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senza denari, e, che per dare una soluzione alla lotta tra New-York e Filadelfia, le quali aspiravano alla capitalità, dissero: «Fabbrichiamo una nuova città». Ed ecco sorgere Washington con i denari della nazione».

Parlò del Sella notando che il sistema di lui perseguitava l’Italia e specialmente quella legge del 1864, che toglieva ai Comuni i dazi di consumo. Rispose colle cifre alle cifre dei suoi avversari, che dicevano che quel che egli voleva fare a favore di Roma sarebbe dannoso ai piccoli Comuni, «che si sacrificavano le città alle campagne» perché a queste non bastano i dazi di consumo e aggiunse:

«Ora è egli possibile che noi, dopo 20 anni, dobbiamo ancora discutere sul modo di costruire edifici nazionali per mettere realmente radice a Roma? Ma questa in cui siamo non è dunque la nostra casa? E mentre il Papa abita pomposamente, con un lusso orientale, palazzi stupendi, la Grande Maestà d’Italia deve adagiarsi in un cortile».

Il Presidente del Consiglio disse inoltre che il Comune nel quale risiede la capitale ha doveri che non hanno gli altri, ed è necessario che il Governo gli accordi diritti corrispondenti a questi doveri. Presentò come modello l’ordinamento di Londra e della utilità del local governement board che rende annualmente conto del suo operato alla Camera, e così i lavori di Londra sono votati dal Parlamento.

Dimostrò il Crispi che in Italia non poteva avvenire l’accentramento alla capitale della vita della nazione per la breve distanza che corre tra una città e l’altra, e come del resto questo accentramento sarebbe impossibile perché le altre città illustri quanto Roma si ribellerebbero. Pregò che si lasciassero le ubbie, che non si pensasse alle gare municipali, perché «il paese ha maggior buonsenso di quanto non crediate» e avrebbe compresa la necessità dei provvedimenti a favore di Roma.

«Più ci allontaniamo dai giorni della grande rivoluzione, e più gli animi diventano gelidi e meschini, quasi antipatriottici. Ritorniamo alle nostre origini, a quei concetti, a quelle grandi idee, senza le quali non avremmo mai atterrato i sette principi, non avremmo atterrato il Papato e non saremmo a Roma!»

Il 28 furono presentati alcuni documenti sull’Africa riguardanti l’occupazione di Keren e dell’Asmara.

Il primo documento che portava la data dell’8 ottobre 1889, era un telegramma del Crispi all’Antonelli, nel quale confermava l’accordo preso affinchè le truppe, appena Menelik avesse impegnata la lotta con Johannes, si spingessero fino all’Asmara e al Gura.

Il Crispi appoggiava l’Antonelli sollecitando la spedizione, ma il ministro della guerra opponeva mille difficoltà e diceva che erano necessari per organizzar la spedizione 100 milioni, 25,000 uomini e tre mesi di tempo. Ma il Presidente del Consiglio tenne duro e il Bertolè Viale finì per cedere. Chiesto il parere del Baldissera, diede l’ordine della marcia. Il 26 gennaio, il ministro della guerra ordinava la sospensione della spedizione, visto che il Negus era vincitore, e il Crispi disapprovava, ma il suo collega rimaneva irremovibile. Intanto in Abissinia si succedevano fatti che pareva dovessero aprire la via dell’altipiano agli italiani: Debeb, perdonato, prendeva le armi, sconfiggeva alcuni capi e occupava l’Asmara, mentre il Barambas Kafel muoveva su Keren. A Roma continuavano le incertezze e la lotta fra i due ministri, lotta che non cessava neppure alla morte di Johannes, e così passavano senza nulla di notevole aprile e la metà di maggio. A questo punto il Baldissera era avvertito del tradimento di Debeb, e reclamava allora l’immediata occupazione, e,