Ricordi storici e pittorici d'Italia/Siracusa
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Traduzione dal tedesco di Augusto Nomis di Cossilla (1865)
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SIRACUSA
1855.
Vidi per la prima volta il paesaggio grandioso di Siracusa al momento in cui il sole stava per tramontare, illuminando tutta la contrada dal mare Jonio ai monti d’Ibla, di quelle tinte calde, le quali non si vedono che sotto il cielo di Sicilia. Non potrei esprimere con parole l'impressione che tal vista mi produsse. Neppure in cima all'Etna, di dove si scorgono l’isola tutta quanta, tre mari, le coste d’Italia, io non mi sentii scosso come nel vedere tra il profondo silenzio di una bella sera, questi ampii e morti campi di Siracusa. Gli spettacoli della natura parlano meno all’anima che la storia; dessi non hanno ricordi, e l’uomo non vive che per le memorie.
Ero arrivato dall’antica Leonzio (Lentini) patria del sefista Gorgia, sboccando sulla strada di Catania, e passando davanti alla deserta penisola di Magnisi, l’antica Tapso, e lungo il porto Trogilo (lo Stentino). Ivi s’innalza, circa un duecento piedi sopra il livello del mare un altipiano, che scende di ogni parte quasi a picco, della forma di un vasto triangolo, il quale ha per base il mare, e per vertice, entro terra, il monte Eurialo. Ivi sorgeva, occupando tutto l’altipiano, l’antica Siracusa, la quale scendeva fino all’isola di Ortigna, unita alla terra ferma per mezzo di una diga.
Giunto in alto, vidi l’ampio territorio della città, l’isola colla povera Siracusa d’oggidì, dalle due parti i due stupendi porti, ed a tergo il capo Plemmirio, paesaggio serio maestoso al quale non troverei altro a paragonare per grandiosità di stile, fuorchè la campagna di Roma. Verso terra sorgono i cupi monti d’Ibla, imponenti di forme, ed ai loro piedi volge le sue onde il mare Jonio, coperto un tempo di numerose flotte, e testimonio di battaglie navali, quali solo l’Inghilterra moderna potrebbe vantare uguali. Magri oliveti che crescono a stento su quella pianura sassosa, danno colla loro tinta grigia un aspetto malinconico a questa classica solitudine. Dovunque si volga lo sguardo, sorgono in folla le memorie di tempi trascorsi, di generazioni scomparse, che fu pure questo, teatro di grandi avvenimenti storici. Alla distanza di miglia non si vede altra creatura viva che uccelli di rapina, accovacciati sulle roccie giallognole, o che inseguono la preda. Arido e sassoso quanto l’altipiano, compare dalla parte opposta il capo Plemmirio, fra il quale e l’isola di Ortigna, si apre la bocca di quel porto che i Siracusani avevano sbarrato a Nicia con navi e con catene. Tutta quella spiaggia di curve belle e grandiose, è totalmente morta, e colà dove si stendeva una corona non interrotta di giardini, di ville, non si scorge più che una capanna, una qualche casuccia di pescatori; tutto è deserto, arido, ed in alcuni punti paludoso; soltanto dove l’Anapo sbocca in mare, le canne palustri, i pioppi, la pianta del papiro, segnano il corse del fiume, o del rivo Ciane, o della Palude siraca, dalla quale la città aveva tolto il nome.
Proseguii la strada deserta verso l’isola, osservando i numerosi sepolcri scavati da ambo i lati nella roccia, ed i bizzarri accidenti di cave abbandonate. Presso al piccolo porto cominciano a vedersi giardini, ed alcuni vigneti, ed ivi si raccoglie il rinomato vino di Siracusa, il quale esilarava già l’animo di Gelone, di Jerone, e di Pindaro. Una colonna, di fronte all’isola, è l’unica rovina che si scorga; dessa sorge quasi il genio della morte in quella pianura sepolcrale, facendosi per così dire le beffe del viaggiatore, alla cui imaginazione si presenta l’aspetto della grande ed illustre Siracusa, di quella città, la quale contò un tempo un milione di abitanti.
