Roma italiana, 1870-1895/Il 1892
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Il 1892.
Il 1890 aveva legato al suo successore la quistione di Roma, e il 1891 faceva altrettanto con l’anno nascente. Lunga, intricata e dolorosa questione era quella, e pur troppo doveva lungamente ancora agitare la capitale.
Il memento continuo della necessità che il Governo pensasse a riprendere i lavori edilizi secondo la legge del 1890, e ne regolasse con legge il proseguimento, lo pronunziava la miseria, con molte e diverse manifestazioni, e la carità pubblica e quella privata erano impotenti a farle tacere.
Fu fatta una distribuzione di oggetti di vestiario, di balocchi e di dolci all’anfiteatro «Umberto I» il giorno della Befana. Un comitato di signore e signori, che si adunava presso donna Carolina Rattazzi, fece miracoli per mettere insieme maggior roba da dispensare, ma la quantità di donne e di bambini che aspettarono ore e ore sotto una pioggia dirotta e gelata per avere un piccolo dono, il loro aspetto desolante, la eloquenza disperata con cui le madri esponevano i bisogni delle loro creature, fecero capire che la miseria era anche maggiore dell’anno precedente quando l’Albero di Natale era stato eretto per cura di Olga Lodi nel palazzo delle Belle Arti. Allora a trattenere la folla invadente dei miseri era bastata una linea di sofà disposti intorno all’albero e la voce delle signore, che distribuivano i doni; qui bastavano appena le porte dell’anfiteatro ben guardate da carabinieri; e se al palazzo di via Nazionale erano accorsi in una bella e serena giornata invernale un diecimila poveri, all’«Umberto» ne vennero più del doppio, sfidando la pioggia e il freddo intenso.
Subito si costituì un comitato di signore con una parte degli elementi di quello dell’albero di Natale, che prese il nome di «Soccorso e Lavoro». Il Re dette 20,000 lire e il comitato, sotto la presidenza della principessa di Venosa, aprì cucine economiche, laboratori per le operaie, una sala per custodire i loro bimbi mentre esse erano occupate al lavoro, e alcune signore di quel comitato, fra cui la baronessa Elena Sonnino, assunsero il compito delle visite a domicilio per distribuire soccorsi là dove il bisogno era urgente. La Regina, aiutava validamente l’opera del comitato e oltre gl’innumerevoli sussidi che faceva distribuire dal ministero della Real Casa, dava generosamente, contristata anch’essa da tante sventure.
Sui primi dell’anno il Consiglio comunale votò l’aumento delle linee dei tram per il comodo e l’economia dei cittadini, e subito i cocchieri delle vetture pubbliche fecero sciopero e minacciarono disordini. A un primo tentativo di prepotenze cinquanta ne furono arrestati; ma lo sciopero continuò per diversi giorni e i pochi vetturini, che volevano attaccare, erano malmenati. Alcune vetture continuavano a fare il servizio con una guardia a cassetta, ma lo sciopero essendo divenuto generale, furono messe le guardie a guidare e dopo un comizio all’Eldorado, dopo aver passeggiato e gridato inutilmente per più giorni, i vetturini ripresero il servizio, senza aver ottenuto nulla.
Nel ministero era avvenuto un cambiamento sostanziale. Il senatore Luigi Ferraris aveva dato le dimissioni il primo dell’anno da ministro di Grazia e Giustizia, che erano state accettate. Gli fu conferita la carica di ministro di Stato; al posto del senatore Ferraris passò il Chimirri, che era all’Agricoltura e di questo ministero prese l’interim l’on. di Rudinì, avendo per sottosegretario di Stato l’on. Arcoleo.
Il marchese di Rudinì ebbe, come regalo di capodanno dall’imperatore Francesco Giuseppe, la gran croce dell’ordine di Santo Stefano. Questa alta onorificenza gli fu conferita in seguito alla conclusione del trattato di commercio con l’Austria-Ungheria, che attendeva ancora la sanzione del Parlamento; l’ottenne entro il mese di gennaio insieme con quello concluso con la Germania; il trattato con la Svizzera fu prorogato al 13 febbraio per dar tempo ai nostri delegati a Berna di discutere con quelli svizzeri.
Il duca d’Aosta, che era sempre di stanza a Firenze, e il duca degli Abruzzi si trattennero lungamente a Roma nell’inverno, ed ebbero accoglienze festosissime nella società romana. Il Circolo della Caccia dette un pranzo in loro onore, don Alfonso Doria offrì loro una caccia e un luncheon nella sua magnifica villa sul Gianicolo, e le signore che davano balli, erano molto lusingate quando e due giovani Altezze Reali accettavano i loro inviti.
Il 12 gennaio fu conclusa la convenzione per la cessione allo Stato della Galleria Torlonia. La convenzione fu firmata dalla principessa Anna Maria e dal principe don Giulio da un lato, e dall’altro dal ministro Villari e dal senatore Costa. La Galleria era stata lasciata alla città di Roma da don Giovanni Torlonia con testamento del 1829, e il Villari fece atto abusivo accettando di firmare la convenzione. In Consiglio comunale nacquero vivaci proteste, e l’on. Ferdinando Martini presentò subito una interpellanza alla Camera. La Galleria fu aperta per alcuni giorni al pubblico, che andò numeroso a visitarla, ma quel fatto della convenzione e i disordini della università di Napoli, cagionati dal prof. Scaduto, attizzarono di nuovo la guerra contro il ministro della Pubblica Istruzione. Egli era accusato di aver lasciato sperperare le gallerie fidecommissarie romane, dopo che alcuni quadri di quella Sciarra e di quella Borghese avevano preso il volo; di aver permesso che all’Università si commemorasse l’Oberdank; di aver ordinato che la teoria di Darwin fosse introdotta nell’insegnamento; dell’indisciplina che aveva lasciato penetrare nelle scuole; del ritiro dei libretti agli studenti delle università e del ristabilimento delle sessioni straordinarie di esami.
Il piccolo ministro, che trotterellava sempre a piedi dalla Minerva a Montecitorio, accanto al al suo altissimo sottosegretario di Stato, on. Pullė, pareva che dovesse rimanere schiacciato sotto quella valanga di accuse; invece, sereno al Governo come nella quiete del suo studio, dalla quale avevalo tratto l’on. di Rudinì, preparò un progetto di legge col quale assegnavansi 500,000 lire annue per gli oggetti d’arte, si comminava una penalità a chi esportava all’estero oggetti artistici e davansi le gallerie private in custodia dello Stato.
La premura con cui il presidente del Consiglio presentò quel progetto di legge e le raccomandazioni che fece perchè fosse discusso, seduta stante, lo fecero chiamare il catenaccio artistico. Il progetto di legge venne approvato ed il 10 febbraio andò in vigore. Il piccolo ministro rimase al suo posto, rimpiangendo forse alla Minerva il suo studio del palazzo Ginori a Firenze, dove aveva creato opere più durature e più encomiate di quelle cui dedicava allora la mente.
Due incendi, uno in piazza di Spagna, nel quartiere della contessa Reduska, zia del Sindaco, che distrusse molte cose preziose, e una quantità d’oggetti d’arte del pittore Corrodi, che abitava sopra, e l’altro nello stabilimento Pantanella, risollevarono l’assopita questione dei vigili e fecero capire che era necessaria una riforma in quel corpo.
L’incendio dello stabilimento Pantanella avvenne la sera stessa del ballo all’Ambasciata di Germania, il primo che dava il conte di Solms, e che per varie ragioni era stato rimandato già più volte. Anche quella sera mancò poco che i Sovrani non v’intervenissero, perchè il Re, appena seppe dell’incendio della fabbrica di paste, andò ai Cerchi e si dovette alla presenza di lui e al suo sangue freddo se il cortile potè essere sgombrato, e i lavori d’isolamento condotti con più speditezza. Quell’incendio era un disastro, perchè avendo distrutto le macchine impediva l’attività della fabbrica, e poneva sul lastrico molti altri operai, che accrescevano il numero dei disoccupati. Il Re mandò un sussidio di 3000 lire agli operai dello stabilimento Pantanella, provvedendo così momentaneamente ai loro bisogni.
La questione dei disoccupati si faceva grossa. Ai primi di febbraio essi si adunarono, andarono al ministero dell’Interno, dove l’on. Lucca li riceveva con buone parole, ma non poteva prometter nulla, perchè il progetto per Roma non era ancora pronto. Intanto essi minacciavano ammutinamenti, ed erano da temersi gli eccessi del febbraio 1887. Già i padroni dei negozi intimoriti aprivano a metà gli sporti, pronti a chiuderli subito, e drappelli di disoccupati percorrevano la città in aria minacciosa. Insultarono e tentarono di disarmare anche la sentinella di Montecitorio.
