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rale dopo l’ultimo voto. Se il Minghetti avesse avuto minor fiducia in se stesso e avesse prestato orecchio ai suggerimenti degli amici e della stampa del suo partito, che gli consigliavano di associarsi il Sella nel governo, forse la catastrofe del vecchio partito, che aveva in mano da tanti anni i destini del paese, sarebbe stata ritardata, ma egli non volle, e presentando alla firma del Re il decreto di scioglimento della Camera, non solo fece sottoscrivere la propria esclusione del Governo, ma la esclusione del partito suo.

Non era giovato a nulla che egli avesse chiamato il Bonghi all’Istruzione Pubblica, ci voleva un uomo politicamente influente, un ministro delle finanze che avesse un concetto chiaro della situazione finanziaria del paese, il quale davanti alla Camera nuova potesse tener fronte alla Sinistra.

Questo partito, indebolito anch’esso nel precedente periodo per le divisioni fra la Sinistra parlamentare, capitanata dal Cairoli, e la Sinistra giovine, guidata dal vecchio De Luca, si era immensamente rafforzato nel meeting di S. M. la Nova a Napoli, nel quale si erano veduti Nicotera e San Donato lavorare insieme a ordinare il movimento elettorale nei collegi della città e delle provincie circostanti.

A Roma il partito di Sinistra e quello più avanzato della Capitale, fecero le elezioni sul nome di Garibaldi. Egli fu portato nel 1° e nel 2° collegio, come protesta contro il Governo. Si tenevano numerose adunanze e il Luciani specialmente, si dava moto per farlo riuscire. Garibaldi, che non era mai venuto a Roma, dopo l’occupazione, aveva qui numerosi ammiratori, anche non repubblicani; ammiratori del suo valore, della sua gloria. Si cominciò a dire e a scrivere che gli stranieri c’invidiavano l’eroe dei due mondi, il condottiero invincibile, e anche molti moderati votarono per lui. Egli riusci eletto nei due collegi, nei quali aveva di fronte Vincenzo Tittoni e Giuseppe Biancheri, presidente della Camera. Nel 2° collegio fu eletto Samuele Alatri, di parte moderata, nel 3° Guido Baccelli, contro Pietro Venturi e nel 4° Giuseppe Luciani contro Augusto Ruspoli.

La sconfitta del Governo a Roma era dunque quasi completa, perchè, meno che l’Alatri, nessuno dei candidati del Governo era riuscito. L’incuria, l’inerzia loro parve quasi fatalità. Mentre gli spinti si arrabattavano per preparare le elezioni, e il Luciani, il duca di Sermoneta, che aveva rifiutato la candidatura, e Odescalchi, muovevano causa al prefetto Gadda, accusandolo di avere iscritto sulle liste elettorali gl’impiegati, i moderati non riuscivano a tenere una adunanza. La tennero finalmente alla Sala Dante, sotto la presidenza di Terenzio Mamiani, e fu numerosa, ma prima che concordassero una lista passò molto tempo, così che si presentarono alla battaglia avendo un avversario come Garibaldi, senza saper neppure su quali forze potevano contare. Il loro nome di battaglia era il Biancheri e neppur lui fu eletto.

Del programma del partito moderato, che era pur quello del Ministero, Roma rifiutò tutto e preferì l’incerto che le offriva un cambiamento radicale nella politica, a quello che le prometteva il Ministero Minghetti. I giornali clericali gongolarono della sconfitta e per provarlo cito le parole dell’Osservatore Romano:

«La lezione pel Governo è dura; ma altresi giusta e meritata.

«A Roma, lo possiamo ripetere con le parole del conte Mamiani, non v’ha posto che pel Papa o per Cola di Rienzo».

Il giorno dell’apertura del Parlamento i Romani smentirono queste asserzioni del foglio clericale, dimostrandogli che vi era posto anche per il Re, acclamandolo con vero entusiasmo per tutte le vie dalle quali passò per andare a Montecitorio.