Roma italiana, 1870-1895/Il 1890
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Il 1890.
Le disgrazie non vanno mai sole, dice un proverbio più che popolare; e il principio del 1890 potrebbe essere una nuova e triste illustrazione di questo detto. I lutti successero ai lutti con una rapidità spaventosa, e l’Italia si vide orbata da buoni amici e da cari figli.
Il 7 gennaio una doppia morte venne ad addolorare la Corte: a Berlino, nel castello imperiale, circondata da tre generazioni, moriva S. M. l’Imperatrice Augusta, vedova del glorioso Guglielmo I; a Roma nel palazzo del Quirinale si spengeva un fedele servo della Dinastia, il general Pasi, primo aiutante di S. M. il Re. Per la morte dell’Imperatrice Augusta la Corte prese un lutto ufficiale di 30 giorni; la perdita del Pasi fu un profondo dolore per i Sovrani, che sapevano di potere fermamente contare su quel coraggioso soldato, della cui fedeltà avevano avuto prove non dubbie.
Il 17 spirava pure il marchese Origo, gran scudiere di S. M. il Re, e questa nuova perdita venne a rendere più profondo il dolore della Corte, che giustamente apprezzava il nobile defunto.
Il 18 si sparsero per la città notizie allarmanti sullo stato di salute di S. A. R. Amedeo d’Aosta, e la partenza improvvisa del Re per Torino venne a confermarle ed aumentare l’ansia del popolo, che temeva di perdere un caro principe. La sera del 18 a tardissima ora si sparse la nuova della morte del Duca, pochi però la seppero, e la mattina la maggioranza della popolazione si destò piena di speranza che il Principe potesse resistere al male: ma le bandiere a mezz’asta che sventolavano in cima agli edifici pubblici, tolsero ogni illusione, e Roma, e l’Italia piansero quel prode e generoso fratello del Re.
Il Principe reale che era partito per Napoli dopo aver rappresentato il Re ai funerali del general Pasi, e che si era imbarcato sull’Arabia della Navigazione Generale Italiana per intraprendere un viaggio d’istruzione in Oriente, riceveva a Messina un telegramma, che lo richiamava d’urgenza alla capitale ove giunse il 19, e donde partì il 20 per Torino insieme con la Regina, affranta da questo nuovo e più terribile dolore.
La Camera e il Senato si riaprirono il 20, e solennemente commemorarono l’augusto defunto, e, mandando sincere e profonde condoglianze ai Sovrani, presero un lutto di 15 giorni.
Il 18 era pure morto un fedele amico dell’Italia S. E. il signor Mariani, ambasciatore della Repubblica francese presso il Quirinale. L’Italia non potette sentire in tutta la sua grandezza la perdita che faceva, dolorosamente preoccupata com’era, ma molte volte ha poi pianto quell’amico fedele, che lavorò sempre per riavvicinare due paesi, che gli erano egualmente cari.
Dopo i funerali del Duca, i Sovrani tornarono a Roma, e, a malgrado dell’ora e del tempo, alcune centinaia di persone li attendevano sul piazzale della Stazione e, con una silenziosa e solenne dimostrazione, mostravano loro ancora una volta, come ogni lutto della Famiglia Reale fosse un lutto per il popolo; e, il 10 febbraio, l’on. Biancheri confermava con la sua parola, questi sentimenti, presentando al Re le condoglianze della Camera.
L’on. Presidente della Camera disse a Umberto I:
- «Sire,
«Di fronte a sventure come questa, che vi ha percosso, qualunque tempra di principe, per quanto robusta, ne rimarrebbe fiaccata, se non si sentisse, come Voi vi sentite, circondata dall’affetto di tutto il Vostro popolo. Un affetto così fortemente radicato nei petti italiani è diventato per la Nazione una necessità della propria vita. Un affetto che ogni giorno cresce e stringe intorno al Vostro trono perchè ogni giorno Voi vi rivelate ai nostri occhi fornito d’una nuova virtù.
«E noi oggi c’inchiniamo riverenti davanti al vostro nuovissimo lutto, superbi ancora una volta d’affermarvi che non sarà giammai a Umberto di Savoia cui possa mancare l’affetto e il conforto del popolo italiano se tutta quanta la missione del Suo regno altro non è che un sublime e costante apostolato di giustizia, di carità e d’amore».
Il Re ringraziò commosso il Biancheri per le sue parole piene di affetto, e il Presidente riferì alla Camera l’esito della sua missione.
Il giorno 8 febbraio il Crispi pronunziò alla Camera un discorso sugli obblighi che il Governo aveva di eccitare lo sviluppo edilizio di Roma. Quel discorso, era quasi la ripetizione di quello del 1881, quando trattavasi del primo concorso governativo per la capitale; io qui lo riferisco in parte, e in parte riassumo:
«Noi a Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città, e, guardando quest’aula, dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che dopo 20 anni siamo sempre nella stessa casa di legno, coperta di tela e di carta, come se stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato».
Disse che si sentiva umiliato quando per una seduta reale vedeva sfare il seggio presidenziale per costruire un trono «perché il trono come lo Stato devono essere saldi e sempre, tali».
«Girando il mondo, o signori, e visitando i principali Stati del continente non ho mai sentito dire che gli edifici nazionali: il Parlamento, il palazzo di Giustizia, gli Istituti scientifici, tutto ciò insomma che interessa la Nazione, debbano esser fatti a spese della città, che ne fu scelta a capitale».
Additò l’esempio degli Americani, che al termine della guerra coll’Inghilterra, si trovarono IL MONUMENTO A GIUSEPPE GARIBALDI
senza denari, e, che per dare una soluzione alla lotta tra New-York e Filadelfia, le quali aspiravano alla capitalità, dissero: «Fabbrichiamo una nuova città». Ed ecco sorgere Washington con i denari della nazione».
Parlò del Sella notando che il sistema di lui perseguitava l’Italia e specialmente quella legge del 1864, che toglieva ai Comuni i dazi di consumo. Rispose colle cifre alle cifre dei suoi avversari, che dicevano che quel che egli voleva fare a favore di Roma sarebbe dannoso ai piccoli Comuni, «che si sacrificavano le città alle campagne» perché a queste non bastano i dazi di consumo e aggiunse:
«Ora è egli possibile che noi, dopo 20 anni, dobbiamo ancora discutere sul modo di costruire edifici nazionali per mettere realmente radice a Roma? Ma questa in cui siamo non è dunque la nostra casa? E mentre il Papa abita pomposamente, con un lusso orientale, palazzi stupendi, la Grande Maestà d’Italia deve adagiarsi in un cortile».
Il Presidente del Consiglio disse inoltre che il Comune nel quale risiede la capitale ha doveri che non hanno gli altri, ed è necessario che il Governo gli accordi diritti corrispondenti a questi doveri. Presentò come modello l’ordinamento di Londra e della utilità del local governement board che rende annualmente conto del suo operato alla Camera, e così i lavori di Londra sono votati dal Parlamento.
Dimostrò il Crispi che in Italia non poteva avvenire l’accentramento alla capitale della vita della nazione per la breve distanza che corre tra una città e l’altra, e come del resto questo accentramento sarebbe impossibile perché le altre città illustri quanto Roma si ribellerebbero. Pregò che si lasciassero le ubbie, che non si pensasse alle gare municipali, perché «il paese ha maggior buonsenso di quanto non crediate» e avrebbe compresa la necessità dei provvedimenti a favore di Roma.
«Più ci allontaniamo dai giorni della grande rivoluzione, e più gli animi diventano gelidi e meschini, quasi antipatriottici. Ritorniamo alle nostre origini, a quei concetti, a quelle grandi idee, senza le quali non avremmo mai atterrato i sette principi, non avremmo atterrato il Papato e non saremmo a Roma!»
Il 28 furono presentati alcuni documenti sull’Africa riguardanti l’occupazione di Keren e dell’Asmara.
Il primo documento che portava la data dell’8 ottobre 1889, era un telegramma del Crispi all’Antonelli, nel quale confermava l’accordo preso affinchè le truppe, appena Menelik avesse impegnata la lotta con Johannes, si spingessero fino all’Asmara e al Gura.