Il progetto di legge per Roma venne finalmente alla Camera il 7 febbraio, dopo essere stato concordato fra Governo e Comune. Con esso si assegnava al Comune una somma vincolata di 26,700,000 lire per le opere pubbliche che esso erasi assunto di costruire con le leggi degli anni precedenti. La spesa residua del Policlinico era fissata in L. 11,900,000, compreso il prezzo dell’area già acquistata all’Esquilino per fondare il detto Istituto e che poteva esser venduta per conto dello Stato.
La spesa pel Policlinico era ripartita nel bilancio di assestamento per l’anno 1891-92 e in quelli successivi fino al 1901, in tante quote varianti fra 1,250,000 e 1,650,000. Al compimento delle opere militari prevedute nella convenzione del 1880 si provvedeva con legge speciale, come con legge speciale si provvedeva pure al prolungamento della via Cavour fino al Campidoglio, coordinando quell’opera con gli accessi da aprirsi al monumento a Vittorio Emanuele. La somma di lire cinquecentomila, stanziata nel bilancio dei lavori pubblici per l’esercizio in corso, veniva erogata in parte (350,000) per i lavori di definitiva sistemazione della via Cavour fino a via Alessandrina, e della via dello Statuto; il rimanente concorreva a costituire la somma di 1,650,000 lire da stanziarsi in quell’anno per il Policlinico. Al compimento della costruzione del ponte Umberto era provveduto con stanziamenti in bilancio per l’esercizio 1894-95 e successivi. La spesa complessiva non poteva superare 1,500,000 lire.
Alla costruzione del ponte Vittorio Emanuele, assunto dallo Stato, si provvedeva con legge speciale, ma stabilivasi già che la spesa di esso, non compresi gli accessi, non dovesse superare 3,200,000 lire.
Al proseguimento dei lavori del Palazzo di Giustizia si provvedeva pure con legge speciale.
Presso la Congregazione di Carità di Roma era costituito un fondo speciale per la beneficenza, per provvedere alle spese che prima della legge 20 luglio 1890 erano iscritte nel bilancio del Comune. La dotazione di quel fondo veniva costituita con i beni delle confraternite, ecc. tuttavia amministrati dal demanio, e che a termine di legge dovessero essere indemaniati, con la metà dei beni delle Opere Pie elemosiniere e dotali concentrate nella congregazione di carità, col capitale corrispondente alle rendite erogate in media nell’ultimo triennio dalle confraternite nazionali, ecc. esistenti in Roma, per qualsiasi titolo di beneficenza comprese le doti, diverso da quello che formava lo scopo principale della istituzione, col contributo del fondo di beneficenza e di religione della città di Roma, costituito con la legge 19 giugno 1873 che veniva stanziato nel bilancio di ciascun anno, con la rendita degli edifizi destinati al servizio del culto, di proprietà delle confraternite, che fossero espropriati per servizio di pubblica utilità.
Tutte le Opere Pie, per disposto di questo progetto di legge, passavano direttamente nella Congregazione di Carità, ancorchè il demanio non ne avesse preso possesso. Le rendite dovevano esser distribuite nella misura che sarebbe stata determinata ciascun anno dalla autorità tutoria, secondo le risultanze dei rispettivi bilanci. Alle Opere Pie ospitaliere non poteva essere assegnata somma maggiore di 500,000 lire, poi agli Orfanotrofi, agli Asili infantili, all’Infanzia abbandonata, al Ricovero di Mendicità si provvedeva pure. Le somme che sopravanzavano dovevano esser distribuite in proporzione dei rispettivi bisogni, alle altre istituzioni di pubblica beneficenza legalmente riconosciute dentro un anno dalla legge.
Il contributo del fondo di religione e beneficenza nella città di Roma era fissato per il bilancio 1891-92 in lire 200,000. Per costituire quella somma era ridotto a 80,000 il contributo annuo per la ricostruzione della Basilica di San Paolo. Erano dichiarate di proprietà dell’Orfanotrofio maschile di Santa Maria degli Angeli le aree e proprietà private fra le vie Cernaia, Pastrengo e Venti Settembre. Il Governo era autorizzato ad anticipare al Comune la somma di 12 milioni rappresentante l’ammontare di pari somma dovuta per le annualità di 2,500,000 lire per concorso dello Stato nelle opere edilizie e di ampliamento della città di Roma. Le ultime quattro annualità erano soppresse e la quinta ridotta a 500,000 lire. Lo Stato doveva pagare tale somma in rate annuali di un milione di lire. La cassa depositi e prestiti era autorizzata a fare un prestito di quindici milioni e mezzo di lire al Comune di Roma per compiere il pareggio del bilancio, e fornirgli i mezzi per eseguire opere pubbliche. Questo prestito doveva esser somministrato per una somma non maggiore di dieci milioni entro il 1892 e il rimanente nel 1893. Il prestito doveva essere ammortizzato in 35 anni. Invece la stessa cassa era autorizzata a convertire i mutui fatti al Comune di Roma in un imprestito.
Questo progetto rimandava i lavori alle calende greche e perpetuava il triste spettacolo annuo di dover andare sempre alla Camera a chieder l’elemosina per Roma. Peraltro per dare un po’ di lavoro alla turba dei disoccupati si cominciarono i lavori alla villa Patrizi per dare assetto al piazzale di Porta Pia e procurare accessi al Policlinico, si mise mano a quelli della stazione di Porta Cavalleggeri e al nuovo Manicomio di Sant’Onofrio.
L’on. Lucca, così tormentato dai disoccupati, aveva speso il tempo in un lavoro importante presiedendo una commissione incaricata del riordinamento delle forze disperse della beneficenza romana. Quel lavoro che fu compiuto doveva, se non rimediare alla piaga della miseria, almeno dare alla Congregazione di Carità, mezzo di alleviarla.
Nessun flagello fu risparmiato a Roma in quell’inverno. Infieriva l’influenza, al solito, e si ebbe anche un fortissimo terremoto il 23 gennaio, alle ore 11 e 25 di sera, che se qui non produsse danni, ne recò però a Civita Lavinia, a Velletri, e vi fu anche una inondazione del Tevere. Le acque invasero i quartieri bassi della città, quello del Testaccio e le vigne di San Paolo, e l’Aniene straripò pure.
Anche in quell’inverno Roma fece moltissime perdite dolorose. Mori Pietro Venturi, buon cittadino, già sindaco della città; poco dopo tennegli dietro il senatore Bardessono, già prefetto; quindi il senatore Volpi-Manni, colui che prima dell’occupazione di Roma, aveva raccolto il plebiscito di adesione dei viterbesi alla monarchia, e lo aveva recato a Firenze. Si spense pure, nel suo villino in via Milano, Emilio Broglio, il patriota lombardo, l’autore della storia di Federigo il Grande, l’ex ministro, l’ammiratore entusiasta del Manzoni, il compilatore del vocabolario della lingua italiana, prima con la cooperazione di G. B. Giorgini e poi di Aurelio Gotti. Anche Nicola Ferracciù venne a morte nella casa che abitava al Lungo Tevere dei Millini. Due volte era stato ministro; la prima della Marina, la seconda di Grazia e Giustizia, e come già ho avuto a narrare, si dimise in seguito al processo Sbarbaro, per avere scritto una lettera amichevole all’imputato, che Sbarbaro lesse all’udienza.
Anche il Vaticano fece una perdita per la morte del cardinal Mermillod, avvenuta nel villino Folchi, nel quartiere Ludovisi. Era uno dei cardinali più fanatici del Sacro Collegio e prima che ricevesse la porpora aveva sofferto l’esilio dalla Svizzera, sua patria, appunto per il suo zelo. Intelligente, insinuante, dotato di maniere cortesi, aveva numerosissime ammiratrici fra le dame devote di Svizzera e di Francia. Morendo lasciò i suoi ricchi mobili ai poveri. Non fu il solo cardinale che mancasse in quell’inverno. Prima di lui era morto a Propaganda Fide, il cardinal Simeoni, e la sua salma veniva portata col carro dei poveri al Campo Verano.
E giacchè ho nominato il villino Folchi, dirò che vi fu a Roma una gran diceria per la cattiva amministrazione che il proprietario di quel villino, monsignor Folchi, aveva fatta del danaro dell’obolo di San Pietro. Si parlava di milioni impegnati in cattive speculazioni e dati a patrizi romani travolti nella rovina. Monsignor Folchi perdè la carica e all’amministrazione dell’obolo fu posta una commissione di tre cardinali, presieduta dal severissimo cardinal di Ruggiero, al quale il Papa aveva pure affidata la Prefettura dei Palazzi Apostolici, dopo che per l’elevazione di monsignor Luigi Ruffo-Scilla alla porpora, avevala staccata dal Maggiordomato.
La miseria, le morti, i flagelli e le sventure non impedirono che il carnevale e la quaresima fossero brillantissimi, perchè appunto con l’intendimento di sollevare la miseria le signore davano balli e preparavano feste di beneficenza.
