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Quella ordinata dal Governo sulla amministrazione comunale, e della quale facevano parte il senatore Inghilleri, i prefetti Guala e Winspeare, e il comm. Bertarelli, aveva lavorato tre mesi e presentò nel febbraio la sua relazione all’on. Crispi. In seguito a quella relazione era stato chiamato da Bologna il comm. Bordoni per riordinare l’ufficio di ragioneria.

Il Sindaco Armellini, e la Giunta comunale nel compilare sulla fine dell’anno precedente il bilancio, erano partiti dal concetto che l’aiuto del Governo dovesse consistere nella estinzione del debito dei 150 milioni, e nella continuazione dei lavori per il piano regolatore, rilasciando al Comune di provvedere alla parte ordinaria del bilancio, che già presentava un deficit di 2,805,533, dovuta in parte alle sempre crescenti spese per i pubblici servizi e alla diminuzione dell’entrate del dazio consumo. Così non intendeva il Presidente del Consiglio; egli voleva una divisione fra i lavori di utilità municipale e quelli di utilità per lo Stato, e quando questi lavori avevano un duplice carattere voleva che a questi concorressero Stato e Comune. All’Armellini, che avevagli scritto una lettera molto generica chiedendogli che il Governo prendesse una risoluzione, rispose in questo senso.

La Giunta aveva già date le dimissioni, ma chiese la pubblicazione delle lettere fra l’Armellini e il Presidente del Consiglio.

Intanto l’on. Crispi aveva nominata una commissione composta dei senatori Ferraris, Valzecchi e del comm. Bertarelli per classificare le opere da terminarsi e da iniziarsi. Il 7 aprile, quando l’Armellini comunicò in Consiglio le due lettere, dovette confessare che la nomina della commissione era stata fatta ad insaputa del municipio; questo procedimento poco cortese valse forse a lui e alla Giunta un voto di fiducia del Consiglio.

Alla crise finanziaria veniva per conseguenza ad aggiungersi a Roma quella economica per la sospensione dei lavori municipali ed il disagio era grande, e infinito il numero degli operai disoccupati. Molti si facevano rimpatriare, ma quelli che avevano posto radici qui, che si erano creati una famiglia, rimanevano e soffrivano. Fra tanta miseria trovavano un propizio terreno di cultura le teorie sovversive, e gli operai che stavano a stomaco vuoto riuniti negli stanzoni delle case non finite sulla via di San Lorenzo, fuori di Porta Pia, o in Prati, ascoltavano volentieri la lettura degli scritti del Malatesta o di altri promettenti un’èra di rivendicazione e di eguaglianza sociale.

Era terminato, dopo un lungo dibattimento, il processo contro i 32 imputati per i fatti del giorno 8 febbraio 1889, con l’assoluzione di 29 fra essi; tre erano stati condannati a pene minime, computato il carcere sofferto, cioè Gnocchetti, Costantini ed Eustachi, cosicchè essi pure furono rimessi in libertà, e questi stessi ed altri comparvero al comizio dei disoccupati, che fu tenuto nel quartiere dei pompieri alla Cernaia, presenti 100 carabinieri, 100 guardie di pubblica sicurezza e un battaglione di soldati. Uno degli oratori, certo de Santis, concluse il suo discorso dicendo: «Crispi, ex-rivoluzionario, ha detto che in Italia non ci sono più rivoluzionari veri, mostriamogli che ha torto. L’unico mezzo che ci rimane è di prendere le armi».

A queste parole si avanzarono i delegati e sciolsero il comizio. Il de Santis fu arrestato e i disoccupati si riunirono nella sala dei Reduci, deliberando «di fondare una vasta associazione che riunisca tutti i lavoratori di qualsiasi mestiere o professione, mediante la quale, assieme agli sfruttati del mondo intero, potremo abbattere tutti i privilegi, ed emanciparci dalla schiavitù capitalistica di un falso ordinamento sociale».

Questo era parlar chiaro, e le tenebre minacciose si addensavano sempre più su Roma.

Un solo raggio confortatore era venuto fra tanta rovina e tante miserie a rialzare gli animi;