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vista, segno di grande sfiducia, ed egli incolpava di quel fatto la sbagliata politica estera. Non contento di attaccare con tanta violenza il Governo, faceva una carica a fondo contro le società anonime e contro le banche di emissione, che inondavano il paese «di carta falsa». Il Presidente della Camera richiamava l’oratore all’ordine, ma era fatica sprecata, poichè già la Camera aveva fatto l’orecchio alle intemperanze di linguaggio, che avrebbero fatto fremere gli antichi uomini parlamentari, se fossero tornati a questo mondo; anzi una parte di essa, come del paese, si divertiva di veder messo ogni giorno il Governo alla berlina. Ma con la consuetudine presa di portare alla Camera ogni questioncella e di sbraitare e affannarsi per ingrandirla, ne nacque questo: che le grandi davvero vennero con quelle confuse, e non si ebbero più quelle sedute memorabili, nelle quali tutte le forze si univano per giudicare con serietà ammirevole, l’opera di un Ministero.
Il processo dei ribelli del primo maggio 1891 si fece alle Assise di Roma, nell’inverno, ma dovè esser sospeso. Gl’imputati erano 68 e la sala dei Filippini presentava uno spettacolo strano. Le autorità nutrivano serii timori che il processo desse luogo a nuove ribellioni, e per questo non lesinavano il numero dei soldati, che custodivano la sala e i dintorni. I giurati pronunziarono il verdetto loro soltanto in primavera e meno i 9 assolti, tutti gli altri ebbero condanne così lunghe che, nonostante fossero in carcere da un anno quasi, vi avrebbero passato anche il primo maggio 1892. Quel fatto calmava un poco i timori della popolazione, sgomenta dagli attentati di Londra e di Parigi, e dalla memoria viva degli avvenimenti di Santa Croce in Gerusalemme, perché riteneva che fra i condannati vi fossero non tutti, ma molti dei capi del terribile partito della distruzione.
Un disegno di legge sulle Banche fu presentato alla Camera. Se ne sentiva il bisogno; e l’onorevole Imbriani non aveva esagerato tanto dicendo che inondavano di carta falsa il paese. Il disegno di legge tendeva a consolidare gl’istituti esistenti, ma nello stesso tempo porreva limiti e norme alla circolazione.
Il corpo diplomatico subì in quella primavera molti cambiamenti. Richiamato Lord Dufferin, al quale la Corte fu larga di cortesie, venne a Roma Lord Vivian come ambasciatore della Regina Vittoria; il Sultano mandò a reggere l’Ambasciata S. E. Mahmud Nedim-bey al posto di Zia-bey e il Governo del Brasile accredito qui come Ministro il signor Teffé.
I primi due riceverono ufficialmente in aprile: Lord Vivian all’Ambasciata inglese; Mahmud nel villino in via Palestro; il signor Teffé prese dopo in affitto il villino De Renzis, in piazza dell’Indipendenza, ma intanto meravigliava Roma con la ricchezza dei suoi equipaggi.
Oltre questi ambasciatori vennero a Roma in primavera il duca e la duchessa di Fife, il principe Giorgio di Svezia, i duchi di Sassonia-Weimar e il conte di Torino, il quale incominciò a frequentare la società romana. Il primo invito che accettò fu quello per un pranzo dalla principessa Potenziani, e poi andò sempre ovunque si ballava, o vi erano riunioni eleganti, dimostrando un grandissimo desiderio di divertirsi.
Il conte piacque molto a Roma per le sue maniere franche, per il nessun sussiego, ed egli vi stava volentierissimo. Aveva per primo aiutante di campo il conte Mario di Robilant, maggiore di Stato maggiore, il quale sposò la contessina Daisy Francesetti. Il matrimonio religioso fu celebrato nella chiesa del Sudario tutta ornata di fiori e gremita di dame. La giovane sposa, che era stata tenuta a battesimo dalla Regina, ebbe da lei un ricco dono. Ma quel matrimonio era stato preceduto e fu seguito da altri non meno eleganti. La baronessina Tatpheous aveva sposato il conte Pecori, ufficiale distinto; la contessina Caprara il figlio dell’ambasciatore di Portogallo presso il