La Corte dette due balli molto belli, che riuscirono più animati per la presenza del duca d’Aosta e del duca degli Abruzzi; il nuovo ambasciatore di Spagna, marchese di Benomar, prese a ricevere nel sontuoso quartiere al primo piano del palazzo Barberini; la principessa di Poggio Suasa faceva ballare ogni venerdì, la baronessa Sonnino ogni giovedì, la principessa Pallavicini dette alcuni balli, la duchessa Massimo pure; all’ambasciata d’Austria ogni sabato di quaresima si recitava la commedia e le attrici più acclamate erano la marchesa di Dufferin e Ava, che stava per lasciare l’ambasciata inglese per la nomina del marito a Guardiano dei Cinque Ponti; Daisy Francesetti, che recitava in francese e in inglese con eguale maestria; la principessa Potenziani e la giovane e bella marchesa Misciatelli.
I Primoli aprirono le loro sale per la lettura fatta da Giacosa stesso della sua Dame de Challant e poi le riaprirono per i quadri fotografici; gli Spalletti e i Calabrini riceverono pure, e bellissimi concerti furono uditi al palazzo Antici-Mattei, nel quartiere occupato da miss Wilson, grande ammiratrice di Sgambati. La marchesa Gravina fece pure ballare, l’ambasciatore di Russia invitò la società romana, e oltre questi ricevimenti numerosi si ebbero concerti memorabili all’Argentina, con Stagno e con la Bellincioni, a beneficio del «Soccorso e Lavoro», altri concerti alla sala Dante, conferenze bellissime al Collegio Romano, corse a Tor di Quinto, un concorso ippico a villa Borghese, un bazar di beneficenza dalla contessa Caprara e una festa per lo stesso scopo in piazza di Siena, alla quale assistè la Regina circondata dallo sciame delle belle e pietose signore della Società presieduta dalla principessa di Venosa, che si studiava di lenire le angustie dei miseri.
Anche il Comitato per l’Esposizione di Roma lavorava con lena; ogni momento annunziava, nei giornali che le somme sottoscritte crescevano e in inverno toccarono il milione. Però a Roma non si aveva fede che l’Esposizione potesse farsi, tanto più dopo l’esito di quella di Palermo, che attirava così poca gente.
Alla Camera in febbraio vi furono interpellanze sui disoccupati. Il Ministro dell’interno rispose un po’ seccamente, dicendo che era un mestiere quello dell’operaio disoccupato.
Pochi giorni dopo gli onorevoli Antonelli, Gallo, Barzilai e Ferrari presentarono una interpellanza sulle condizioni di Roma. Allora il Nicotera rispose con fermezza, condannando il sistema di far apparire Roma in preda a continui disordini e domandò e ottenne che lo svolgimento della interpellanza fosse rimandato a sei mesi.
In Africa era avvenuta una rottura con Menelick e Mangascià, e l’Antonelli interrogò su questo fatto il Governo, il quale da qualche tempo pareva avesse abbandonato la politica di amicizia con lo Scioa per un’altra in favore dei capi del Tigre.
L’Africa dava sempre da fare e da discorrere. All’arrivo del colonnello Baratieri a Massaua, nominato governatore civile, e al quale, come ufficiale in attività di servizio, spettava, in forza di un recente decreto reale, la sorveglianza della disciplina, della istruzione e della amministrazione dei corpi d’Africa, il Gandolfi non si fece trovare. Era partito per l’Asmara e dopo s’imbarcò senza aver fatto la consegna dell’ufficio al nuovo governatore. Inoltre, appena giunto, ebbe col Borelli del Popolo Romano un colloquio, che fu pubblicato, nel quale velatamente biasimava la scelta del Governo. I giornali si schierarono in due campi e naturalmente si studiavano di difendere uno condannando l’altro, e la discussione fu lunga sulla partenza del governatore dell’Eritrea e sulla scelta del Baratieri, quanto sulla nomina del conte Taverna a nostro ambasciatore a Berlino in sostituzione del defunto conte de Launay.
Il conte Taverna aveva avuto la sventura di parlare subito dopo la sua nomina, col Barth, corrispondente del Berliner Tagblatt. Il Barth forse aggiunse qualcosa del suo alle dichiarazioni del Taverna sulla alleanza dell’Italia con la Germania. È un fatto che appena si lesse nel Popolo Romano il sunto di quel colloquio telegrafato da Berlino, le dichiarazioni del nuovo ambasciatore destarono meraviglia e l’Imbriani, che non lasciava mai in pace i ministri, rivolse al Presidente del Consiglio una interrogazione alla Camera.
Il Rudinì rispose, col Popolo Romano alla mano, che non bisognava prestar fede ai corrispondenti, i quali essendo uomini politici, ampliano e svisano, e negò recisamente che l’Italia fosse obbligata dalle alleanze a prestar man forte ai due imperi nel caso di una guerra, come dal sunto telegrafico del colloquio pareva avesse ammesso il nuovo ambasciatore. Il Presidente del Consiglio continuando a negare battè un pugno sul banco e l’Imbriani gli disse: «Eh! per un pugno siete divenuto Presidente del Consiglio e continuate a batterli!»
Nonostante l’interrogazione, la nomina del conte Taverna comparve nella Gazzetta Ufficiale, ma egli non andò a Berlino, si vuole per le dolci insistenze della contessa Lavinia, alla quale doleva di abbandonare Roma e la dolce intimità della vita di famiglia.
Dopo che la Camera e il Senato ebbero votato la legge sugli infortunii sul lavoro, fu presentata quella sui provvedimenti ferroviari. Scopo di quel disegno di legge era di mettere le spese per le costruzioni ferroviarie in giusto rapporto con le condizioni del tesoro e delle finanze. Stabiliva una spesa di 180 milioni per le costruzioni ferroviarie del quinquennio in ragione di 30 milioni nei due primi esercizi e di 40 negli altri tre. Però gl’impegni passati portavano per il quinquennio la spesa a quasi 120 milioni annui. La discussione fu lunghissima, ma la Camera vi prendeva poco interesse ed era quasi sempre spopolata. Quando si venne al voto l’on. Crispi dichiarò che non avrebbe dato il suo perchè la legge nuova non era di alcuna utilità all’erario, e non giovava punto alle popolazioni. Egli aggiunse che sul problema ferroviario bisognava tornar presto, che la legge del 1879 era stato la vera carie dell’erario ed aveva arricchito i costruttori. Durante la votazione l’ex-presidente del Consiglio si alzò e molti deputati lo imitarono.
Il Ministero già da un pezzo navigava in cattive acque, ma ebbe un altro colpo dalla relazione dell’on. Cadolini sull’esercizio del 1891-92, che rilevava come l’avanzo dei 4 milioni fosse una illusione e invece vi fosse un disavanzo maggiore di 11.
Il 17 febbraio l’on. Rudinì dovette riconoscere alla Camera che il disavanzo, anche nel bilancio di previsione esisteva, che i calcoli erano stati sbagliati. Disse che era dai 20 ai 30 milioni e rammentando che nel 1888-89 saliva a 400, riuscì ad avere un voto di fiducia.
L’on. Imbriani, che su tutto prendeva la parola e spesso intralciava le discussioni ora a proposito della nomina di un sindaco, ora per altre quisquilie, interrogò il Ministro dell’interno sul sequestro di una corona posta dai repubblicani milanesi sul busto di Mazzini, e dopo aver presentata la interrogazione aggiunse:
«Voglio vedere come se la caverà il ministro dell’Interno, il quale porta in dito un anello regalatogli da Mazzini».
Il Nicotera rispose che era un anello di sua madre e che non voleva rispondere, e allora l’Imbriani si diede a gridare:
«Non risponde, perchè non sa che cosa rispondere. Avrei parole roventi da dire al signor Nicotera, non all’uomo, ma al Ministro; gliele dirò fuori di qui.
Questa scena avveniva il 10 marzo. Il 21 l’on. Imbriani faceva notare alla Camera che la rendita italiana precipitava a Berlino, dove erano «i nostri alleati». I pagamenti si chiedevano a MONUMENTO A MARCO MINGHETTI vista, segno di grande sfiducia, ed egli incolpava di quel fatto la sbagliata politica estera. Non contento di attaccare con tanta violenza il Governo, faceva una carica a fondo contro le società anonime e contro le banche di emissione, che inondavano il paese «di carta falsa». Il Presidente della Camera richiamava l’oratore all’ordine, ma era fatica sprecata, poichè già la Camera aveva fatto l’orecchio alle intemperanze di linguaggio, che avrebbero fatto fremere gli antichi uomini parlamentari, se fossero tornati a questo mondo; anzi una parte di essa, come del paese, si divertiva di veder messo ogni giorno il Governo alla berlina. Ma con la consuetudine presa di portare alla Camera ogni questioncella e di sbraitare e affannarsi per ingrandirla, ne nacque questo: che le grandi davvero vennero con quelle confuse, e non si ebbero più quelle sedute memorabili, nelle quali tutte le forze si univano per giudicare con serietà ammirevole, l’opera di un Ministero.
