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Il 6 novembre vi furono le elezioni generali e la lotta a Roma fu abbastanza viva. Riuscirono eletti: Ostini nel I Collegio, nel III Baccelli, nel IV Antonelli e nel V Barzilai a prima scrutinio. Nel II entrarono in ballottaggio Montenovesi e Simonetti, ma nella seconda elezione trionfò il secondo. Il maggior numero di voti in tutta Italia fu riportato dal Tittoni in Civitavecchia. Egli fu eletto con 5979 voti.

Come a Roma, così nel resto d’Italia, i candidati ministeriali erano in grande prevalenza e naturalmente si parlò d’ingerenze governative e di pasticci elettorali.

Il Crispi, invitato a parlare a Palermo, non volle farlo prima delle elezioni, scusandosi col dire che già gli elettori conoscevano le sue idee; ma lo fece il 20 novembre, e non pochi notarono che il vero discorso da uomo di Stato, che abbracciava tutta la vita pubblica del paese, era stato pronunziato non a Roma dal presidente del Consiglio, ma a Palermo dal deputato siciliano.

Terminato il periodo elettorale, il Consiglio comunale si riunì per procedere alla elezione del Sindaco e dalle urne uscì il nome di Don Emanuele Ruspoli, non quello di Guido Baccelli, come si era supposto.

Il Sindaco riportò 42 voti nel Consiglio, sopra 61.

Nel discorso per l’inaugurazione del Parlamento, il Re accennò all’omaggio che quasi tutti i rappresentanti del mondo civile gli avevano porto a Genova e alle questioni urgenti che si imponevano alla nuova Camera. Essa rielesse a suo presidente l’on. Zanardelli e cominciò i lavori.

Prima delle elezioni era comparsa una lunga lista di senatori, fra i quali figurava il nome dell’on. Zuccaro-Foresta. Il senatore Garneri, appena riaperto il Senato rivolse su quella nomina una interpellanza al Governo, ed allorchè la Camera vitalizia fu chiamata a convalidare quella nomina dette voto contrario. Quel voto, si disse, non aveva solamente lo scopo di escludere lo Zuccaro-Foresta dal Senato, ma anche l’altro di biasimare il Ministero, che aveva nominato pure il comm. Tanlongo, direttore della Banca Romana, sulla cui gestione correvano sinistre voci.

Nembi minacciosi si addensarono a un tratto sul capo del Ministero, la burrasca doveva scoppiare tremenda e mentre già soffiava intorno a lui il vento della bufera, la morte colpì il vice-ammiraglio Pacoret di Saint-Bon, l’uomo da tutti stimato per la specchiata onestà, per l’altissima intelligenza e per il valore. La marina e il paese speravano in lui, di lui erano orgogliosi; era una fulgida gloria dell’Italia, un suddito devoto della casa di Savoia, il quale era voluto rimanere italiano dopo l’annessione della Savoia alla Francia, e aveva messo al servizio del Re e della patria la mente e la spada. La sua malattia, che si annunziava con sintomi funesti, sgomentò tutti, e il Re, i Principi presenti a Roma per l’apertura del Parlamento, inviavano continuamente alla casa dell’infermo, in via Sant’Apollinare, per aver notizie; e presso il ministro della Marina si trovavano sempre molti fra i suoi colleghi del Gabinetto e una quantità di senatori e deputati di ogni partito.

Ma purtroppo le cure dei medici, i voti di tutto un popolo, non valsero a serbare al paese quella preziosa esistenza. Il vice-ammiraglio Saint-Bon spirava il 26 novembre, assistito dal fratello e dal cappellano di corte, Mattei e dal suo aiutante di bandiera, Carfora.

L’on. Brin assunse subito l’interim della marina e furono decretati al defunto solenni funerali, che ebbero luogo il giorno 29. Da tutti gli arsenali vennero squadre di marinari per assistervi oltre i comandanti di navi. Fra gli ufficiali vi era pure il duca di Genova e, quale rappresentante del Re, seguiva il feretro il conte di Torino. Ma la solennità del trasporto funebre non pote togliere ad esso l’aspetto commovente che manca a tanti trasporti ufficiali. Sul volto di quegli ufficiali che in una freddissima e radiosa giornata invernale seguivano la salma da Sant’Apollinare fino