Il Crispi appoggiava l’Antonelli sollecitando la spedizione, ma il ministro della guerra opponeva mille difficoltà e diceva che erano necessari per organizzar la spedizione 100 milioni, 25,000 uomini e tre mesi di tempo. Ma il Presidente del Consiglio tenne duro e il Bertolè Viale finì per cedere. Chiesto il parere del Baldissera, diede l’ordine della marcia. Il 26 gennaio, il ministro della guerra ordinava la sospensione della spedizione, visto che il Negus era vincitore, e il Crispi disapprovava, ma il suo collega rimaneva irremovibile. Intanto in Abissinia si succedevano fatti che pareva dovessero aprire la via dell’altipiano agli italiani: Debeb, perdonato, prendeva le armi, sconfiggeva alcuni capi e occupava l’Asmara, mentre il Barambas Kafel muoveva su Keren. A Roma continuavano le incertezze e la lotta fra i due ministri, lotta che non cessava neppure alla morte di Johannes, e così passavano senza nulla di notevole aprile e la metà di maggio. A questo punto il Baldissera era avvertito del tradimento di Debeb, e reclamava allora l’immediata occupazione, e, ricevutone il consenso, marciava su Keren, ove giungeva il 2 giugno. Il 26, in seguito a continue insistenze del ministro degli esteri, il Baldissera riceveva l’ordine di occupare l’Asmara, ma la marcia fu ritardata per il tradimento del quale fu vittima Debeb, e non fu ripresa altro che il 30: il 3 agosto le truppe entravano nell’Asmara.
Il 4 marzo l’on. Crispi presentò un secondo Libro verde sull’Africa contenente 236 documenti narranti le relazioni corse fra l’Italia e l’Abissinia dal 15 gennaio 1857, quando era al governo il Conte di Cavour, al 29 novembre 1889, data della ratificazione del trattato d’Ucciali. Il 5 marzo ne fu cominciata la discussione alla Camera. L’on. Franchetti parlò della colonizzazione e della fertilità dell’altipiano, l’on. De Zerbi, difendendo il Governo, disse che Massaua diventerebbe il centro del commercio del Sudan. Parlarono l’on. Martini, il Toscanelli ed altri, ed ultimo degli oratori fu l’on. Sidney Sonnino che con un elegante e brioso discorso, lodò l’opera del Governo, dicendo che parlava perché tra tanti biasimi risuonasse una voce lieta dei resultati ottenuti dall’Italia da un anno. Parlo della necessità di rivolgere l’emigrazione verso le nuove terre, disse che non era serio fare tanti piagnistei e jettature sopra ipotesi di pericoli simili a quelli di tutte le potenze colonizzatrici, riconobbe l’utilità del commercio col Sudan e terminò con una lode al Crispi.
Il Bertolè Viale si alzò per dire che i dissensi fra lui e il Presidente non furono mai gravi, e perciò egli era ancora al suo posto.
Il Crispi parlò pure di quell’impresa «che, sbollite le passioni ed esaminata con calma, sarà considerata come una delle maggiori glorie del paese». Disse che al punto al quale era l’impresa, fatta allo scopo di aprire uno sbocco all’emigrazione italiana, erano incomprensibili le opposizioni «e dalla fortezza del carattere italiano, dalla coerenza del Parlamento, si aspettava un voto di fiducia».
L’on. Menotti Garibaldi propose un ordine del giorno di lode, che la Camera approvò con 190 si contro 55 no.
Il figlio di Garibaldi fu molto biasimato per quella proposta, perché dalle file del partito avanzato veniva mossa una critica acerba per l’operato del Governo, e specialmente per la recente marcia dell’Orero su Adua, che aveva poi affidata al degiac Sebbat, e per aver dato assetto con decreto reale al governo dell’Eritrea, creando un governatore civile e militare, tre consiglieri parificati al grado di prefetti; uno per l’interno, l’altro per le finanze e il terzo per i lavori pubblici, al quale erano pure attribuiti gli affari commerciali e le trattative politiche con l’Etiopia. Il governatore dipendeva per gli affari civili dal ministero degli esteri, e per quelli militari dal ministero della guerra.
L’on. Menotti Garibaldi seccato dalla guerra che gli si faceva, dette le dimissioni da deputato. La Camera le respinse, ma egli volle mantenerle, e così fu dichiarato vacante un seggio nel secondo collegio di Roma.
Le cose locali andavano di male in peggio. Il Governo aveva sciolto l’amministrazione della Congregazione di Carità, della quale era presidente il duca Torlonia, e aveva nominato un commissario regio nella persona del comm. Ferro-Luzzi, consigliere di cassazione. La fuga del cassiere Baldacchini, il quale aveva lasciato un ingente vuoto di cassa, aveva provocato quella misura. Era fuggito anche il Ficatelli, economo dei Lincei e impiegato comunale, portandosi via una bella somma, destinata in parte ai vincitori dei concorsi indetti dal dotto Istituto. Contro gl’impiegati comunali, il consigliere avvocato Gallini lanciò serie accuse in Consiglio, e la Giunta si accinse a fare una inchiesta sul personale capitolino.
Quella ordinata dal Governo sulla amministrazione comunale, e della quale facevano parte il senatore Inghilleri, i prefetti Guala e Winspeare, e il comm. Bertarelli, aveva lavorato tre mesi e presentò nel febbraio la sua relazione all’on. Crispi. In seguito a quella relazione era stato chiamato da Bologna il comm. Bordoni per riordinare l’ufficio di ragioneria.
Il Sindaco Armellini, e la Giunta comunale nel compilare sulla fine dell’anno precedente il bilancio, erano partiti dal concetto che l’aiuto del Governo dovesse consistere nella estinzione del debito dei 150 milioni, e nella continuazione dei lavori per il piano regolatore, rilasciando al Comune di provvedere alla parte ordinaria del bilancio, che già presentava un deficit di 2,805,533, dovuta in parte alle sempre crescenti spese per i pubblici servizi e alla diminuzione dell’entrate del dazio consumo. Così non intendeva il Presidente del Consiglio; egli voleva una divisione fra i lavori di utilità municipale e quelli di utilità per lo Stato, e quando questi lavori avevano un duplice carattere voleva che a questi concorressero Stato e Comune. All’Armellini, che avevagli scritto una lettera molto generica chiedendogli che il Governo prendesse una risoluzione, rispose in questo senso.
La Giunta aveva già date le dimissioni, ma chiese la pubblicazione delle lettere fra l’Armellini e il Presidente del Consiglio.
Intanto l’on. Crispi aveva nominata una commissione composta dei senatori Ferraris, Valzecchi e del comm. Bertarelli per classificare le opere da terminarsi e da iniziarsi. Il 7 aprile, quando l’Armellini comunicò in Consiglio le due lettere, dovette confessare che la nomina della commissione era stata fatta ad insaputa del municipio; questo procedimento poco cortese valse forse a lui e alla Giunta un voto di fiducia del Consiglio.
Alla crise finanziaria veniva per conseguenza ad aggiungersi a Roma quella economica per la sospensione dei lavori municipali ed il disagio era grande, e infinito il numero degli operai disoccupati. Molti si facevano rimpatriare, ma quelli che avevano posto radici qui, che si erano creati una famiglia, rimanevano e soffrivano. Fra tanta miseria trovavano un propizio terreno di cultura le teorie sovversive, e gli operai che stavano a stomaco vuoto riuniti negli stanzoni delle case non finite sulla via di San Lorenzo, fuori di Porta Pia, o in Prati, ascoltavano volentieri la lettura degli scritti del Malatesta o di altri promettenti un’èra di rivendicazione e di eguaglianza sociale.
Era terminato, dopo un lungo dibattimento, il processo contro i 32 imputati per i fatti del giorno 8 febbraio 1889, con l’assoluzione di 29 fra essi; tre erano stati condannati a pene minime, computato il carcere sofferto, cioè Gnocchetti, Costantini ed Eustachi, cosicchè essi pure furono rimessi in libertà, e questi stessi ed altri comparvero al comizio dei disoccupati, che fu tenuto nel quartiere dei pompieri alla Cernaia, presenti 100 carabinieri, 100 guardie di pubblica sicurezza e un battaglione di soldati. Uno degli oratori, certo de Santis, concluse il suo discorso dicendo: «Crispi, ex-rivoluzionario, ha detto che in Italia non ci sono più rivoluzionari veri, mostriamogli che ha torto. L’unico mezzo che ci rimane è di prendere le armi».