Il processo dei ribelli del primo maggio 1891 si fece alle Assise di Roma, nell’inverno, ma dovè esser sospeso. Gl’imputati erano 68 e la sala dei Filippini presentava uno spettacolo strano. Le autorità nutrivano serii timori che il processo desse luogo a nuove ribellioni, e per questo non lesinavano il numero dei soldati, che custodivano la sala e i dintorni. I giurati pronunziarono il verdetto loro soltanto in primavera e meno i 9 assolti, tutti gli altri ebbero condanne così lunghe che, nonostante fossero in carcere da un anno quasi, vi avrebbero passato anche il primo maggio 1892. Quel fatto calmava un poco i timori della popolazione, sgomenta dagli attentati di Londra e di Parigi, e dalla memoria viva degli avvenimenti di Santa Croce in Gerusalemme, perché riteneva che fra i condannati vi fossero non tutti, ma molti dei capi del terribile partito della distruzione.
Un disegno di legge sulle Banche fu presentato alla Camera. Se ne sentiva il bisogno; e l’onorevole Imbriani non aveva esagerato tanto dicendo che inondavano di carta falsa il paese. Il disegno di legge tendeva a consolidare gl’istituti esistenti, ma nello stesso tempo porreva limiti e norme alla circolazione.
Il corpo diplomatico subì in quella primavera molti cambiamenti. Richiamato Lord Dufferin, al quale la Corte fu larga di cortesie, venne a Roma Lord Vivian come ambasciatore della Regina Vittoria; il Sultano mandò a reggere l’Ambasciata S. E. Mahmud Nedim-bey al posto di Zia-bey e il Governo del Brasile accredito qui come Ministro il signor Teffé.
I primi due riceverono ufficialmente in aprile: Lord Vivian all’Ambasciata inglese; Mahmud nel villino in via Palestro; il signor Teffé prese dopo in affitto il villino De Renzis, in piazza dell’Indipendenza, ma intanto meravigliava Roma con la ricchezza dei suoi equipaggi.
Oltre questi ambasciatori vennero a Roma in primavera il duca e la duchessa di Fife, il principe Giorgio di Svezia, i duchi di Sassonia-Weimar e il conte di Torino, il quale incominciò a frequentare la società romana. Il primo invito che accettò fu quello per un pranzo dalla principessa Potenziani, e poi andò sempre ovunque si ballava, o vi erano riunioni eleganti, dimostrando un grandissimo desiderio di divertirsi.
Il conte piacque molto a Roma per le sue maniere franche, per il nessun sussiego, ed egli vi stava volentierissimo. Aveva per primo aiutante di campo il conte Mario di Robilant, maggiore di Stato maggiore, il quale sposò la contessina Daisy Francesetti. Il matrimonio religioso fu celebrato nella chiesa del Sudario tutta ornata di fiori e gremita di dame. La giovane sposa, che era stata tenuta a battesimo dalla Regina, ebbe da lei un ricco dono. Ma quel matrimonio era stato preceduto e fu seguito da altri non meno eleganti. La baronessina Tatpheous aveva sposato il conte Pecori, ufficiale distinto; la contessina Caprara il figlio dell’ambasciatore di Portogallo presso il Vaticano, marchese Martens Ferao, e in giugno la bella discendente degli Sforza-Cesarini, donna Lina di Santa Fiora, si univa col giovane marchese Corsini di Lajatico. Anche a lei, figlia di una dama di corte, non mancò un ricco dono della Sovrana, che non dimentica mai di dimostrare benevolenza alle proprie dame.
La Regina in quell’anno, più ancora che in quelli precedenti, vedendo tanta miseria e tanta sfiducia nelle classi bisognose, dedicò il suo tempo alla visita dei pii istituti e non mancò a nessuna festa di beneficenza. Ella visitò l’ospedale del Bambin Gesù, l’Istituto dei Ciechi, quello degli Storpi fuori di Porta San Giovanni, quello dei Sordo-Muti, assistè alle feste data dalla Società «Soccorso e Lavoro» a Villa Borghese, e le animò con la sua presenza e con la buona grazia con cui si presta sempre nel compiacere le signore che la richiedono di un favore.
Il 14 aprile, di venerdì santo, mentre il cannone di Castel Sant’Angelo annunziava il mezzogiorno, l’on. di Rudinì usciva dal Quirinale non più Presidente del Consiglio e l’Agenzia Stefani diramava la notizia della crise avvenuta in seguito a dissensi nei Consigli dei ministri dei giorni 11, 12 e 13 sui provvedimenti finanziari da sottoporsi al Parlamento, dissensi che avevano portato alle dimissioni di tutto il Gabinetto. Il ministro Colombo aveva provocata la crise opponendosi che si ricorresse a nuove tasse per coprire il deficit del prossimo bilancio, così rimase indiscussa la quistione delle spese militari, su cui il dissenso era anche più profondo.
Durante la crise avvennero gravi attriti fra l’on. Piero Lucca, sottosegretario all’Interno, e il ministro Nicotera, così quando il 21 i ministri risolsero di rimanere al loro posto provvedendo alle Finanze, perchè l’on. Colombo si era definitivamente dimesso; al Commercio, di cui reggeva l’interim il Presidente del Consiglio, e alle Poste e Telegrafi che era vacante, l’on. Lucca e l’on. Salandra se ne andarono.
Il Ministero era una barca sfasciata, nonostante aveva fiducia di poter navigare ancora, tant’è vero che il ministro del Tesoro propose di coprire il disavanzo dei 30 milioni con la regia degli zolfanelli, con un aumento di ritenuta sulle pensioni degli impiegati, e con nuove economie su tutti i bilanci. Alle spese militari volevasi provvedere con una forte diminuzione sulle spese d’Africa riducendo il numero dei soldati, o ritirandoli addirittura, col ritardo della chiamata del contingente e con alcune economie sugli arsenali e sugli opifici militari.
E che il Ministero, benchè alla meglio ricostituito, fosse davvero sfasciato, lo provava il fatto che il Villari non voleva tornare alla Camera, e gli si facevano vive pressioni per indurlo a non annunziare le dimissioni.
Il 4 maggio l’on. Rudinì si ripresentò al banco dei Ministri e fece le solite dichiarazioni, che furono accolte glacialmente. Il dì seguente si votò su un ordine del giorno dell’on. Grimaldi, di fiducia al Gabinetto e nelle urne furono trovati 193 voti contrari e 183 favorevoli, mentre fino all’ultimo momento il Governo era stato sicuro di riportare una maggioranza di almeno 60 voti. Ma i discorsi pronunziati prima della votazione dagli on. Giolitti, Martini ed Ellena avevano staccata dal Governo la maggioranza su cui contava.
Questa volta il Gabinetto Rudinì-Nicotera era caduto davvero e non c’era mezzo di rimpastarlo. Il 7 maggio la Camera si aggiornò in seguito alla crise, e il giorno 11 la Gazzetta Ufficiale annunziava, contrariamente alle consuetudini vigenti fino a quel tempo, che il Re aveva dato formale incarico all’on. Giolitti di formare la nuova amministrazione, e la nomina di lui a presidente del Consiglio. Due o tre giorni dopo il nuovo Ministero era costituito, con l’on. Giolitti alla presidenza e all’Interno e con l’interim del Tesoro, con l’on. Brin agli Esteri, il Bonacci alla Grazia e Giustizia, l’Ellena alle Finanze, il Genala ai Lavori Pubblici, il Martini alla Istruzione Pubblica, il Lacava all’Agricoltura e Commercio e il Finocchiaro-Aprile alle Poste e Telegrafi. Il generale Pelloux e il vice-ammiraglio Saint-Bon conservavano i rispettivi portafogli della Guerra e della Marina e i rispettivi sottosegretari di Stato on. Carenzi e Corsi.
Il Ministro dell’Interno sceglieva a suo sottosegretario l’on. Pietro Rosano, il ministro Bonacci sceglieva l’on. Nocito, il ministro Genala l’on. Sani, il ministro Ellena l’on. Lanzara, il ministro Lacava l’on. di San Giuliano; al Tesoro andava il Fagiuoli.
Il Ministero era dunque quasi completo ed era un ministero di burocratici, incominciando dall’on. Giolitti, il quale dai più umili gradi della carriera amministrativa, era salito in otto anni alla Presidenza del Consiglio, mercè l’intelligenza di cui aveva dato prova alla Camera, dove per i suoi discorsi erasi meritato il soprannome di «Sirena».
Si racconta che dopo la sua nomina a Presidente del Consiglio, quando andò al palazzo Braschi per prendere possesso del suo ufficio, gli uscieri, vedendolo giungere solo e modestamente vestito, gli facessero fare una lunga anticamera prima di avvertire il comm. Ramognini. Era celebre il lungo soprabito, alquanto antiquato, che l’on. Giolitti indossava sempre, e che avevagli valso l’altro nomignolo di «Palamidone» col quale lo designava il pubblico.
