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vano più fatti e meno discorsi. Questo malcontento crescente, staccava sempre più gli elettori dalla parte moderata, dai consiglieri, e anche dai deputati di Roma, ma di ciò vedremo quando si tratterà delle elezioni.

Intanto il Governo di Destra, presieduto dall’on. Minghetti soffriva una sconfitta nel rigetto del progetto di legge per l’istruzione obbligatoria. Il Lioy lo combattè vivamente, sostenendo che l’obbligo della istruzione era contrario alla libertà individuale e che non si avevano nè scuole, nè maestri. Anche il De Sanctis si era schierato fra le file degli oppositori. Pareva che il Correnti, relatore del progetto di legge, si fosse peraltro assicurato un voto favorevole, quando nella seduta del 5 febbraio resultò una votazione segreta contraria. Lo Scialoja, ministro della pubblica istruzione, si dimise e l’interim del ministero fu affidato al conte Cantelli, ministro dell’Interno.

L’opera dello Scialoja, nel tempo che era stato al governo, si era estrinsecata in utili provvedimenti, specialmente per Roma. Egli aveva dato impulso alla scuola di applicazione per gl’ingegneri e le aveva accordato il convento di San Pietro in Vincoli, ov’è tuttora; aveva provveduto all’Università, aveva riordinato l’Accademia di Santa Cecilia e quella di San Luca, e sotto la sua amministrazione gli scavi del Colosseo erano stati spinti alacremente, tanto che si era restituito alla luce il podio imperiale e il bacino dell’anfiteatro, e si erano tolte tutte le cappellette che alteravano le linee del grandioso monumento di Flavio. Il Fea, al principio del secolo, avea incominciato quei lavori, ma perseguitato dal potente Bianconi e dal Governo pontificio, dovette rimettere a sue spese la terra al posto e distruggere così il lavoro fatto.

Questi scavi del Colosseo dettero luogo a nuovi attriti col Vaticano e scandalizzarono i fedeli. Mentre si toglievano i tabernacoli della Via Crucis, il pulpito e la grande croce, che era nel centro del monumento, il senatore Rosa scrisse al cardinal Guidi, protettore della «Associazione degli Amanti di Gesù e Maria», dicendogli che lo pregava di ritirare i tabernacoli che vi erano stati posti nel 1749 da Benedetto IX. Il Cardinale rispose che avrebbe informato Sua Santità. La lettera del Papa non si fece aspettare. Ingiungeva al Cardinale di protestare e non tollerare che i tabernacoli fossero tolti, altro che come atto di forza maggiore. Contemporaneamente si facevano tridui a Sant’Andrea della Valle contro la profanazione del Colosseo, e non mancò neppure un pellegrinaggio di fedeli, guidati da un vescovo, con dimostrazione di lacrime e di baci alla terra, bagnata in altri tempi dal sangue dei martiri cristiani. Era doloroso, ma inevitabile che le esigenze della vita moderna urtassero il sentimento dei devoti. Roma, divenendo città italiana, cessava di essere un luogo di pio pellegrinaggio per i credenti, i quali non potevano ammettere che si volesse restituire ai monumenti il loro carattere primitivo.

Per capire che effetto dovesse produrre, non dirò ai Romani, indifferenti per atavismo a tutti gli eventi che sono passati da secoli e secoli sotto i loro occhi, ma ai cattolici stranieri, che mettono tanto ardore nella loro fede, la vista del Colosseo spoglio della Via Crucis, basta riprodurre un brano scritto da Luigi Veuillot nel suo Parfum de Rome. Eccolo: «Alla croce del Colosseo sono appesi tutti i nostri titoli di nobiltà; essa è il simbolo della nostra salvezza, il monumento del nostro onore. Siccome era per affrancare il genere umano che là si combatteva, Cristo vi chiamò da ogni parte i suoi eroi. Folla santa, di ogni età, di ogni condizione, di ogni paese! Qual cristiano non può dire di aver là un antenato? Quando mi prostro su quella terra, sento fremere il mio proprio sangue».

Questi i sentimenti dei cattolici ultramontani, feriti continuamente dalla applicazione delle leggi, e dai lavori e dalle manifestazioni della nuova vita italiana. Anche l’applicazione della legge Casati