A queste parole si avanzarono i delegati e sciolsero il comizio. Il de Santis fu arrestato e i disoccupati si riunirono nella sala dei Reduci, deliberando «di fondare una vasta associazione che riunisca tutti i lavoratori di qualsiasi mestiere o professione, mediante la quale, assieme agli sfruttati del mondo intero, potremo abbattere tutti i privilegi, ed emanciparci dalla schiavitù capitalistica di un falso ordinamento sociale».
Questo era parlar chiaro, e le tenebre minacciose si addensavano sempre più su Roma.
Un solo raggio confortatore era venuto fra tanta rovina e tante miserie a rialzare gli animi; Augusto Silvestrelli dal 1886 era riuscito a portar le rendite dell’ospedale di S. Spirito da 63,000 lire a 600,000. Il Consiglio comunale gli votò una mozione per l’opera sua intelligente e benefica.
Il Governo era impensierito dello stato di Roma, e da molte parti venivagli il suggerimento di addossarsene l’amministrazione, ma l’on. Crispi, che prima aveva vagheggiata l’idea della Prefettura del Tevere, pareva l’avesse abbandonata. Però cercava di rialzare le sorti di Roma, e aveva dato ordine che si riprendessero i lavori delle fortificazioni per la somma di 2,500,000 lire.
Questi erano palliativi, e il male si era che la crisi non era circoscritta alla capitale, e con essa si propagava il germe del socialismo e della anarchia, che costringeva il Governo a prevenire i mali, e una volta avvenuti a reprimerli con misure energiche. Queste poi davano sempre luogo a interpellanze alla Camera.
La nuova legge comunale e provinciale, applicata fino dal 1889, aveva fatto cadere alcune amministrazioni comunali nelle mani dei partiti estremi e il Governo era costretto a scioglierle. Dopo lo scioglimento dei Consigli comunali di Terni e Coppara per la commemorazione dell’Oberdank furono presentate interpellanze al Presidente del Consiglio dagli on. Ettore Ferrari ed Imbriani. Questi attaccò vivacemente il Crispi per quello scioglimento e per la proibizione di commemorare Mazzini a Livorno; il Crispi, offeso, uscì dall’aula di Montecitorio. L’atto del Presidente dei Consiglio era un biasimo per la poca energia con cui il Biancheri aveva diretta la discussione. Il Presidente così lo interpretò e si dimise. La lettera con cui annunziava le dimissioni fu letta dal vice-presidente di Rudinì. Il Crispi subito si alzò pregando la Camera di non accettarle; gli on. Imbriani e Mordini si associarono a quella proposta, e la Camera respinse la proposta all’unanimità. Al ricomparire del Biancheri nell’aula, il giorno successivo, venne accolto da così lunghi applausi, che lo indussero a ringraziare la Camera per la benevolenza dimostratagli.
Dopo la morte del Duca d’Aosta la Camera e il Senato votarono che l’appannaggio del defunto Principe fosse continuato al figlio Emanuele Filiberto, che lasciando il titolo di Duca delle Puglie, aveva preso quello portato dal padre. Il nuovo Duca d’Aosta, avendo raggiunto la maggiore età, fu creato senatore, e il presidente Farini gli partecipò questa nomina.
La Camera aveva voluto onorare la memoria di Benedetto Cairoli votando 30,000 lire per un sepolcreto destinato a lui e ai prodi fratelli da erigersi a Groppello, e dopo approvava la spesa di 100,000 lire per il monumento a Mazzini a Roma. Per il sepolcro del Cairoli, il Re, che aveva inviato già 60,000 lire ai poveri di Torino dopo la morte dell’amato fratello, concorse per 10,000 lire.
Nonostante le interpellanze molto frequenti la Camera lavorò indefessamente. Essa discusse e approvò la modificazione sulla circoscrizione giudiziaria, che aboliva molte preture, il progetto di legge sulle promozioni della magistratura, approvò pure 4,610,000 lire per saldo di maggiori spese già fatte per l’Africa, il reparto del numero dei deputati reso necessario dall’aumento della popolazione, e l’estensione delle leggi del Regno alla Colonia Eritrea. Discusse e votò pure la creazione del nuovo titolo di rendita per pagare le spese delle costruzioni ferroviarie, il nuovo credito di 10,600,000 lire per le spese dell’esercito e di 5,000,000 per quelle della marina, e 17 milioni e mezzo per la polvere senza fumo. Il Governo, su tutte queste proposte di legge, aveva sempre una bella maggioranza, e i voti contrari oscillavano fra 48 e 53, segno certo che non aumentava l’opposizione con le defezioni nel partito ministeriale.
In quell’anno festeggiavasi il centenario della brigata Aosta. Una deputazione di ufficiali, guidata dal generale Mocenni, che al corona sulla tomba del Gran Re, e andò al Quirinale. Umberto l’accolse con quella cordialità che usa ogni volta che egli trovasi insieme con militari, e le offrì un pranzo.
Il deputato Francesco de Renzis, nominato ministro d’Italia presso il Re dei Belgi, presentò le dimissioni alla Camera; qui giunsero due nuovi ambasciatori e presentarono le loro credenziali; il primo fu Zia-Bey, ambasciatore di Turchia, il secondo il signor Billot che veniva a coprire il posto del signor Mariani. Il Sultano, oltre l’ambasciatore ordinario, aveva mandato al Re anche il generale Issef, con incarico di fargli dono di quattro magnifici cavalli arabi.
Per sollevare la travagliata popolazione operaia, si pensò di fare grandi feste nel mese di maggio. Vi doveva essere a Tor di Quinto la inaugurazione della gara nazionale del tiro a segno, le corse, per le quali il Municipio aveva assegnato un premio di 100,000 lire e la mostra della Città di Roma nel palazzo delle Belle Arti.
A riunir premi per la gara si adoprava specialmente un comitato di signore presiedute dalla marchesa Gravina, moglie del Prefetto. Quel comitato, che teneva le sue adunanze al palazzo Valentini, lavorò davvero con impegno, e la marchesa seppe dar prova del suo tatto squisito, dirigendo le discussioni. Della esposizione si occupava un comitato speciale di cui era anima il comm. Guglielmo Castellani.
Ma intanto che con questo palliativo cercavasi di dar lavoro ai disoccupati, il Comune languiva. I consiglieri Baccarini, Baccelli e Grimaldi andarono dal Presidente del Consiglio per indurlo a dire in quale misura avrebbe concorso il Governo nel rialzare le sorti di Roma, e dopo si adunarono insieme con altri consiglieri al palazzo Sciarra, deliberando d’invitare l’on. Crispi a concretare i provvedimenti prima che la Camera prendesse le vacanze.
Era difficile che il presidente del Consiglio in quel momento potesse rivolgere il pensiero a Roma esclusivamente. Per tutto in Italia si preparavano moti per il 1° maggio e il Governo doveva prevenire disordini. Esso aveva proibito la festa operaia, e il Maffi interrogò subito alla Camera il Crispi, come ministro dell’interno. Nell’assenza di lui rispose il sotto-segretario di Stato, on. Fortis, sostenendo l’operato del Governo. In bocca a un uomo che fino a poco prima aveva fatto parte della frazione spinta della Camera, quelle parole fecero un curioso effetto e sollevarono molti comenti.
Per quel 1° maggio vi era a Roma un gran pànico e si facevano correre voci allarmanti. Ovunque erano consegnati i soldati e la città era percorsa da pattuglie miste di carabinieri e guardie; i picchetti erano stati rinforzati e se ne erano messi anche in quegli edifici di Banche ove non si vedono di consueto. Anche molti fra i più noti rivoluzionari erano stati arrestati. Nonostante queste misure, 200 operai si adunarono a Testaccio e furono dispersi; alla spicciolata tornarono ad adunarsi e furono sparpagliati e arrestati. Verso le 5 del pomeriggio vi fu un nuovo tentativo di aggruppamento in piazza del Popolo con l’intenzione di tagliare le condutture del gaz, un secondo di circa 300 persone in via dello Statuto, e un terzo di 500 in Prati. La polizia operò molti arresti, e gravi disordini non ve ne furono. Però la popolazione era intimorita e si vedeva pochissima gente per via. Il Re peraltro fece la sua solita passeggiata in phaeton e la Regina, mentre vi era l’assembramento in piazza del Popolo, passò per andare a villa Borghese, e fu applaudita. I Savoia mostrarono anche quella volta che essi non conoscono la paura.