In quel ministero burocratico vi erano uomini giovani, ma d’incontestata capacità, come il Genala, che aveva compiuto altra volta il difficile lavoro delle convenzioni ferroviarie; l’Ellena espertissimo in fatto di finanze, il Martini, che aveva dato ripetute prove della sua intelligenza così a Montecitorio come alla Minerva. Non era dunque giustificata l’ostilità con cui il Gabinetto presieduto dal Giolitti venne accolto da una parte della stampa, la maggiore, benchè il paese sperasse dagli uomini nuovi una nuova era di vita meno angosciosa.
Il 25 maggio il Presidente del Consiglio fece le dichiarazioni prima al Senato e poi alla Camera. L’on. Imbriani a Montecitorio lo attaccò aspramente appena ebbe finito di parlare, dicendo che non meritava conto di cambiar Governo, e che «il paese non ha fiducia in Governi di burocrazia, perchè burocrazia significa ladri».
Invece se conforme era l’intendimento del Gabinetto Giolitti a quello del Ministero precedente di volere economie radicali, non poco diverso era il mezzo per saldare il deficit, e mentre l’altro voleva far gravare sul bilancio ordinario le spese per le ferrovie, questo proponeva di provvedervi col credito. Annunziava riforme in tutti i pubblici servizi, e stabiliva che le spese militari, fra ordinarie e straordinarie, non avrebbero ecceduto la somma di 246 milioni.
I primi giorni della vita del ministero Giolitti furono subito angosciosi, come angosciosa ne fu in seguito l’esistenza. Erasi appena presentato alla Camera, che già si attaccava come incostituzionale la soluzione della crise, e a Montecitorio era posta in pericolo l’esistenza del Ministero. L’onorevole Baccelli gli porse una tavola di salvezza presentando un ordine del giorno nel quale era detto che la Camera si riserbava ogni giudizio a quando il Governo avesse fatte proposte concrete. Su quell’ordine del giorno, accettato dal Presidente del Consiglio si votò, ma il voto fu una vera sconfitta, perchè il Governo raccolse 169 si, contro 160 no, ai quali si dovevano aggiungere 30 astensioni molto significative, perchè venivano dai centri della Camera, sui quali appoggiavasi specialmente il nuovo Ministero, e che si dissero provocate dai consigli dell’on. Sidney Sonnino, divenuto il grande oppositore del Giolitti.
Questo avveniva il 26 maggio, cioè il dì successivo alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, il quale il 27 annunziava alla Camera che il Ministero aveva creduto di rassegnare le dimissioni, ma che esse non erano state accettate dal Re.
In quel giorno l’on. Giolitti, già scosso nella sua posizione, dette prova di coraggio chiedendo che la Camera votasse subito le leggi urgenti e accordasse sei mesi di esercizio provvisorio al Ministero per il bilancio 92-93.
A Montecitorio vi fu in quel tempo una crise presidenziale provocata dalle dimissioni dell’onorevole Biancheri, il quale, pregato, ritornò a presiedere l’assemblea legislativa, e dopo questo incidente i lavori ricominciarono. Fu votato il trattato di commercio con la Svizzera e il progetto per l’immediata applicazione della clausula sui vini in seguito al discorso del ministro Ellena, la cui salute già ispirava serii timori.
I preparativi per il 1° maggio erano avvenuti allorché l’on. Nicotera era ancora ministro dell’interno. All’Associazione dei Tipografi a San Bartolomeo ai Vaccinari si erano riuniti i membri delle società anarchiche e radicali deliberando l’astensione dal lavoro nel giorno del 1° maggio, l’offerta di una corona sulla tomba del Piscistrelli, ucciso l’anno precedente, e la pubblicazione di un numero unico intitolato: Il 1° maggio.
L’on. Nicotera, memore dei fatti dell’anno antecedente, proibì le processioni, fece sequestrare il giornale appena comparve, ordinò molti arresti e mise per cinque giorni la città quasi in istato d’assedio.
I soldati erano consegnati nelle caserme, le Banche guardate da picchetti, altri soldati stavano riuniti in alcune case in vicinanza delle porte, perché si temevano riunioni di rivoltosi fuori delle mura, e mentre drappelli di cavalleria perlustravano giorno e notte le vie suburbane, grosse pattuglie percorrevano quelle urbane.
Queste precauzioni ebbero efficacia d’impedire qualsiasi moto; ma i cittadini ancora intimoriti dal ricordo di quelli del 1891 stettero chiusi in casa e molte botteghe non si aprirono punto in tutto il giorno; Roma pareva un deserto.
Sulla tomba del Piscistrelli recaronsi le mogli dei due condannati, Latini e Avanzini, e vi deposero una corona con questa iscrizione: «Le compagne di fede un fiore una promessa». Già in primavera una folla di persone ricche, di amatori d’arte si era riunita per più giorni nelle sale del palazzo Borghese per assistere alle vendite della mobilia e delle ricche suppellettili della grande famiglia papale. In giugno i bibliofili facevano ressa nelle sale terrene, dove era stata trasportata l’importante biblioteca della famiglia di Paolo V. I locali nei quali un tempo era collocata la collezione dei quadri Borghese, affittati all’antiquario San Giorgi, accoglievano la biblioteca, che era messa in vendita dal Menozzi, e mentre nelle sale superiori si erano vedute contendere dagli acquirenti le preziose memorie della bella Paolina; qui si videro disputati i libri rari, che specialmente il dotto cardinal Scipione aveva procurati alla sua famiglia. Le due vendite furono un avvenimento non solo per Roma, ma per tutta l’Italia, e destarono maggior interesse che le pratiche fatte dal Ministero della pubblica istruzione, per mezzo del professor Venturi, per ricuperare a Parigi i quadri spariti dalla galleria Sciarra, pratiche che non ebbero nessun frutto.
In quella primavera si era costituito a Roma un comitato, del quale era presidente il principe don Alfonso Doria e segretario generale il comm. Guglielmo Castellani, per festeggiare nell’aprile successivo le nozze d’argento dei Sovrani. Il comitato aveva fatto appello al sentimento degli italiani per raccogliere somme da destinarsi a quello scopo gentile e pratico insieme. Il Re in sulle prime non si occupò di quel fatto, ma quando vide che i disegni per le feste si allargavano, mercè le numerosissime adesioni che al comitato pervenivano da ogni parte d’Italia, manifestò con un dispaccio al presidente del Consiglio l’alta volontà sua e della Regina; e questa era di non accoglier doni, di non volere che si aprissero sottoscrizioni a quello scopo.
«Se quest’anniversario della famiglia nostra, invece di esser causa d’inutili spese per festeggiamenti, sarà occasione ad atti di beneficenza, noi volentieri li seconderemo, e la carità sarà a noi testimonianza gradita di devozione e d’affetto».
Cosi scriveva il Re, e le sue parole divennero legge per il comitato e furono nuova testimonianza del nobile e benefico animo del Sovrano.
Le feste non erano mancate neppure in sul finire della primavera. La riunione di un congresso dei rappresentanti della Croce Rossa offri occasione al presidente, conte della Somaglia, di dare un ballo nel suo villino in piazza dell’Indipendenza, al quale assisterono i Sovrani, e che fu una vera festa delle rose, perchè appunto il villino era circondato da una magnifica ed esuberante fioritura di queste regine del maggio, come la ricorrenza del 70° anniversario dell’illustre archeologo cristiano Giovan Battista de Rossi, offrì campo ai numerosi cultori della scienza dell’antichità di tributargli i loro omaggi e di presentargli i loro augurii. Il busto di lui fu inaugurato a San Calisto, sulla via Appia, in quelle catacombe scoperte dal de Rossi sotto il pontificato di Pio IX; il discorso fu fatto dal dotto monsignor Carini, e il Geffroy a nome del presidente della Repubblica francese, annunziò al nostro scienziato la nomina a grande ufficiale della Legion d’Onore, e l’ambasciatore spagnuolo presso la Santa Sede, signor Vidal, gli consegnò a nome della sua Sovrana la Gran Croce d’Isabella.
Sotto la provvida amministrazione del duca Gaetani le faccende del Comune erano incamminate su una via normale, così che il Consiglio potè votare il bilancio pareggiato, che eragli stato presentato.
Come si è visto il Ministero Giolitti non aveva avuto lieta accoglienza alla Camera e la domanda dell’esercizio provvisorio era parsa, dopo il voto, abbastanza audace. Gravissima opposizione quella domanda incontrò nel seno della Giunta del bilancio, e l’on. Sonnino, che si era schierato contro il Gabinetto, propose che gli fosse accordato un solo mese.
Alla Camera il Sonnino combattè con forza anche i provvedimenti finanziari dell’on. Giolitti. Questi fece sforzi inauditi per trionfare ed ottenne ciò che chiedeva con 261 voti contro 189 contrari. Fu quella una seduta memorabile per la lotta viva che si era impegnata con l’opposizione, e per il numero veramente eccezionale di deputati che vi assistevano. Un altro trionfo aveva già ottenuto il neo-presidente del Consiglio facendo votare i provvedimenti per Roma, che assicuravano la continuazione dei lavori edilizi e davano speranze se non vaste, almeno modeste, di veder cessare la crise economica.
