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di 45 milioni, quando le finanze del Comune non erano in grado di sopportare la quota parte del passato. L’on. Sonnino, che biasimò la votazione di qualsiasi lavoro senza conoscerne la spesa, pure propose che si considerassero i lavori del Tevere come lavori governativi, e vi si provvedesse con uno stanziamento nel bilancio ordinario per definire una buona volta quella faccenda tediosa. Tutti gli oratori si mostrarono ben disposti per Roma, e la discussione almeno dette alla città agio di sperare che alla Camera non avrebbe trovato opposizione l’aiuto che attendevasi dal Governo, e che i deputati fossero compresi delle difficoltà nelle quali dibattevasi la capitale del Regno.

Il progetto fu votato, benché si sapesse che per ultimare i lavori del Tevere, la somma richiesta non bastava.

Il 9 maggio il sindaco comunicò in Consiglio una nuova lettera del capo del Governo, con la quale dichiarava aver preso in esame il problema di Roma ed in seguito agli studi della commissione impegnavasi a presentare un progetto di legge per la divisione delle opere governative da quelle comunali e di farlo discutere prima del mese di luglio. La lettera indusse la Giunta a dimettersi, perché dalle intenzioni dell’on. Crispi espresse nella lettera capiva di dover rinunziare al suo programma finanziario. Inoltre inducevala a quel passo la difficoltà che la Camera potesse discutere in tempo la legge e la considerazione che rimanendo avrebbe dovuto addossarsi la responsabilità dell’esercizio 1890. Il Cucchi, che fungeva da intermediario fra il presidente del Consiglio e il Sindaco, cercò di far temporeggiare la Giunta, la quale, avuto poco dopo un voto di fiducia dal Consiglio, rinunziò a dimettersi.

La Camera si era occupata del caso di Andrea Costa eletto deputato, il quale non aveva scontato ancora una pena, e aveva concesso che fosse arrestato, e del caso Sbarbaro, rieletto mentre era in carcere, e aveva negato l’autorizzazione allo scarceramento.

Questi fatti indussero il Governo a modificare la legge elettorale politica. La modificazione consisteva nello stabilire che i cittadini condannati a pena, la quale non portasse con sè interdizione o sospensione dei pubblici uffici, fossero ineleggibili soltanto per il tempo che durava la pena.

La legge sulle Opere Pie era andata al Senato, il quale in quell’anno aveva dimostrato un grande accordo d’idee con la Camera elettiva, forse perché l’on. Crispi lasciava spesso Montecitorio per andar alla Camera vitalizia, e vi faceva udire sulle diverse quistioni, la sua parola autorevole. Neppure il disegno di legge sulle Opere Pie non incontrò seria opposizione fino all’articolo 87, anzi fino al comma 2° di quell’articolo, che la commissione aveva proposto fosse soppresso.

Quel comma del progetto governativo diceva che i lasciti e legati ed Opere pie o di culto, che non fossero più rispondenti ai bisogni della popolazione del luogo, si potessero volgere ad altro scopo. I senatori avevano veduto in quella disposizione di legge una misura che offendeva il sentimento religioso. Il senatore Ellero ne propose il ripristinamento, l’on. Crispi l’appoggiò con gran forza e disse che desiderava che anche in quella parte il Senato confermasse le deliberazioni sancite dalla Camera elettiva, nel caso contrario, non potendo giungere ad un accordo fra Senato e Governo avrebbe dovuto interrogare gli elettori. Il serio consesso non si sgomentò della minaccia dello scioglimento della Camera e respinse il ripristinamento del comma con 93 voti contro 76. In quella stessa seduta l’on. Crispi disse che la discussione del progetto di legge intendevasi sospesa, perchè egli doveva prendere gli ordini sovrani.

Il giorno dopo ritorno al Senato e dichiarò che dopo aver conferito con i suoi colleghi in Consiglio, pregava il Senato di continuare la discussione.

La legge fu prontamente votata e doveva tornare alla Camera. Si trattava di un triplice