Il 2 maggio i Sovrani inaugurarono la mostra della città di Roma, che si componeva di una sezione industriale e di un’altra artistica. Il numero delle fabbriche che vi avevano era molto grande, perché Roma ne conta poche, e non ha disseminato intorno a sè piccoli centri concorso non industriali come Firenze, Torino e Milano, ma era ben disposta, graziosa e servi a far conoscere tante industrie ignorate fino a quel giorno.
Le corse sulla nuova pista di Tor di Quinto riuscirono bellissime. Vinse il premio di 80,000 lire Meleagre del marghese Birago, quello di 12,000 Frank Patras del duca di Zoagli, quello di 5000 Guitare pure di Birago e l’ultimo di 3,000 Marielon del conte di Beauregard.
Le corse e la gara, che fu inaugurata dal Re, insieme con la nuova via che riunisce a quella Flaminia la pista di Tor di Quinto, richiamarono a Roma molta gente da ogni parte d’Italia e chi veniva alla capitale in quei giorni, non accorgevasi davvero che essa fosse travagliata dalla tremenda crisi, nè che albergasse tanta miseria. Nelle vie vi era sempre folla, i caffè e i teatri erano sempre pieni e Roma serbò per circa due mesi un aspetto di festa.
Il comm. Oblieght aveva concesso la sua ferrovia da Castel Sant’Angelo a Ponte Molle per il trasporto dei tiratori al campo di Tiro, Michele Lazzeroni non risparmiava nè denari nè cure per le accoglienze agli italiani e ai francesi, venuti qui numerosi, e il general Luigi Pelloux, il principe d’Avella e il comm. Nicola Fabrizi lavoravano concordi per il buon esito della gara, che fu molto importante. I tre primi premi vennero riportati da Filippo Celesia di Genova, da Galileo Taddeini di Castel Fiorentino e da Giovanni Barbaro di Palermo. Il Re nel consegnarli pronunziò parole atte ad incoraggiare i giovani ad esercitarsi al tiro.
Il Papa erasi fatto appena vivo nei primi mesi del 1890. Egli aveva creato cardinali monsignor Richard, arcivescovo di Parigi; monsignor Foulon, arcivescovo di Lione e monsignor Schönborn, arcivescovo di Praga. Dopo, la malattia e poi la morte del fratello cardinal Pecci, lo avevano piombato nel dolore. Il cardinale abitava al palazzo Barberini e fu assistito dai tre nipoti e dalla nipote contessa Moroni. Si vuole che anche il Papa si recasse al letto di morte del fratello per confortarlo negli ultimi momenti. Il corpo del cardinale fu esposto nella sala degli arazzi. Il trasporto si fece senza nessuna pompa e il cadavere del defunto venne tumulato al Campo Verano nella cappella dell’ordine dei gesuiti, al quale apparteneva. Il Cardinale godeva di tutta la stima del Pontefice ed era stato in omaggio a lui, studiosissimo delle opere dell’Aquinate, che Leone XIII aveva rimesso in auge la Somma di San Tommaso.
Anche l’aristocrazia romana fece una perdita dolorosa con la morte del principe don Giannetto, capo della famiglia Doria-Pamphily. Il Principe morì sotto l’operazione della pietra, fattagli da un chirurgo francese. I chirurghi romani Bertini, Nardini, Marchiafava e Postempski si erano dichiarati contrari all’operazione reputandola inutile. Don Giannetto lasciò esecutore testamentario il principe don Mario Chigi legando un milione e mezzo agli istituti di beneficenza, 50,000 lire ai poveri e diversi doni agli amici. I funerali furono fatti a Sant’Agnese a piazza Navona, che è di patronato dei Doria, e il feretro fu seguito da 130 carozze della aristocrazia romana. Il titolo e i beni di casa Doria passarono al secondogenito don Alfonso duca d’Avigliana.
Dopo la morte del general Pasi, il Re aveva conferita la carica di primo aiutante di campo al conte Pallavicini di Priola, soldato valoroso e devoto alla monarchia; e al marchese Origo, grande scudiere, aveva dato per successore il marchese Corsini di Lajatico, che era già in corte da molto tempo.
Il giuoco sfrenato della Borsa, che si era manifestato negli anni precedenti e al quale, allettati da pronti guadagni, avevano con loro gravissimo danno partecipato tanti possidenti incauti, e il continuo giuoco al ribasso avevano messo in luce non pochi guai, che si verificavano alla Borsa, e dato luogo a continue scene spiacevoli. Per questo la deputazione della Borsa di Roma, con l’approvazione della Camera e col consenso del Governo, concretò due provvide misure. La prima consisteva nella sospensione della grida per gli affari a termine, che permetteva basse manovre per deprimere il mercato e trarre in inganno gl’ingenui; la seconda era quella di stabilire nel regolamento di Borsa il così detto diritto di sconto, ossia la facoltà del compratore, rinunziando agli interessi del mese, di chiedere e pagare i valori comprati per la fine di quel mese istesso, prima della scadenza. Queste due misure, ma specialmente la seconda, destarono un vero pànico nella falange dei devastatori della Borsa.
Inoltre il Governo impensierito delle notizie allarmanti sulle nostre condizioni finanziarie che alcuni corrispondenti trasmettevano da Roma all’estero, notizie sempre esagerate e spesso inventate di sana pianta, e che recavano grave danno al credito inducendo i possessori dei nostri titoli a venderli deprezzandoli, espulse da Roma il Grünwald corrispondente della Frankfurter Zeitung e lo Chénard del Figaro. Protestarono molti giornalisti contro quel provvedimento, vi furono interpellanze alla Camera di Cavallotti e Imbriani, alle quali il Crispi rispose dimostrando che si trattava di una vera cospirazione contro l’Italia. Dopo quelle espulsioni, la guerra contro il nostro credito si fece meno acerba, e i corrispondenti di giornali esteri, se vollero continuare a risiedere a Roma, dovettero mostrarsi più cauti nello scrivere.
Un fatto che appassionò Roma fu la venuta dei cow-boys del colonnello Cody che dettero diversi spettacoli in Prati. Il pubblico non credeva che i cavalli che prendevano al laccio, sellavano e poi inforcavano fossero davvero indomiti, e gli americani allora si fecero condurre i cavalli della campagna romana e riuscirono a montarne uno del Tanlongo. I butteri, punti nel viso, scommessero di montare i cavalli del colonnello Cody, e quelli del duca di Sermoneta vinsero. Queste gare richiamavano al Circo una folla immensa, assai maggiore di quella che assisteva qualche tempo dopo alle Corride dei Torri fuori di Porta del Popolo.
In breve volger di tempo erano morti tre deputati: il Franzosini, il Petruccelli della Gattina ed Aurelio Saffi. A quest’ultimo, oltre la bella commemorazione che gli fu fatta dal presidente alla Camera, un’altra vollero fargliene i repubblicani ai primi di maggio. Le società si riunirono in piazza del Popolo recando il busto del defunto e 57 bandiere. Di quale indole fosse la commemorazione, lo dissero chiaro i ripetuti gridi di: «Viva la rivoluzione» emessi sotto le finestre della questura. In quel punto del Corso tutte le bandiere si abbassarono come pure sotto l’ambasciata d’Austria, in piazza Venezia. Ad attendere il busto in Campidoglio stavano il sindaco Armellini, gli assessori Grimaldi, Ruspoli, Roseo, Cruciani-Aliprandi, Lorenzini, Ranzi, Galluppi e de Angelis, nonché i consiglieri eletti con altri voti che quelli della Unione Romana. Il sindaco, nel ricevere il busto di Aurelio Saffi, disse:
«La civica rappresentanza accoglie con affetto la venerata effige del grande patriota Aurelio Saffi qui in Campidoglio fra i sommi fattori della indipendenza italiana, suoi emuli più che suoi avversari. Noi la conserveremo questa effige, come ricordo di quel grande, che accolse in sè tutte le virtù cittadine e fu grande parte nei fasti gloriosi di Roma risorta, incancellabile esempio di patriottismo per noi e per le future generazioni».