Per la ricorrenza dello Statuto furono in quell’anno creati tre nuovi cavalieri dell’Annunziata, cioè l’on. Farini, il generale Ricotti e l’ambasciatore conte Nigra.
Dopo la metà di giugno i Sovrani partirono per la Germania, accompagnati dalle loro case civili e militari e dal solo Ministro degli esteri, on. Brin. Essi furono ospitati dall’imperatore Guglielmo nel Nuovo Palazzo a Potsdam e il viaggio servi a rafforzare l’amicizia fra Italia e Germania, poichè il popolo italiano fu gratissimo, dell’accoglienza veramente affettuosa che i Sovrani ebbero dalla popolazione tedesca e dalla Corte.
Le elezioni amministrative parziali, che ebbero luogo in giugno, portarono nel Consiglio comunale quattordici liberali, fra cui il Crispi, e tre clericali soltanto. L’elezione del Crispi fu un atto di gratitudine per l’uomo che aveva sempre, da deputato come da presidente del Consiglio, sostenuta la necessità che l’Italia aiutasse la sua capitale, costretta appunto per la sua condizione di sede della Corte e del Governo, a spese cui non erano esposte le altre città.
Due morti rattristarono in giugno il mondo nero e il mondo bianco. Morì don Scipione Borghese, duca Salviati, capo del ramo della famiglia che porta questo titolo, e le sue esequie furono solenni per il concorso di tutto il patriziato romano, e commoventi pure perchè vi assistevano rappresentanze dei numerosi istituti di beneficenza sussidiati dalla carità esemplare del defunto duca.
In quel tempo morì pure, e non di morte naturale, il generale Filippo Cerotti, del quale ho avuto a parlare spesso nelle prime pagine di questo lavoro, per la parte che ebbe nelle pubbliche amministrazioni nei primi tempi che Roma fu restituita all’Italia. Il generale si suicidò, pare per sottrarsi alle sofferenze di una penosa malattia, nella sua casa in via Farini. Da molto tempo menava una vita ritirata e non faceva in nessun modo parlare di sé.
Il 5 luglio fu inaugurato a Tivoli, con largo invito delle autorità e di buon numero di cittadini, l’impianto per la trasmissione della luce elettrica a Roma, lavoro compiuto dall’ingegnere Guglielmo Mengarini per conto della Società del gaz, e subito furono incominciati qui i lavori per illuminare a luce elettrica la via San Nicolò da Tolentino, la via del Tritone, le piazze Colonna, Venezia e Quirinale. Le poche lampade a luce elettrica che vi erano a Roma prima di quel tempo venivano alimentate dalla forza sviluppata nello stabilimento ai Cerchi, il quale doveva continuare a funzionare anche dopo i lavori per la trasmissione da Tivoli. La distanza che corre fra le due città aveva reso difficile l’opera di trasmissione, che peraltro era riuscita bene, e la sera della inaugurazione tutta la popolazione di Roma andò a vedere l’illuminazione della villa Patrizi e di una parte del viale che conduce al Policlinico, dove appunto vi è la casina con gli accumulatori della forza elettrica. Fu una vera festa per Roma, e la popolazione vi partecipò con orgoglio, tanto più che l’opera era stata compiuta da un giovane romano, il quale gode qui molte simpatie.
La salute dell’on. Ellena, per le gravi cure impostegli dalla sua carica di ministro delle Finanze, era sensibilmente peggiorata dopo che egli faceva parte del Governo e ai primi di luglio egli dovette abbandonare il posto. Contemporaneamente all’annunzio delle dimissioni di lui, comparve il decreto che nominava l’on. Grimaldi ministro del Tesoro. Il motivo del ritiro dell’Ellena non era un pretesto; la sua fine era prossima, ed egli spirò il 20 luglio lasciando vivo rimpianto di sè fra gli amici e nel popolo italiano, che aveva fondato sull’opera del ministro grandi speranze.
La morte dell’Ellena fu la prima grande sventura del ministero Giolitti.
I funerali di lui furono veramente solenni e la chiesa di San Bernardo era affollata di autorità e di amici dell’insigne uomo. Il suo feretro spariva sotto i fiori bellissimi, ultimo tributo di simpatia e di ammirazione all’uomo mite, buono e intelligentissimo, che si era conquistato, giovane ancora, una posizione invidiata.
Tutti lo conoscevano a Roma e sapevano che non aveva nella vita che due passioni: quella per i suoi studi, non trascurati mai, e quella per i cavalli. Difatti egli, così modesto nel vivere, concedevasi il lusso di una pariglia, e si vedeva sempre, fino agli ultimi giorni in cui potè uscire, in una graziosa, ma semplice carrozza.
Il Papa, nell’estate del 1892, fece parlare abbastanza di sé. Prima inviò la rosa d’oro, per mezzo del marchese Sacchetti, alla giovane regina Amelia di Portogallo, e quel dono parve un poco prematuro, perchè la Sovrana non aveva ancora avuto tempo di estrinsecare le sue virtù; poi fece por mano alla costruzione di una nuova biblioteca per le consultazioni, e finalmente in agosto ricevè in lunga udienza Séverine, l’amica del socialista Vallès, la redattrice dei giornali parigini.
Ella era stata inviata a Roma dal Figaro appunto per ottenere una udienza particolare dal Pontefice, e scrisse e quel giornale un lungo e bellissimo racconto della conversazione avuta con Leone XIII. I giornali clericali di Roma smentirono che Sèverine fosse stata ricevuta in udienza particolare, perchè le parole del Papa avevano fatto nascere una grande diceria, ma la scrittrice sostenne la verità delle sue asserzioni e narrò come aveva ottenuto l’udienza. Il pubblico prestò fede a lei, tanto più che la lettera al Figaro era una esaltazione del Pontefice, e non una diatriba.
In quell’anno ricorreva il quarto centenario della scoperta dell’America e una squadra italiana era andata a Cadice per unirsi alle feste che si facevano in onore di Colombo, e a Genova se ne preparavano altre sontuose. La commemorazione della scoperta del continente americano cagionò a Roma disordini, perchè le società cattoliche, riunite a piazza Ricci, vollero portare un labaro marrone su cui stava scritto: «Roma cattolica a Cristoforo Colombo» per ornare il busto del grande navigatore, che vedesi al Pincio.
La processione fu accolta a fischi alla Chiesa Nuova e a Sant’Eustachio. Passando per Ripetta, dalla casa ove abitava l’avv. Ranzi, furono gettate sui dimostranti due bandiere tricolori. Essi salirono di corsa al Pincio, ma trovarono già il busto di Colombo avvolto con bandiere nazionali. Ne nacque una colluttazione e il busto rotolò per terra. Intanto la banda del municipio, che aveva accompagnato la processione, vedendo la mala parata, prese a sonare l’inno di Garibaldi. Le guardie e i carabinieri sedarono il tumulto, ma la sera, a piazza Colonna, vi fu una controdimostrazione, e si fecero alcuni arresti di anarchici.
In quel tempo il sindaco, duca di Sermoneta, che amministrava con criteri veramente onesti e illuminati la capitale, fece un viaggio a Firenze, a Torino e a Milano insieme con l’assessore de Angelis, per studiare come funzionava in quelle città il corpo dei vigili, che qui in ogni incendio che avveniva dimostravasi insufficiente e male ordinato; e al suo ritorno preparò proposte da presentarsi al Consiglio per introdurre in quel corpo una riforma.
Al Silvestrelli, come capo della amministrazione ospedaliera di Roma, succedette il comm. Colucci, già prefetto di Palermo.
In quell’autunno il Re si recò in Umbria, e precisamante a Foligno, ove si svolgevano le grandi manovre, poi inaugurò il monumento a Vittorio Emanuele a Spoleto, e quindi s’imbarco a Spezia sul «Savoia» insieme con la Regina e il Principe di Napoli, per assistere a Genova alle feste colombiane e passare in rivista le squadre di quasi tutte le potenze del mondo, riunite in quel porto per fargli omaggio. I ministri Giolitti, Saint-Bon, Martini, Brin, Bonacci, Pelloux e Finocchiaro-Aprile accompagnarono il Re, e la festa di Genova riusci l’avvenimento più importante di quell’anno, non solo per il ricevimento entusiastico che i Sovrani ebbero nella bella città ligure, ma anche; e soprattutto, per il fatto che tutti i regnanti non solo, ma anche il Presidente della Repubblica francese, affidarono agli ammiragli comandanti le rispettive squadre l’incarico di presentare a Umberto I l’espressione dei loro sentimenti amichevoli.
