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In occasione della festa dello Statuto l’on. Minghetti aveva ricevuto il collare dell’Annunziata, e in quel giorno aveva seguito il Re a cavallo alla rivista, vestito da maggiore di Stato Maggiore, grado che egli aveva dal 1848. Si rise un poco allora del militarismo del Minghetti, e specialmente della sua divisa tanto poco conforme al regolamento, ma il militarismo trionfava in Europa e non era strano che Marco Minghetti pure esumasse la vecchia uniforme.

L’«Orénoque» il vecchio e sconquassato bastimento francese, che aveva fatto spargere tanto inchiostro sulla carta, dopo quattro anni d’immobilità, la mattina del 14 ottobre, aveva scaldato la macchina e si era allontanato. Il comandante aveva prima scambiato le visite con quello dell’«Esploratore» e il paese era rimasto indifferente alla partenza. Il Governo di Versailles fece inserire nel Journal Officiel una nota e mise il «Kléber», che era a Bastia, a disposizione del Papa. Naturalmente in Vaticano furono afflitti della partenza, che chiudeva la spedizione francese in Italia. Il Papa ne era stato avvertito dal signor de Courcelles e dicesi non facesse osservazioni ne lagnanze; egli ormai non voleva partire.

In quello stesso tempo la polizia fece a Roma, in una casa in via Marforio una curiosa scoperta: essa sorprese una piccola banda di zuavi carlisti romani, tutti ex-soldati pontificii, che erano armati alla meglio e comandati da un certo Emidio Lottera, ex-sergente papalino. Essi erano già stati in Ispagna, ed avevano fatto ritorno a Roma per preparare una nuova spedizione. Furono sequestrate carte, proclami e nel convento di Santa Maria della Scala in Trastevere anche una bandiera di seta rossa e gialla col Sacro Cuore, ricamata da alcune signore, e sormontata da questa iscrizione a lettere d’oro:

«El corazon de Jesus es commigo!»

Il capo di questa minuscola cospirazione carlista, era il comm. Gioacchino Monari, già intendente dell’esercito pontificio e vice-presidente della «Società dei Reduci delle battaglie per il Papato». Il prefetto ordinò lo scioglimento della società e deferì gli arrestati al potere giudiziario.

Molti lutti avevano funestato Roma; era morto il generale Gibbone, avvelenato dal suo attendente a scopo di furto, il comm. Antonio Cipolla, valente architetto napoletano, che aveva lavorato molto a Imola, a Bologna, a Firenze e qui, il conte Des Ambrois, presidente del Senato, il generale Sirtori, tutti uomini che lasciarono un vuoto, e la cui morte era una perdita per il paese. Al Sirtori, per sottoscrizione pubblica, fu eretto un monumento.

Chi, alla fine del 1874 avesse percorso Roma, gli sarebbe apparsa sensibilmente abbellita. Il quartiere del Castro Pretorio incominciava a prendere un aspetto elegante. Già era terminato il villino del Re, occupato dalla legazione di Turchia, e poi quello Berretta, l’altro Servadio e il bel palazzetto De Renzis, tutti situati in piazza dell’Indipendenza; in via Nazionale i signori Guerrini avevano fatto costruire dall’ingegner Partini l’«Albergo del Quirinale», esercitato dal signor Costanzi; il palazzo della Cassa di Risparmio, opera del Cipolla, era terminato e l’«Albergo Bristol», costruito dall’architetto Azzurri per ordine del principe Barberini, già ornava la piazza omonima.

Tra le nuvole di polvere delle demolizioni e degli sterri, s’incominciava a intravedere la nuova Roma, la Roma moderna, che tanti agognavano di veder sorgere emula, accanto all’antica.