Le incertezze per il concorso governativo a vantaggio di Roma continuavano, quando, discutendosi alla Camera il bilancio dei lavori pubblici, fu presentato il progetto per la sistemazione del Tevere. Molti oratori presero la parola e fu rilevato come da 60 milioni di preventivo per quei lavori, si fosse arrivati a 105, perchè 45 appunto ne chiedeva il nuovo progetto, ma diversi deputati osservarono la stranezza del fatto che, fossero addossati a Roma tre ottavi della nuova spesa di 45 milioni, quando le finanze del Comune non erano in grado di sopportare la quota parte del passato. L’on. Sonnino, che biasimò la votazione di qualsiasi lavoro senza conoscerne la spesa, pure propose che si considerassero i lavori del Tevere come lavori governativi, e vi si provvedesse con uno stanziamento nel bilancio ordinario per definire una buona volta quella faccenda tediosa. Tutti gli oratori si mostrarono ben disposti per Roma, e la discussione almeno dette alla città agio di sperare che alla Camera non avrebbe trovato opposizione l’aiuto che attendevasi dal Governo, e che i deputati fossero compresi delle difficoltà nelle quali dibattevasi la capitale del Regno.
Il progetto fu votato, benché si sapesse che per ultimare i lavori del Tevere, la somma richiesta non bastava.
Il 9 maggio il sindaco comunicò in Consiglio una nuova lettera del capo del Governo, con la quale dichiarava aver preso in esame il problema di Roma ed in seguito agli studi della commissione impegnavasi a presentare un progetto di legge per la divisione delle opere governative da quelle comunali e di farlo discutere prima del mese di luglio. La lettera indusse la Giunta a dimettersi, perché dalle intenzioni dell’on. Crispi espresse nella lettera capiva di dover rinunziare al suo programma finanziario. Inoltre inducevala a quel passo la difficoltà che la Camera potesse discutere in tempo la legge e la considerazione che rimanendo avrebbe dovuto addossarsi la responsabilità dell’esercizio 1890. Il Cucchi, che fungeva da intermediario fra il presidente del Consiglio e il Sindaco, cercò di far temporeggiare la Giunta, la quale, avuto poco dopo un voto di fiducia dal Consiglio, rinunziò a dimettersi.
La Camera si era occupata del caso di Andrea Costa eletto deputato, il quale non aveva scontato ancora una pena, e aveva concesso che fosse arrestato, e del caso Sbarbaro, rieletto mentre era in carcere, e aveva negato l’autorizzazione allo scarceramento.
Questi fatti indussero il Governo a modificare la legge elettorale politica. La modificazione consisteva nello stabilire che i cittadini condannati a pena, la quale non portasse con sè interdizione o sospensione dei pubblici uffici, fossero ineleggibili soltanto per il tempo che durava la pena.
La legge sulle Opere Pie era andata al Senato, il quale in quell’anno aveva dimostrato un grande accordo d’idee con la Camera elettiva, forse perché l’on. Crispi lasciava spesso Montecitorio per andar alla Camera vitalizia, e vi faceva udire sulle diverse quistioni, la sua parola autorevole. Neppure il disegno di legge sulle Opere Pie non incontrò seria opposizione fino all’articolo 87, anzi fino al comma 2° di quell’articolo, che la commissione aveva proposto fosse soppresso.
Quel comma del progetto governativo diceva che i lasciti e legati ed Opere pie o di culto, che non fossero più rispondenti ai bisogni della popolazione del luogo, si potessero volgere ad altro scopo. I senatori avevano veduto in quella disposizione di legge una misura che offendeva il sentimento religioso. Il senatore Ellero ne propose il ripristinamento, l’on. Crispi l’appoggiò con gran forza e disse che desiderava che anche in quella parte il Senato confermasse le deliberazioni sancite dalla Camera elettiva, nel caso contrario, non potendo giungere ad un accordo fra Senato e Governo avrebbe dovuto interrogare gli elettori. Il serio consesso non si sgomentò della minaccia dello scioglimento della Camera e respinse il ripristinamento del comma con 93 voti contro 76. In quella stessa seduta l’on. Crispi disse che la discussione del progetto di legge intendevasi sospesa, perchè egli doveva prendere gli ordini sovrani.
Il giorno dopo ritorno al Senato e dichiarò che dopo aver conferito con i suoi colleghi in Consiglio, pregava il Senato di continuare la discussione.
La legge fu prontamente votata e doveva tornare alla Camera. Si trattava di un triplice conflitto fra i due rami del Parlamento e fra Senato e Governo; nonostante non fu così acerbo come si prevedeva, perchè prima che il famoso comma modificato tornasse alla Camera, fra la commissione che essa aveva nominato e il Governo erasi già stabilito un accordo. La Camera votò la modificazione e il Senato pure la sanci.
Il presidente del Consiglio mantenne la promessa fatta al sindaco e il 23 giugno presentava alla Camera il progetto governativo del concorso per Roma.
Quel disegno di legge stabiliva che ferme le leggi del 14 maggio 1881 e 8 luglio 1883 il Governo del Re avrebbe provveduto alla continuazione dei lavori del Policlinico, al proseguimento delle vie Cavour e Statuto fino a piazza Venezia, alla costruzione di due ponti, uno dei quali l’Umberto, con relativi accessi. A questa spesa lo Stato provvedeva con l’emissione di titoli speciali di rendita, ammortizzabili in 50 anni, come a quella per la sistemazione del Tevere. Nel decennio dal 1891 al 1900 lo Stato assumeva la riscossione non solo del dazio consumo governativo, ma anche dei dazi addizionali e comunali, e pagava alla città di Roma un correspettivo di 12,500,000 lire annue. Se detratte dal prodotto lordo le spese di amministrazione e l’annualità di 12,500,000 lire dovute al Comune fosse avanzata una somma superiore a L. 5,500,000, canone già spettante al Governo, sarebbe stato corrisposto al Comune di Roma una somma eguale ai quattro quinti della eccedenza. Sulla quota del dazio consumo spettante al Comune lo Stato avrebbe prelevato la somma occorrente per il pagamento degli interessi e l’ammortamento del prestito dei 150 milioni, contratto dal Comune e garantito dal Governo. Era continuato il pagamento della somma annua di 2,500,000 lire per il concorso dello Stato alle opere edilizie della capitale. I beni delle confraternite, delle congreghe, delle confraterie ecc. aventi sede in Roma, i lasciti, i legati e le Opere Pie e di culto, che non erano più rispondenti ai bisogni della popolazione, venivano indemaniati e destinati agli istituti di beneficenza, togliendo fino dal 1891 dal bilancio del Comune l’onere per detti istituti.
Il Comune di Roma, oltre il Bilancio straordinario doveva presentare ogni anno anche quello ordinario e il conto consuntivo al ministero dell’Interno, al quale spettava di vegliare affinchè venissero stanziati i fondi occorrenti ai servizi ed agli obblighi ordinari e straordinari, relativi ai lavori edilizi del piano regolatore.
Il progetto proponeva la creazione di un unico ufficio tecnico-amministrativo alla dipendenza del ministero dei lavori pubblici, per vegliare sulla esecuzione del piano regolatore edilizio, e sull’ufficio tecnico municipale.
Il Governo era inoltre autorizzato a fondere i diversi istituti della città di Roma per e la convalescenza degli infermi in un solo ente, con unica personalità giuridica e con patrimonio comune ed unica amministrazione soggetta alla legge sulle Opere Pie. Senza pregiudizio della precedente disposizione e prima anche che andasse in vigore, il Governo del Re era pure autorizzato a fondere, conservandone l’autonomia, l’Ospedale di Santo Spirito col Policlinico. Il termine stabilito dalla convenzione del 1883 era in facoltà del Governo di prorogarlo con regio decreto ad altri 20 anni.
Non si può dire quante proteste il progetto di legge suscitasse. Appena fu pubblicato, Giunta e Consiglio dettero le dimissioni, e nella seduta appunto in cui furono annunziate, l’aula severa del Campidoglio risuonò di alti gridi d’indignazione. L’on. Balestra si mostrò più inviperito di tutti i suoi colleghi, ed asserì che quel progetto era un marchio d’infamia per il municipio di Roma, e che bisognava combatterlo altrove.