Dopo quelle feste i Sovrani tornarono a Monza, e il Re firmò nella sua villa il decreto di nomina del comm. Urbano Rattazzi a ministro della R. Casa in sostituzione del conte Visone, e l’altro con il quale promuoveva il Principe di Napoli a maggior generale, affidandogli il comando della brigata «Como», di stanza a Napoli
La ricorrenza del XX settembre, che fu festeggiata quell’anno molto dignitosamente dalla popolazione romana, era quella pure della fondazione dell’«Asilo Savoja» per l’Infanzia abbandonata, asilo che doveva all’on. Crispi la sua esistenza. Il Re in quel giorno elargì all’asilo 50,000 lire. Il consiglio direttivo, appena avuto l’annunzio del donativo sovrano, telegrafò a Monza esprimendo la sua gratitudine.
Per iniziativa di un comitato di cittadini era stato eretto un monumento al cardinal Massaia nella chiesa dei Cappuccini a Frascati. Lo scultore Aurelj avevalo modellato, e il coraggioso missionario era rappresentato in atto di scrivere le sue memorie, col bastone accanto, quel celebre bastone che aveva servito a tanti di salvacondotto attraverso le regioni africane. Il conte Antonelli fece una bella conferenza sull’opera del Massaia, e mezza Roma andò a Frascati per assistere alla inaugurazione.
Fino dai primi tempi del gabinetto Giolitti si parlava dello scioglimento della Camera, e i deputati, quando in estate tornarono ai loro paesi, erano sicuri della convocazione dei comizi. Ma il decreto di scioglimento si fece attendere fino al 10 ottobre. Esso era accompagnato da una relazione al Re, che si occupava quasi esclusivamente della questione finanziaria, perchè era infatti la più urgente. Si capiva da quella che al presidente del Consiglio, più che ogni altra cosa, stava a cuore il bilancio dello Stato e che faceva una questione di amor proprio del riordinamento delle finanze.
Mentre i comitati lavoravano per preparare le elezioni, a Roma scoppiò la crise municipale. All’ordine del giorno della prima seduta del Consiglio erano iscritte le dimissioni del sindaco e della Giunta. Prima che il Consiglio si adunasse, una commissione di consiglieri andò dal duca di Sermoneta per conoscere il motivo di quella determinazione. Il sindaco rispose che lo avrebbe spiegato in una lettera al Consiglio comunale.
Mentre si attendeva la famosa adunanza e si indagava sulle ragioni che avevano potuto indurre il Sindaco e la Giunta a dimettersi, fu distribuito il bilancio comunale per l’anno 1893. Esso annunziava una eccedenza di 157.000 lire, benchè il Comune rinunziasse per quell’anno alla esazione della tassa di famiglia. Naturalmente, dati questi risultati ottenuti sotto l’amministrazione oculata del duca di Sermoneta, il numero dei partigiani di lui non era diminuito, e vivo era in città il desiderio che egli serbasse il suo posto.
Alcuni consiglieri si adunarono in Campidoglio e chiesero all’assessore Cruciani-Alibrandi di conoscere quali cause avevano potuto indurre il duca e la Giunta, che gli era favorevole, a quel passo. Cruciani-Alibrandi ripetè quello che aveva già detto il Sindaco. Frattanto era corsa voce di un impegno senza limite di spesa, che il comitato per l’Esposizione intendeva che il Comune assumesse per l’Esposizione stessa, e allora prese la parola Guido Baccelli, dichiarando che il Comitato non aveva mai preteso d’impegnare il Comune di Roma in una spesa indeterminata, che ne avrebbe potuto compromettere le finanze; che solamente aveva chiesto un concorso dentro certi limiti determinati e per determinati scopi.
I consiglieri presenti a quella riunione privata, presero atto della dichiarazione dell’on. Baccelli e nominarono una commissione composta dai signori Desideri, Piperno, Carlo Santucci, Mazza e Novi per recarsi dal Sindaco a fine di pregarlo a ritirare le dimissioni. Il duca di Sermoneta non insiste nelle dimissioni e in una seconda adunanza privata di consiglieri, la commissione poteva assicurare i suoi mandatari che il Sindaco rimaneva.
Allora fu approvato il seguente ordine del giorno:
«I consiglieri raccolti in questa adunanza prendono atto con grande compiacimento delle dichiarazioni del Sindaco, che egli non presenterà le sue dimissioni, e che approvato il bilancio preventivo per il 1893, si metterà in discussione il concorso finanziario municipale all’Esposizione del 1895».
Questo concorso era lo spauracchio del Sindaco e poco opportunamente su posto nell’ordine del giorno, perchè i consiglieri presenti all’adunanza privata sapevano bene che per quel concorso appunto, che il Baccelli voleva ad ogni costo, il Sindaco e la Giunta si erano dimessi.
La prima seduta autunnale del Consiglio fu tenuta la sera del 19 ottobre, e ad essa intervenne il Crispi, il quale, dopo la elezione a consigliere, saliva per la prima volta al Campidoglio. Il Sindaco gli rivolse un saluto assai cortese, rammentando quanto aveva fatto per Roma, e il Crispi ringraziò e ripetè ciò che aveva sostenuto più volte alla Camera, cioè che riteneva non si potesse scindere l’Italia da Roma e che alla capitale dovesse provvedere tutta la Nazione.
Questo scambio di cortesie fra il duca di Sermoneta e il nuovo consigliere, servì a trattenere un momento la burrasca. La sala consiliare era piena di operai, che fondavano grandi speranze sulla esposizione, e di partigiani del Crispi. Questi erano andati per applaudire, ma gli altri avevano intenzioni diverse contro il Sindaco, che era stato dipinto loro quale acerbo nemico della esposizione.
Il duca confermò subito questa opinione, dichiarando che lui e la maggioranza della Giunta erano contrari a qualsiasi concorso del Comune alla mostra di Roma, si trattasse pure di concorso morale per mezzo dei suoi rappresentanti, o di concorso materiale per aiuto di danaro.
La seduta divenne tempestosa e si fece sgombrare l’aula. Il Crispi ebbe una dimostrazione clamorosa, ma potè uscire e allontanarsi fra la folla, che riempiva la piazza del Campidoglio, senza esser riconosciuto. Il duca di Sermoneta fu fischiato.
La crise municipale, che si credeva scongiurata, scoppiò provocata dal Baccelli.
Nonostante, tutte le speranze di far desistere il duca di Sermoneta dal suo proposito non erano perdute, e il 24 con quest’intento fu tenuta un’adunanza privata di 40 consiglieri, sotto la presidenza del Libani. Si voleva ottenere che la discussione del concorso finanziario del Comune alla esposizione di Roma fosse rimandata a dopo quella del bilancio, e che su quel concorso in massima il Sindaco non ponesse la quistione di fiducia. Dall’adunanza fu eletta la stessa commissione per indurlo ad accettare questa specie di accomodamento, ma il duca insistè nelle dimissioni, soltanto accettò di rimanere in carica durante le elezioni politiche.
La città era divisa in quel momento in due campi: metà parteggiava per Sermoneta, metà per Baccelli, e si attribuiva a quest’ultimo l’intenzione di farsi eleggere sindaco per assicurare l’esito della Esposizione, mercè il concorso del Comune, che il Sermoneta negava assolutamente per non ripiombare il bilancio comunale nelle angustie del deficit.
Il Baccelli vagheggiava anche il concorso governativo e per questo erasi fatto promotore del banchetto all’on. Giolitti al Palazzo delle Belle Arti. Il banchetto avvenne il 3 novembre, e benchè fosse stato prescritto il democratico soprabito, contrariamente all’uso invalso in siffatte riunioni, nelle quali tutti gl’intervenuti solevano vestire la giubba, pure il banchetto stesso fu servito con molta eleganza e la quota che si pagò fu di 30 lire. Vi assistevano 70 senatori e più di 100 deputati; inoltre i senatori che aderirono all’invito furono 132, e 248 i rappresentanti della disciolta Camera elettiva.
Il Baccelli nel presentare il presidente del Consiglio, lo addito come una nuova speranza e in quella presentazione non mancò di far cenno della sua idea fissa sulla Esposizione.
Il discorso del Giolitti fu piuttosto un discorso da amministratore che da uomo di Stato, ma in quel momento l’Italia era così moralmente depressa, così abbattuta dalla crise finanziaria, così timorosa, che se ne contentò, specialmente perchè il Giolitti confermava il suo proposito di voler fare economie, e una politica tutta rivolta al miglioramento delle finanze.
Il 6 novembre vi furono le elezioni generali e la lotta a Roma fu abbastanza viva. Riuscirono eletti: Ostini nel I Collegio, nel III Baccelli, nel IV Antonelli e nel V Barzilai a prima scrutinio. Nel II entrarono in ballottaggio Montenovesi e Simonetti, ma nella seconda elezione trionfò il secondo. Il maggior numero di voti in tutta Italia fu riportato dal Tittoni in Civitavecchia. Egli fu eletto con 5979 voti.
