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«L’Italia resa indipendente è divenuta un pegno di pace in Europa; le sue provincie divise si sono insieme congiunte; Roma capitale ha coronato l’opera nella unità nazionale e consacrato un principio non meno salutare alla religione che alla civiltà.

«Tutto ciò si deve, dopo Iddio, alla virtù del popolo italiano.

«Il soffio della libertà risvegliò le gloriose tradizioni dei municipi. Coltivate quelle tradizioni con amore, esercitate con zelo le franchigie locali, essendo regolate dalla legge, subordinate alla unità della nazione, esse perdono gli antichi pericoli e sono sorgenti di vita, di operosità, di progresso.

«Signori, Noi potremo dire di avere bene spesa la vita se lasceremo ai nostri figli una patria non solo unita e libera, ma bene ordinata, prospera e concorde».


L’assessore Galletti a nome del Consiglio comunale di Roma, presentò al Re una bellissima pergamena, sulla quale era scritto:

«O invocato da secoli, Re liberatore, che nel tuo nome porti gli auspicii della Vittoria e della Provvidenza, quanto mutar d’uomini, di fortuna, di pensieri, Tu, incrollabile custode del giuramento paterno, vedesti nei tuoi primi venticinque anni di Regno, cominciato col 23 marzo 1849, quando raccogliesti nel sangue le lacere bandiere della patria, finito il 23 marzo 1874 tra le benedizioni trionfali delle genti italiche, saldate in un popolo solo, che il tuo esempio conferma nella fedeltà dell’onore, nel culto della libertà!

«Roma, che vede conclusa col suo Re la gloriosa epopea della Tua eroica giovinezza, riapre per Te la sua storia ed augura che la Tua mano virile vi scriva la pagina più gloriosa


Anche per ringraziare Roma, il Re trovò parole affettuose e alte. L’assessore Galletti presentò quindi al Re la deputazione dei Rioni, guidata dal marchese Calabrini, che offrì a S. M. l’album contenente 20,000 firme. Il marchese tentò di esprimere i sentimenti proprii e quelli dei suoi compagni, ma era così commosso che non poté pronunziare neppure una parola. Il Re capi e volgendosi a lui gli disse:

» Assicuri la popolazione romana del mio affetto per lei e della premura che ho per il suo benessere».


La deputazione della Guardia Nazionale era ancora nella sala del trono, quando sulla piazza il popolo chiedeva già di vedere il Re, di ripetergli con una calorosa ovazione, i sentimenti di cui si erano resi interpreti i suoi rappresentanti. Vittorio Emanuele si affacciò alla loggia, e un grido alto unanime scoppio da ogni parte.

La festa non si limitò a Roma soltanto; ogni sodalizio, ogni Comune d’Italia spediva telegrammi, lettere, augurii, per modo che nella segreteria della casa di S. M. non si faceva a tempo ad aprirli

Tutti pregavano dal cielo vita, salute e forza al Re, nelle Chiese cattoliche, come nei templi di altre religioni. A Roma alla Sinagoga il Rabbino Coen, dopo preci e cantici, invocò: «pace e felicità all’Augusto nostro Sovrano e liberatore Vittorio Emanuele II, Re d’Italia e alla regale famiglia»; nel tempio protestante di piazza Randanini voti eguali erano rivolti a Dio dal pastore; soltanto le chiese di Roma restavano mute di preci e deserte e i clericali, mostrando poco tatto, andavano al Vaticano a fare una dimostrazione al Papa.

La sera del 23 all’«Apollo» vi fu una serata di gala a invito distribuito dalla Corte. La platea era tutta occupata dalla Camera e dal Senato; alcuni palchi di 2° ordine, ridotti a gallerie, erano destinati al Corpo diplomatico. Gli occhi di tutti erano fissi sul marchese di Noailles, nuovo mi-