I deputati romani Siacci, Bonacci, Baccelli, Menotti Garibaldi, Narducci, Tittoni, Teano, Odescalchi, Balestra, Panizza, Tommasi e Sciarra si riunirono nel palazzo di quest’ultimo e deliberarono di adoperarsi affinchè l’insostenibile progetto non passasse alla seconda lettura. Intanto subito dopo che Giunta e Consiglio eransi dimessi, il Governo nominava il comm. Finocchiaro-Aprile, deputato al Parlamento, Regio Commissario, ed egli annunziava ai Romani la sua missione con un manifesto non romanamente redatto, me che rivelava la ferma intenzione di rendersi utile alla città.
Il Commissario Regio si mise subito al lavoro con l’intenzione d’introdurre nelle spese del Comune grandi economie.
Il progetto di legge era stato affidato all’esame di una commissione, che aveva nominato suo relatore l’on. Ferdinando Martini. Siccome l’addebito maggiore che si faceva al disegno di legge era quello che il Governo volesse trarre un utile, assumendo la riscossione del dazio consumo, che fruttava più della quota, che avrebbe pagato al Comune, così la Commissione portò subito quella quota annua da 12,500,000 lire a 14,000,000 e modificando alcuni altri articoli riusci a farlo votare dalla Camera a grandissima maggioranza. Al Senato il progetto non incontrò tanto favore, ma nonostante raccolse una maggioranza di 23 voti. Il Crispi da un lato e il Baccelli dall’altro, raccomandando nel primo momento la calma, avevano contribuito a toglier Roma dall’angustia. Appena il progetto fu convertito in legge, il senatore Gravina, che reggeva con intelligenza la prefettura di Roma da 9 anni, dette le dimissioni. Il suo ritiro dispiacque a tutti; dai comuni della provincia gli giungevano numerosi indirizzi, la deputazione provinciale gli presentò una pergamena artistica.
L’on. Crispi gli diresse la seguente lettera:
«Il Governo del Re, che si vede privato dell’opera sua illuminata, sente di dover esprimerle, coi sensi del suo rammarico, quelli del suo grato animo per i servigi della S. V. O. in un lungo periodo di anni resi al paese.
«Mi pregio comunicare in pari tempo alla S. V. che S. M. il Re, con altro decreto, si è compiaciuto di nominare Lei, su mia proposta, Cavaliere Gran Croce decorato del gran cordone dell’ordine della Corona d’Italia».
L’on. Finocchiaro-Aprile dette buona prova di sè nella amministrazione del Comune. Non si videro mai come in quel tempo rispettati i regolamenti municipali, e alla rilasciata azienda egli, con la sua energia, dette nuovo vigore. Uno dei suoi atti energici fu quello di licenziare 58 impiegati dell’ufficio del Piano Regolatore, divenuti inutili dopo che il Governo assumeva quasi tutti i lavori.
Il Regio Commissario ordinò ai proprietari delle case di ripulire le facciate, ma il ripulisti maggiore fecelo in Campidoglio, togliendo via molti abusi. Egli non trascurò la beneficenza, istituì un nuovo dormitorio a via Falco, con annessa cucina economica, che potè dotare con le 10,000 lire inviate al municipio dalla ditta Bertelli di Milano, e rese al dormitorio di Testaccio, che era divenuto un ricovero, il suo carattere primitivo di asilo notturno.
Su tutti i servizi l’on. Finocchiaro-Aprile portava la sua attenzione, prima di tutto per riordinarli con pronte riforme, e in secondo luogo con la mira delle economie da introdurre nel bilancio, che il comm. Bordoni, divenuto ragioniere capo del municipio, compilava su basi meno fastose.
Era quello l’anno della fuga dei cassieri e degli economi, e scomparve lasciando un vuoto di 277,000 lire anche l’avv. Legge, uomo stimatissimo e facoltoso, il quale dopo aver rovinato il suo patrimonio nelle speculazioni edilizie, come tanti altri, aveva abusato anche del suo posto servendosi delle somme a lui affidate. La rovina a Roma era proprio generale, e le case in costruzione abbandonate lo dicevano con triste eloquenza, e lo confermava l’annunzio della continua partenza di emigrati per il Brasile.
Ogni momento salpavano da Civitavecchia i bastimenti carichi di operai, che andavano soli o insieme con le famiglie in cerca di lavoro al di là dell’Oceano, perchè qui lavori non ve ne erano quasi più, e quei pochi che si proseguivano ancora non davano nessuna sicurezza che sarebbero stati continuati per più di un mese o due. L’on. Finocchiaro-Aprile per non interrompere quelli del Mattatoio a Testaccio, dovette farsi anticipare una somma sulle cartelle municipali dalla Banca Nazionale.
Ovunque nei nuovi quartieri le larghe vie erano tracciate, le case erano giunte all’altezza del secondo o terzo piano e anche fino al tetto, ma mancavano di affissi, d’intonaco e parevano già rovine. In esse si rifugiavano le famiglie prive di abitazione, e chiudendone le aperture alla peggio con assi e talvolta con cenci, facevano vedere quanta miseria vi albergasse dentro.
Questo avveniva anche nell’elegante quartiere Ludovisi, dove il principe Boncompagni aveva edificato, sui piani dell’architetto Koch, il più bel palazzo della Roma moderna, e dove il principe Borghese aveva sotterrato tanti milioni.
Le vie dei nuovi quartieri non selciate, prive di marciapiedi e scarsamente illuminate, facevano capire che la miseria privata era anche estesa al municipio.
Il Governo aveva fatto votare dai due rami del Parlamento il progetto del ministro Miceli per la creazione di un grande Istituto di Credito Fondiario, e in autunno si costituì la Società che doveva esercitarlo, ma in quell’anno non si poterono vedere i vantaggi che da quello si speravano.
La Società romana «Per il bene Economico» si fece iniziatrice di una Esposizione Nazionale a Roma, che volevasi far coincidere con la riunione del grande congresso medico, fissato al maggio 1893. Si lavoro molto per attuare quell’idea, ma vedremo dopo per quali ostacoli essa non potesse mai esser tradotta in fatto.
Dopo la metà di giugno, il Principe di Napoli era tornato dal suo lungo viaggio in Oriente, interrotto per la morte del Duca d’Aosta e ripreso in seguito. Aveva visitato una parte dell’Asia, si era trattenuto lungo tempo in Russia, e tornava avendo acquistato moltissime cognizioni artistiche e scientifiche.
La Regina venne qui da Napoli ad abbracciarlo, e quindi partirono insieme per Monza. Il Principe Reale tornò per seguire il suo reggimento nelle manovre al campo di Bracciano ed ebbe dal principe Odescalchi larga e cortese ospitalità. Il Re, che era rimasto lungamente a Roma per i lavori del Senato, fece una visita al campo. S. M. parti di qui di notte a cavallo e si recò alla Manziana, ove si svolgevano le manovre. Fu ricevuto in casa Tittoni dal senatore Vincenzo, dal deputato Tommaso, dalle signore della famiglia e dai Berardi. Dopo un breve riposo prosegui per Bracciano, ove ebbe da quella popolazione una entusiastica accoglienza e fu ospite egli pure di casa Odescalchi.
Lungamente era rimasta a Roma una missione del Sultano del Marocco guidata da Sid-Hagi, un bell’uomo dalla lunga barba. L’ambasciata era assai numerosa e abitava all’albergo di Roma. Tutto il giorno vi era folla dinanzi all’albergo per vedere entrare e uscire i componenti l’ambasciata, avvolti nei lungi borus bianchi. I marocchini parteciparono a tutte le feste di maggio. Essi recarono al Re una cordiale lettera del loro sultano e dieci bellissimi cavalli, che S. M. gradì molto. I componenti l’ambasciata ebbero doni ricchissimi e furono invitati a pranzo al Quirinale. Dopo Roma essi visitarono Firenze.
Di qui era passato anche Stanley senza fermarsi. Il presidente della Società geografica andò alla stazione insieme con molti soci insigni, e gli rimise la medaglia d’oro già decretatagli. Il viaggiatore italiano Casati ebbe maggiori accoglienze, perché si trattenne a Roma, e al conte Antonelli, reduce dal suo soggiorno in Africa, fu pure conferita dalla Società geografica la medaglia d’oro.
