Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 472 — |
Borghese, duca Salviati, capo del ramo della famiglia che porta questo titolo, e le sue esequie furono solenni per il concorso di tutto il patriziato romano, e commoventi pure perchè vi assistevano rappresentanze dei numerosi istituti di beneficenza sussidiati dalla carità esemplare del defunto duca.
In quel tempo morì pure, e non di morte naturale, il generale Filippo Cerotti, del quale ho avuto a parlare spesso nelle prime pagine di questo lavoro, per la parte che ebbe nelle pubbliche amministrazioni nei primi tempi che Roma fu restituita all’Italia. Il generale si suicidò, pare per sottrarsi alle sofferenze di una penosa malattia, nella sua casa in via Farini. Da molto tempo menava una vita ritirata e non faceva in nessun modo parlare di sé.
Il 5 luglio fu inaugurato a Tivoli, con largo invito delle autorità e di buon numero di cittadini, l’impianto per la trasmissione della luce elettrica a Roma, lavoro compiuto dall’ingegnere Guglielmo Mengarini per conto della Società del gaz, e subito furono incominciati qui i lavori per illuminare a luce elettrica la via San Nicolò da Tolentino, la via del Tritone, le piazze Colonna, Venezia e Quirinale. Le poche lampade a luce elettrica che vi erano a Roma prima di quel tempo venivano alimentate dalla forza sviluppata nello stabilimento ai Cerchi, il quale doveva continuare a funzionare anche dopo i lavori per la trasmissione da Tivoli. La distanza che corre fra le due città aveva reso difficile l’opera di trasmissione, che peraltro era riuscita bene, e la sera della inaugurazione tutta la popolazione di Roma andò a vedere l’illuminazione della villa Patrizi e di una parte del viale che conduce al Policlinico, dove appunto vi è la casina con gli accumulatori della forza elettrica. Fu una vera festa per Roma, e la popolazione vi partecipò con orgoglio, tanto più che l’opera era stata compiuta da un giovane romano, il quale gode qui molte simpatie.
La salute dell’on. Ellena, per le gravi cure impostegli dalla sua carica di ministro delle Finanze, era sensibilmente peggiorata dopo che egli faceva parte del Governo e ai primi di luglio egli dovette abbandonare il posto. Contemporaneamente all’annunzio delle dimissioni di lui, comparve il decreto che nominava l’on. Grimaldi ministro del Tesoro. Il motivo del ritiro dell’Ellena non era un pretesto; la sua fine era prossima, ed egli spirò il 20 luglio lasciando vivo rimpianto di sè fra gli amici e nel popolo italiano, che aveva fondato sull’opera del ministro grandi speranze.
La morte dell’Ellena fu la prima grande sventura del ministero Giolitti.
I funerali di lui furono veramente solenni e la chiesa di San Bernardo era affollata di autorità e di amici dell’insigne uomo. Il suo feretro spariva sotto i fiori bellissimi, ultimo tributo di simpatia e di ammirazione all’uomo mite, buono e intelligentissimo, che si era conquistato, giovane ancora, una posizione invidiata.
Tutti lo conoscevano a Roma e sapevano che non aveva nella vita che due passioni: quella per i suoi studi, non trascurati mai, e quella per i cavalli. Difatti egli, così modesto nel vivere, concedevasi il lusso di una pariglia, e si vedeva sempre, fino agli ultimi giorni in cui potè uscire, in una graziosa, ma semplice carrozza.
Il Papa, nell’estate del 1892, fece parlare abbastanza di sé. Prima inviò la rosa d’oro, per mezzo del marchese Sacchetti, alla giovane regina Amelia di Portogallo, e quel dono parve un poco prematuro, perchè la Sovrana non aveva ancora avuto tempo di estrinsecare le sue virtù; poi fece por mano alla costruzione di una nuova biblioteca per le consultazioni, e finalmente in agosto ricevè in lunga udienza Séverine, l’amica del socialista Vallès, la redattrice dei giornali parigini.
Ella era stata inviata a Roma dal Figaro appunto per ottenere una udienza particolare dal Pontefice, e scrisse e quel giornale un lungo e bellissimo racconto della conversazione avuta con Leone XIII.