile malinconia. La coscienza del presente gli turba tutte le gioie, s’introduce inosservata in tutt’i suoi pensieri.
Arrechiamone qualche esempio:
. . . . . Giá sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. |
Vuol parlare della sua credenza giovanile, quando sperava di poter riscontrare in terra la donna della sua fantasia. Abbattendosi col pensiero in quei tempi felici, egli non vi si abbandona, non vi s’inebria, come fa Schiller, anzi li rappresenta aridamente «sul novello aprire» «te viatrice» «mi pensai»; ed invece congiunge col passato il presente, e questo accompagna di sconsolati epiteti «giornata incerta e bruna» «arido suolo»: è il presente che gli sta inesorabile davanti e gli toglie ogni dolcezza del passato. Né si tosto dice «a palpitar mi sveglio» che in luogo di fermarsi con compiacenza su quel fuggitivo momento di gioia, il presente lo incalza, e lo interrompe, e n’esce quel grido di desiderio impotente:
. . . . . E potess’io, Nel secol tristo e in questo aer nefando. L’alta specie serbar. |
Quanta melanconia in quell’agricoltore che fatica e canta e lui che siede e si lagna! Quanto strazio in quell’«ornai», che ti fa trasparire nel passato successive illusioni distrutte e rinascenti, ora mancate per sempre:
Viva mirarti omai Nulla speme m’avanza. |
Quant’amarezza di contrasto fra la vaga stella ove contempla la sua donna e la terra ove dimora egli:
O s’altra terra ne’ superni giri Tra’ mondi innumerabili t’accoglie, E piú vaga del Sol prossima stella T’irraggia e piú benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d’ignoto amante inno ricevi. |
È una tristezza plumbea, ritirata in sé stessa senza espansione, senza eloquenza; una delle tante facce che prende la malinconia della Urica leopardiana. E siccome nel dolore dell’individuo è qui in chiuso un sentimento piú generale, siccome questo contrasto fra l’ideale ed il reale è una delle tante forme sotto le quali si presenta l’enigma della vita; lo scopo di questa poesia non è di destar la nostra compassione pei mah di un uomo, poniamo grandissimi, ma di renderci tristamente meditativi delle umane sorti. Vi trovi il problema dell’universo posto e non risoluto, con la coscienza di non poterlo mai risolvere; vi trovi il sentimento del bello, del vero, del giusto, di tutto ciò che chiamiamo «ideale» con la coscienza di una realtá tanto discorde: e noi meditiamo e sospiriamo. È una poesia che, come le altre del Leopardi, non si indirizza certo a lettori volgari e distratti: ella richiede anime raccolte e pensose per le quali il mondo è cosa seria, e che tremano e si agitano innanzi al mistero della vita. L’anima del Leopardi è profondamente religiosa, avida di un ordine di cose divino e morale, che gli sta improntato nel cuore e di cui non vede orma in terra. Quell’ideale, quella donna, che egli non trovava quaggiú, che cercava nelle stelle o tra le eterne idee, egli l’avea nel suo cuore, il piú bel tempio che Iddio abbia avuto mai. Ma l’uomo non basta a sé stesso, ed ha bisogno che qualche cosa risponda al suo concetto, ed egli non la trovò; sicché gli parve che Dio e virtú fossero mere parole, vuoti concetti della mente senza riscontro nella realtá. Sente Dio in sé e lo nega nel mondo; ama tanto la virtú e la crede un’illusione; è cosí caldo di libertá e la chiama un sogno; miserabile contraddizione ond’è uscita una poesia unica, immagine dantesca di un’etá ferrea nella quale, oppressi da mali incomportabili, l’avvenire ci si oscurò dinanzi e perdemmo ogni fede, ogni speranza; d’una breve etá che sarebbe dimenticata nell’immensa storia umana, se non vivesse immortale in queste poesie.
[Nel «Cimento», a. III, s. III, vol. VI, dicembre i855.]
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Wie einst mit flehendem Verlangen
Pigmalion den Stein umschloss,
Bis in des Marmors kalte Wangen
Empfindung glühend sich ergoss,
So schlang ich mich mit Liebesarmen
Um die Natur, mit Jugendlust,
Bis sie zu athmen, zu erwarmen
Begann an meiner Dichterbrust.
Und theilend meine Flammentriebe
Die Stumme eine Sprache fand,
Mir wiedergab den Kuss der Liebe;
Und meines Herzens Klang verstand;
Da lebte mir der Baum, die Rose,
Mir sang der Quellen Silberfall,
Es fühlte selbst das Seelenlose
Von meines Lebens Wiederhall. - ↑
Erloschen sind die heitern Sonnen,
Die meiner Jugend Pfad erhellt,
Die Ideale sind zerronnen.
Die einst das trunk’ne Herz geschwellt,
Er ist dahin der süsse Glaube
An Wesen, die mein Traum gebar
Der rauhen Wirklichkeit zum Raube,
Was einst so schòn, so göttlich war. - ↑
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch’ella discorda;
So che natura è sorda.
Che miserar non sa.