L’esposizione si chiuse in luglio senza l’intervento del Re, alla presenza dei ministri Miceli e Baccelli e dell’on Finocchiaro-Aprile. Tutti gli espositori della sezione industriale ebbero ricompense; i due massimi premi per l’arte, conferiti dal marchese Ferraioli, furono riportati dal pittore Scipione Vannutelli per il suo quadro «I funerali di Giulietta a Verona» e dallo scultore Trabacchi.
Il concorso del pubblico a pagamento era stato meschino alla Mostra della Città di Roma, e questo resultato avrebbe dovuto servire di avvertimento ai fautori del progetto della Esposizione Nazionale, al quale si era voluto associare il nome di Guido Baccelli, dopo che la popolarità di lui era cresciuta per il valido appoggio dato al concorso governativo per Roma.
Le dimissioni di Ricciotti Garibaldi da deputato, lasciarono libero un seggio nel 1° collegio di Roma. Ricciotti pentito delle inutili dimissioni, lasciò che la sua candidatura fosse posta; i ministeriali portavano il conte Pietro Antonelli, i repubblicani il Barzilai, triestino. Questa candidatura doveva servire di protesta contro l’Austria e contro il recente scioglimento della società «Pro Patria», che aveva destato in Italia tante proteste. Maggiori voti riportarono Antonelli e Barzilai. Prima che vi fosse il ballottaggio, gli on. Cavallotti e Imbriani riunirono un comizio al Quirino per sostenere la candidatura Barzilai, che era appoggiata dalla Tribuna e dal Don Chisciotte, ed alla quale volevano dare, come ho detto, il significato di protesta contro l’Austria. Tutto questo armeggio non valse a nulla. I ministeriali, scossa l’apatia, sostennero validamente la lotta, che a Roma non fu mai più viva che allora. I muri sparivano sotto i manifesti, le adunanze elettorali si tenevano ovunque. Vinse Antonelli per più di 800 voti. Gl’irredentisti, il giorno stesso della battaglia, fecero una dimostrazione andando sotto il Don Chisciotte; avvennero disordini davanti al caffè Aragno, che era già nella sua nuova sede nel palazzo Marignoli, e davanti all’ambasciata di Austria.
Pochi giorni dopo un decreto reale scioglieva i circoli Barsanti e Oberdank. La polizia, in forza di quel decreto, operava perquisizioni in casa di Ferruccio Corradetti, di Antonio Paoli, di Domenico Mancini e di altri. Presso il Mancini sequestrava tre bombe di cemento cerchiate di ferro, contenenti materie esplosive.
L’irredentismo non era soltanto la prerogativa dei partiti avanzati; esso aveva i suoi fautori anche nel Governo. L’on. Seismit-Doda assistè a un banchetto a Udine ove furon pronunciati discorsi contro l’Austria, senza che si risentisse; fu tanto il rumore che quel fatto destò in Italia, che egli venne esonerato dalla carica.
L’on. Crispi, che aveva accompagnato il Re a Perugia e a Firenze per l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele, invitato da quest’ultima città ad un banchetto, nel saloncino del Politeama, colse l’occasione per pronunziare un notevole discorso contro l’irredentismo e contro il partito radicale.
In seguito all’approvazione della Camera e del Senato era stata con decreto reale dichiarata monumento nazionale la tomba di Garibaldi a Caprera, ed erasi affidata al ministro della marina la cura di farla custodire dai Veterani del corpo Reali Equipaggi.
Non bisogna credere che il disagio finanziario paralizzasse del tutto la vita a Roma. Nell’estate, per le indefesse cure di Michelangiolo Cattori, la capitale poté avere il suo primo tram elettrico da piazza del Popolo a Ponte Molle, che fu inaugurato dal Re. Il Municipio aveva concesso al Governo una parte del convento di Santa Maria degli Angeli alle Terme Diocleziane e sotto il bel porticato michelangiolesco e nelle sale superiori, il comm. Felice Barnabei, che già aveva il vanto di avere ordinato nella villa di papa Giulio le preziose memorie dell’antica Falerii, poteva riunire tutto quanto di notevole era venuto alla luce negli ultimi anni scavando in Roma e lavorando nell’alveo del Tevere. Cosi si videro nel Museo Nazionale delle Terme le pitture e gli stucchi della casa della Farnesina, statue, bassorilievi, monete, e tanti altri oggetti importanti non solo per l’arte, ma ancora per la storia.
A prefetto di Roma, dopo le dimissioni del marchese Gravina, era stato nominato il Calenda dei Tavani, uomo simpatico e colto, che seppe cattivarsi le simpatie della cittadinanza.
In autunno vennero a Roma sir Eveling Baring e il generale Grenfell, inviati dal Governo inglese per discutere sulla sfera d’influenza dell’Inghilterra e dell’Italia nei rispettivi possessi d’Africa. Il Presidente del Consiglio delegò per trattare con essi il generale Luchino dal Verme e il signor Silvestrelli, addetti al nuovo ufficio coloniale, annesso al ministero degli esteri, e del quale era capo il comm. Pisani-Dossi, il quale del Crispi godeva tutta la fiducia.
Le trattative andavano a gonfie vele e già pareva che i rappresentanti inglesi si fossero posti d’accordo con i nostri per l’eventuale occupazione italiana di Kassala, quando a un tratto sir Evelin Baring volle porre la clausola che noi dovessimo riconoscere i diritti degli egiziani e sgombrare la piazza a richiesta di essi, dopo la rioccupazione del Sudan.
Le trattative naturalmente furono rotte e a quella rottura non fu estraneo il Governo francese, che aveva protestato a Londra non volendo che l’Italia acquistasse in Africa una posizione così importante.
In quel tempo era governatore civile e militare della nostra Colonia Eritrea il general Gandolfi e aveva seco il colonnello Baratieri, che già vi era stato lungamente, e le cose parevano meglio avviate. Il Franchetti aveva avuto dal Governo la missione di tentare la colonizzazione di una parte dell’altipiano di Keren, e lo sgomento che negli anni precedenti incuteva negli italiani l’occupazione d’Africa si era molto attenuato.
A un martire delle missioni, al cardinal Massaia, morto l’anno precedente, pensavasi qui ad erigere un monumento. Già si era costituito un comitato. Dopo ottenuto il permesso dal Papa, la salma del missionario, che era stato cappellano di Vittorio Emanuele a Moncalieri, e dall’Africa, nel 1872, ancora gli scriveva, fu esumata dal Campo Verano, e trasportata a Frascati nel convento della Ruffinella.
Il Papa, nel concistoro del giugno, aveva creato cardinali monsignor Vincenzo Vannutelli, monsignor Sebastiano Galeati, arcivescovo di Ravenna, monsignor Gaspero Mermillod, e monsignor Dunajewski.
In autunno aveva ricevuto molti pellegrini stranieri ed eragli giunta la dolorosa notizia della morte del cardinal Pallotti.
Anche l’Italia aveva fatto altre perdite. A Roma era morto il marchese Emanuele d’Azeglio, già nostro ministro a Londra, eccellente diplomatico, devoto alla patria, e cultore intelligentissimo delle arti. In autunno morì pure a Roma il generale senatore Petitti, al quale surono resi solenni onori. In quel tempo giunse qui la dolorosa notizia della morte di Alfredo Baccarini, che aveva avuto tanta parte nelle faccende della città come deputato, ministro e consigliere municipale.
In ottobre il Papa, che aveva taciuto tutto l’anno, pronunziò una enciclica violenta, piena delle solite proteste, e rivolta specialmente contro il nuovo Codice penale e contro la legge sulle Opere pie, enciclica che lasciò, come suol dirsi, il tempo che trovava, ma che fu discussa più nei giornali stranieri che nei nostri.
Per fare omaggio al Pontefice venne in Roma nel novembre il generale Charette, il paladino del potere temporale, insieme con la sua famiglia e con la giovine principessa Elena d’Orléans, la quale già dimostrava quelle tendenze religiose, che poi la spinsero a intraprendere il pellegrinaggio in Terra Santa.
Un altro cardinale, uno dei membri più illuminati del Sacro Collegio, venne a morire a Roma. Alludo al Hergenroether, creato cardinale da Leone XIII, e al quale furono fatti solenni funerali nella chiesa teutonica dell’Anima.
Per i lavori del Tevere fu chiuso sul principio dell’inverno il porto di Ripetta, e così spari un’altra delle cose caratteristiche di Roma. I barconi dovettero da quel tempo ancorarsi alla Passeggiata di Ripetta.
