Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/476


— 464 —

Taverna sulla alleanza dell’Italia con la Germania. È un fatto che appena si lesse nel Popolo Romano il sunto di quel colloquio telegrafato da Berlino, le dichiarazioni del nuovo ambasciatore destarono meraviglia e l’Imbriani, che non lasciava mai in pace i ministri, rivolse al Presidente del Consiglio una interrogazione alla Camera.

Il Rudinì rispose, col Popolo Romano alla mano, che non bisognava prestar fede ai corrispondenti, i quali essendo uomini politici, ampliano e svisano, e negò recisamente che l’Italia fosse obbligata dalle alleanze a prestar man forte ai due imperi nel caso di una guerra, come dal sunto telegrafico del colloquio pareva avesse ammesso il nuovo ambasciatore. Il Presidente del Consiglio continuando a negare battè un pugno sul banco e l’Imbriani gli disse: «Eh! per un pugno siete divenuto Presidente del Consiglio e continuate a batterli!»

Nonostante l’interrogazione, la nomina del conte Taverna comparve nella Gazzetta Ufficiale, ma egli non andò a Berlino, si vuole per le dolci insistenze della contessa Lavinia, alla quale doleva di abbandonare Roma e la dolce intimità della vita di famiglia.

Dopo che la Camera e il Senato ebbero votato la legge sugli infortunii sul lavoro, fu presentata quella sui provvedimenti ferroviari. Scopo di quel disegno di legge era di mettere le spese per le costruzioni ferroviarie in giusto rapporto con le condizioni del tesoro e delle finanze. Stabiliva una spesa di 180 milioni per le costruzioni ferroviarie del quinquennio in ragione di 30 milioni nei due primi esercizi e di 40 negli altri tre. Però gl’impegni passati portavano per il quinquennio la spesa a quasi 120 milioni annui. La discussione fu lunghissima, ma la Camera vi prendeva poco interesse ed era quasi sempre spopolata. Quando si venne al voto l’on. Crispi dichiarò che non avrebbe dato il suo perchè la legge nuova non era di alcuna utilità all’erario, e non giovava punto alle popolazioni. Egli aggiunse che sul problema ferroviario bisognava tornar presto, che la legge del 1879 era stato la vera carie dell’erario ed aveva arricchito i costruttori. Durante la votazione l’ex-presidente del Consiglio si alzò e molti deputati lo imitarono.

Il Ministero già da un pezzo navigava in cattive acque, ma ebbe un altro colpo dalla relazione dell’on. Cadolini sull’esercizio del 1891-92, che rilevava come l’avanzo dei 4 milioni fosse una illusione e invece vi fosse un disavanzo maggiore di 11.

Il 17 febbraio l’on. Rudinì dovette riconoscere alla Camera che il disavanzo, anche nel bilancio di previsione esisteva, che i calcoli erano stati sbagliati. Disse che era dai 20 ai 30 milioni e rammentando che nel 1888-89 saliva a 400, riuscì ad avere un voto di fiducia.

L’on. Imbriani, che su tutto prendeva la parola e spesso intralciava le discussioni ora a proposito della nomina di un sindaco, ora per altre quisquilie, interrogò il Ministro dell’interno sul sequestro di una corona posta dai repubblicani milanesi sul busto di Mazzini, e dopo aver presentata la interrogazione aggiunse:

«Voglio vedere come se la caverà il ministro dell’Interno, il quale porta in dito un anello regalatogli da Mazzini».

Il Nicotera rispose che era un anello di sua madre e che non voleva rispondere, e allora l’Imbriani si diede a gridare:

«Non risponde, perchè non sa che cosa rispondere. Avrei parole roventi da dire al signor Nicotera, non all’uomo, ma al Ministro; gliele dirò fuori di qui.

Questa scena avveniva il 10 marzo. Il 21 l’on. Imbriani faceva notare alla Camera che la rendita italiana precipitava a Berlino, dove erano «i nostri alleati». I pagamenti si chiedevano a