Come a Roma, così nel resto d’Italia, i candidati ministeriali erano in grande prevalenza e naturalmente si parlò d’ingerenze governative e di pasticci elettorali.
Il Crispi, invitato a parlare a Palermo, non volle farlo prima delle elezioni, scusandosi col dire che già gli elettori conoscevano le sue idee; ma lo fece il 20 novembre, e non pochi notarono che il vero discorso da uomo di Stato, che abbracciava tutta la vita pubblica del paese, era stato pronunziato non a Roma dal presidente del Consiglio, ma a Palermo dal deputato siciliano.
Terminato il periodo elettorale, il Consiglio comunale si riunì per procedere alla elezione del Sindaco e dalle urne uscì il nome di Don Emanuele Ruspoli, non quello di Guido Baccelli, come si era supposto.
Il Sindaco riportò 42 voti nel Consiglio, sopra 61.
Nel discorso per l’inaugurazione del Parlamento, il Re accennò all’omaggio che quasi tutti i rappresentanti del mondo civile gli avevano porto a Genova e alle questioni urgenti che si imponevano alla nuova Camera. Essa rielesse a suo presidente l’on. Zanardelli e cominciò i lavori.
Prima delle elezioni era comparsa una lunga lista di senatori, fra i quali figurava il nome dell’on. Zuccaro-Foresta. Il senatore Garneri, appena riaperto il Senato rivolse su quella nomina una interpellanza al Governo, ed allorchè la Camera vitalizia fu chiamata a convalidare quella nomina dette voto contrario. Quel voto, si disse, non aveva solamente lo scopo di escludere lo Zuccaro-Foresta dal Senato, ma anche l’altro di biasimare il Ministero, che aveva nominato pure il comm. Tanlongo, direttore della Banca Romana, sulla cui gestione correvano sinistre voci.
Nembi minacciosi si addensarono a un tratto sul capo del Ministero, la burrasca doveva scoppiare tremenda e mentre già soffiava intorno a lui il vento della bufera, la morte colpì il vice-ammiraglio Pacoret di Saint-Bon, l’uomo da tutti stimato per la specchiata onestà, per l’altissima intelligenza e per il valore. La marina e il paese speravano in lui, di lui erano orgogliosi; era una fulgida gloria dell’Italia, un suddito devoto della casa di Savoia, il quale era voluto rimanere italiano dopo l’annessione della Savoia alla Francia, e aveva messo al servizio del Re e della patria la mente e la spada. La sua malattia, che si annunziava con sintomi funesti, sgomentò tutti, e il Re, i Principi presenti a Roma per l’apertura del Parlamento, inviavano continuamente alla casa dell’infermo, in via Sant’Apollinare, per aver notizie; e presso il ministro della Marina si trovavano sempre molti fra i suoi colleghi del Gabinetto e una quantità di senatori e deputati di ogni partito.
Ma purtroppo le cure dei medici, i voti di tutto un popolo, non valsero a serbare al paese quella preziosa esistenza. Il vice-ammiraglio Saint-Bon spirava il 26 novembre, assistito dal fratello e dal cappellano di corte, Mattei e dal suo aiutante di bandiera, Carfora.
L’on. Brin assunse subito l’interim della marina e furono decretati al defunto solenni funerali, che ebbero luogo il giorno 29. Da tutti gli arsenali vennero squadre di marinari per assistervi oltre i comandanti di navi. Fra gli ufficiali vi era pure il duca di Genova e, quale rappresentante del Re, seguiva il feretro il conte di Torino. Ma la solennità del trasporto funebre non pote togliere ad esso l’aspetto commovente che manca a tanti trasporti ufficiali. Sul volto di quegli ufficiali che in una freddissima e radiosa giornata invernale seguivano la salma da Sant’Apollinare fino al Campo Verano, si leggeva una espressione di profondo dolore, e non v’era fra di essi chi non riandasse col pensiero a Gaeta e a Lissa e non evocasse l’opera di redenzione della giovane marina italiana iniziata dal Saint-Bon. Tutti quegli ufficiali piangevano in lui un padre severo, giusto, illuminato, e guardavano incerti l’avvenire.
La salma del ministro fu tumulata al Campo Verano e subito s’iniziò una sottoscrizione per erigergli un monumento.
Quella morte era stata una sventura non solo per la marina, ma anche per il Ministero, al quale era mancato anche l’Ellena, altra spiccata personalità, altra forza.
L’on. Brin resse brevemente il ministero della marina; al Saint-Bon fu dato per successore il vice-ammiraglio Alberto Racchia, il quale scelse a suo sottosegretario di Stato il contrammiraglio Palumbo, genovese il primo, meridionale il secondo, poichè oramai era invalso l’uso che i due rami della nostra marina fossero rappresentati al Ministero.
Appena riaperta la Camera l’on. Carlo Lochis volse una interrogazione al Presidente del Consiglio sulla esposizione di Roma, mosso dal timore che lo Stato volesse impegnarsi. L’on. Giolitti dichiarò che il Governo era favorevole a quel progetto.
Questa questione della esposizione teneva tuttavia agitata la città, e l’on. Baccelli, che prima aveva scelto la località della passeggiata Flaminia per farvi sorgere i locali necessari alla mostra, ora aveva cambiato parere ed erasi pronunziato per la passeggiata archeologica.
Era una strana idea quella di popolare la landa deserta, sulla quale spiccano qua e là i ruderi romani, di tanti padiglioni di legno e di tela; ma i partigiani della esposizione non sofisticavano sulla scelta della località e accettarono quella, come prima avevano accettato l’altra. L’on. Baccelli non solo occupavasi del luogo, ma anche dei mezzi per attuare la sua idea; prima che l’anno terminasse rivolgeva all’on. Grimaldi, ministro del tesoro la domanda che il Comitato fosse autorizzato a fare una lotteria di un milione e gli fossero concessi i maggiori proventi del dazio consumo di Roma.
Il ministro non rispose per il momento, perchè pensieri ben più gravi tormentavano il Gabinetto. Erasi impegnata alla Camera la discussione sul riordinamento bancario e minacciava guai serii. Il Ministero domandò una proroga breve, perchè con l’agitazione che si manifestava era impossibile discutere pacatamente un argomento di tanta importanza.
L’on. Colaianni lodò il Governo per il rinvio della discussione e per una accurata ispezione agli istituti di emissione, ma aggiunse che egli, più realista del Re, non si contentava della proroga di tre mesi e della ispezione tecnica; la voleva parlamentare e chiedeva un rinvio di sei mesi.
Nel corso della discussione, che durò più giorni, l’on. Colaianni fece gravi rivelazioni sulla Banca Romana. Disse che dalla ispezione Alvisi risultava mancante una obbligazione di 4 milioni e che la creazione di 19 milioni di biglietti non era notata nei verbali.
Roma si commosse davvero a quell’annunzio e vi fu un pànico generale, perchè se questo avveniva in una banca, il cui direttore godeva tanta fiducia in città, che cosa doveva avvenire nelle altre? Si previde da quella rivelazione uno sfacelo, una vera rovina.
L’on. Giolitti pose la questione di fiducia sulla inchiesta amministrativa, combattuta dal Crispi. La commissione per l’ispezione alle banche di emissione fu subito nominata. Ne era presidente il senatore Finali; il comm. Luigi Orsini, ragioniere generale dello Stato doveva far l’ispezione alla Banca Nazionale; il comm. Giacomo Regaldi, direttore generale del demanio, al Banco di Napoli; il comm. Enrico Martuscelli, segretario generale alla Corte dei conti, alla Banca Romana; il comm. Gaetano Durante, ispettore generale del debito pubblico, ai due Istituti toscani; e il comm. Giovacchino Busca, al Banco di Sicilia. L’ispezione doveva essere compiuta entro il febbraio.
Sotto l’impressione di queste gravi rivelazioni, di questi fatti dolorosi, la Camera prese le vacanze di Natale e la città commossa e trepidante, come non era mai stata e non fu più in seguito, raccoglieva le dicerie che correvano, e leggeva avidamente i giornali d’opposizione per trovarvi altre rivelazioni.
Verso la fine dell’anno il Re riceve il comitato per le nozze d’argento, composto del principe don Alfonso Doria, del principe Colonna di Sonnino, del conte Pietro Antonelli e del comm. Guglielmo Castellani. I membri del comitato esposero al Sovrano i loro intendimenti per le feste.
Anche i clericali ne preparavano per solennizzare il giubileo episcopale di Leone XIII nell’anno successivo, e dal gennaio al maggio si attendevano a Roma da 50 a 60,000 pellegrini, ma nè queste feste reali e papali, nè le onoranze al Maleschott in occasione del suo 70mo anniversario bastavano a dissipare dalla mente dei cittadini i brutti pensieri, a distrarli dalla ansia dolorosa in cui avevanli piombati le rivelazioni sulla Banca Romana, l’istituto al quale erano maggiormente legati gl’interessi della città.