La Casa Reale aveva costruito un palazzo in via Venti Settembre per trasportarvi il suo ministero, che era prima in via della Dataria; il nuovo edifizio fu adibito all’uso cui era destinato prima che l’anno spirasse.
Il ministro dei lavori pubblici, on. Finali, in seguito alla legge per Roma, che era andata in vigore, dovè ordinare un nuovo ufficio tecnico-governativo dal quale dipendevano i lavori assunti dallo Stato e quelli compilati dal Comune per la prosecuzione del piano regolatore. A dirigerlo pose il comm. Vivaldi, funzionario non tecnico, ma intelligente e operoso. Però da quali meschini criterii rispetto a Roma fosse guidato il ministro, lo dissero subito, e con evidenza, le somme che egli stanziò per i lavori della capitale. Per l’esercizio in corso assegnò un milione, per quello 1891-92 due milioni e mezzo.
Il regio commissario del Comune continuava pure a introdurre economie nel bilancio, e la conseguenza di quelle economie fu la soppressione dell’ufficio del gabinetto del Sindaco, che era diretto dal cav. Colombo. Quell’ufficio aveva quasi la stessa importanza del gabinetto del Presidente del Consiglio. I molti impiegati furono distribuiti nelle diverse sezioni degli uffici municipali, e con quella misura venne scemato il fasto che circondava l’ultimo sindaco di Roma.
Il palazzo delle Belle Arti accolse in autunno l’esposizione didattica dei lavori delle scuole annesse ai musei artistico-industriali del Regno. Avevala ordinata il prof. Ojetti, per incarico del ministro Luigi Miceli, il quale volle inaugurarla. La mostra riusci bella e si vide come ogni museo coltivasse l’indirizzo industriale e artistico della regione che rappresentava. Vi concorsero gl’istituti di Roma, Napoli, Palermo, Firenze, Torino, Milano e Venezia. L’esposizione fu seguita da un congresso di direttori, ai quali il ministro Miceli, terminati i lavori, offrì un banchetto.
Ho già accennato alla fuga dell’avv. di Legge, cassiere del manicomio. La commissione nominata dall’on. Finocchiaro-Aprile per esaminare le condizioni economiche degli ospedali potè accertarsi che le sottrazioni al manicomio erano molto maggiori di quello che si era creduto in principio e che ammontavano a 442,000 lire. Fu stabilita allora una inchiesta severa sulla gestione di tutti gli ospedali, e il senatore Tommassini, in base alla nuova legge comunale e provinciale, come amministratore di corpi morali, fu ritenuto responsabile della sottrazione.
L’on. Boselli, al quale è stata sempre a cuore l’istruzione della donna, e temendo che molte famiglie fossero trattenute dal far seguire alle loro figlie gli studi classici, appunto per non inviarle nelle classi frequentate dai maschi, istituì, annesso all’«Ennio Quirino Visconti», un ginnasio MONUMENTO A CAMILLO BENSO DI CAVOUR femminile. Alla prima classe furono subito iscritte 17 bambine, e di anno in anno quel ginnasio ha preso sempre maggiore incremento.
Il 18 ottobre, dopo una lunga malattia, moriva a Spoleto il conte Pianciani, che aveva molto operato per la patria, ed era stato sindaco di Roma. La sua salma fu trasportata qua e accompagnata al Campo Verano dal Commissario regio, il quale pronunziò in onore del defunto un bel discorso, e da molta parte della cittadinanza e dai ministri. Per disposizione testamentaria, il corpo del Pianciani fu cremato al Pincetto e le ceneri raccolte in un urna.
Quasi nello stesso tempo mori pure il comm. Luigi Berti, direttore della pubblica sicurezza, che era stato il primo questore di Roma nel 1870. Anche a lui furono fatti funerali degni dell’alta carica che copriva.
In novembre, essendo le elezioni generali politiche fissate per il 23 di quel mese, non si parlava d’altro che di candidati e di discorsi elettorali. Il Presidente del Consiglio andò a Milano per incontrarsi col conte Caprivi, poi a Palermo, ove parlò brevemente senza far programma. Le idee sue rispetto al radicalismo e all’irredentismo avevale esposte nel discorso di Firenze. Completò il programma in quello che pronunziò a Torino il 12 novembre, e il discorso incusse nella parte moderata del paese nuova fiducia per l’uomo che ne dirigeva le sorti, e l’effetto prodotto dal discorso si vide nelle elezioni, dalle quali il partito ministeriale uscì rafforzato. A Roma era stata offerta la candidatura a don Leopoldo Torlonia, ma le dolorose condizioni di salute della moglie, consumata da una implacabile malattia, lo costrinsero a rifiutarla.
Guido Baccelli aveva fatto un bel discorso all’«Umberto I», durante un banchetto offertogli dagli elettori, e fu eletto primo, insieme col conte Pietro Antonelli, col Siacci e col Simonetti. Il Barzilai fu il deputato della minoranza. L’Odescalchi, il Montenovesi e il Coccapieller, riportarono pochi voti; il povero Checco, malato e sfatato, ne ebbe soltanto 785.
Subito dopo le elezioni comparve una lista di nuovi senatori, fra i quali il Morra di Lavriano, aiutante di campo del Principe di Napoli, il Chiaves, il Pugliese, il colonnello Taverna, il general Geymet, ma prima della seduta reale ne fu pubblicata un’altra di 75. In essa fu compreso Giosue Carducci, l’ambasciatore Nigra, e molte illustrazioni della scienza, come il Canizzaro, il Cappellini, il Blaserna, il Bizzozzero e il Morisani.
La vigilia della riapertura della Camera un decreto reale esonerava l’on. Giolitti dalla carica di ministro delle finanze, e con altro decreto veniva nominato a quel posto l’on. Bernardino Grimaldi. Dissensi col Finali per le spese del ministero dei Lavori Pubblici, avevano creato un dissidio nel seno del Gabinetto, che il Crispi, con misura draconiana, fece cessare.
Anche il Principe di Napoli, raggiunta la maggiore età, era stato iscritto nell’albo dei senatori, come il cugino Duca d’Aosta, e vi fu uno scambio di lettere cortesi fra il Presidente del Senato e il Principe Reale, il quale promosso pure colonnello del 1° fanteria, era andato a fissar dimora a Napoli, e prima aveva ricevuto dal 5° reggimento a Roma il dono del pennacchio di colonnello.
Il discorso reale fu giudicato bello, ma vago; in esso aveva parte maggiore il sentimento espresso in forma piuttosto rettorica, che non il programma dei lavori parlamentari.
A presidente della Camera fu rieletto il Biancheri con 364 voti. 90 furono dati al Giolitti ed ebbero il significato di protesta contro la sua destituzione.
Appena s’incominciarono i lavori parlamentari, l’on. Imbriani presentò una interpellanza sulla incostituzionalità della eliminazione del Seismit-Doda e del Giolitti dal Ministero, Il Presidente del Consiglio sostenne il proprio operato e chiese un voto di fiducia; 271 deputati votarono per lui, 10 di destra contro, e 16 radicali si astennero.
L’opera del Commissario regio per Roma volgeva alla fine. Egli aveva nominato una commissione, che valendosi dell’aiuto dell’ing. Alessandro Viviani, autore del primo piano regolatore, doveva prepararne uno nuovo da presentare al Consiglio, che sarebbe stato eletto in dicembre. La commissione era composta dell’ing. Bompiani, del Bonacci, dell’ing. Cadolini, di Augusto Castellani, dell’architetto de Angelis, del comm. Miraglia e dell’architetto Pio Piacentini.
Il bilancio comunale era già pronto. Esso presentava un deficit di mezzo milione, che l’on. Finocchiaro-Aprile proponeva di colmare imponendo la tassa sul valore locativo.
Le elezioni amministrative riuscirono abbastanza favorevoli al partito liberale, perchè fecero trionfare 55 candidati suoi. Tutte le gradazioni dei partiti vennero a esser rappresentate nel nuovo Consiglio.
Maggiori voti aveva riportato l’Armellini, ma riuscì eletto sindaco Onorato Caetani, e il nome di lui, caro a Roma, era garanzia del tranquillo e saggio svolgimento della vita economica della città.