Voglio provarmi a dare un’idea, per quanto io possa precisa, di quell’antica città, descrivendola sul Inogo. Si sa che Siracusa era composta propriamente di cinque città; Cicerone non ne annovera che quattro, imperocchè non teneva a calcolo la parte superiore della città stessa d’Epipola, la quale non constava che di castella e di mura. Le cinque città erano pertanto Ortigia isola, Achradina, Neapoli, Tyche, ed Epipola. Gli studi e le ricerche di Fazello, di Cluverio, di Mirabella, non che quelli più recenti di Serra di Falco, permottone di assegnare con precisione ad ognuna delle cinque città la località occupata da ciascuna, come pure di precisare a quali edifici avessero appartenuto le rovine che tuttora sussistono.
I.
Ortigia.
L’isola di Ortigia ha la forma di un triangolo, col vertice rivolto verso il Capo Plemmirio. Oggidì trovasi tutta quanta occupata dalla moderna Siracusa, e dalle sue fortificazioni. Dessa era la parte più antica della città, consacrata da tutte le tradizioni favolose, già stanza di Artemio, e denominata Ortigia, nome che era pure quello dell’isola di Delo. Era abitata già dai Sicani, poi vennero i Corinzi guidati da Archia, i quali li scacciarono, ed edificarono Siracusa. Col tempo la città si allargò sulla costa che stava di fronte all’isola. Trovavansi in Ortigia i monumenti sacri più antichi di Siracusa, e particolarmente i tempi di Giunone, di Diana, e di Minerva. Già prima del primo Dionigi, l’isola era validamente fortificata, e questi costruiva sull’istmo un muro con torri, e con un castello, nella precisa località dove sorgeva dapprima lo stupendo palazzo di Ierone. Furono opera di Dionigi le fortificazioni dell’isola, e la darsena del piccolo porto che dopo di lui ebbe nome di porto marmoreo, Più tardi andò soggetta Ortigia a notevoli variazioni, imperocchè Timoleone atterrò il castello o rocca edificata da Dionigi innalzando sull’area di quello i tribunali, ed ebbe anzi desso sepoltura in quella località, e presso la sua tomba venne eretto il Timoleonzio, ginnasio per la gioventù. All’epoca però in cui i Romani assediarono Siracusa, trovavasi di bel nuovo sull’istmo una fortezza.
Scarsissime reliquie rimangono oggidì dall’antica Ortigia. La città attuale occupa tutta quanta l’isola, e le sue opere di difesa, le quali risalgono ai tempi bizantini, come pure ai regni di Carlo V, e di Carlo III di Borbone, la resero per la sua felice posizione naturale, una delle fortezze più imponenti del regno delle due Sicilie. Al vertice del triangolo sorge ora la torre del greco Giorgio Maniace, generale dell’imperatore Costantino Paflagonio, il quale in principio del secolo XI tolse Siracusa ai Saraceni, ed innalzò quella fortezza. Sulla porta di questa aveva collocati i due famosi arieti in bronzo, fusi ai tempi di Dionigi, i quali vennero trasportati più tardi a Palermo, dove uno tuttora si trova nel palazzo reale, essendo stato l’altro consumato in un incendio.
Non lontano da quel punto sgorga la fonte illustre Aretusa. Dessa ha origine in due antiche grotte a volta, nelle quali si scende passando per una casa privata sucidissima. Fa propriamente triste impressione il visitare quella sacre fonte, molestati da una turba di cenciosi, di mendicanti che domandano la limosina; di donne seminude, di lavandaie, che guazzano là entro in modo schifoso, offrendo acqua ai forastieri; povere caricature delle ninfe di Diana, le quali si tuffano un dì in quelle onde? Al punto dove la fonte sbocca dalla grotta, venne costrutto non ha guari un semicircolo in muratura, nel centro del quale sorge un piedestallo, il quale aspetta tuttora la statua della ninfa. Mi si fece vedere pure in mare, a poca distanza da terra l’Occhio della Zilica, nome che si dà a quella polla di acqua dolce, che sorge in mezzo a quella salsa; al punto dove, giusta la favola, Alfeo raggiunse la ninfa fuggitiva.
La migliore reliquia non solo di Ortigia, ma di tutta l’antica Siracusa, si è il tempio di Minerva. L’essere stato in gran parte ridotto a cattedrale, lo ha salvato da totale distruzione. Colpiscono tuttora le ventidue colonne del peristilio, tredici a settentrione, e nove a mezzogiorno, col loro architrave, quantunque miseramente rinchiuse nelle pareti di una chiesa. Sono stupende colonne doriche, con magnifici capitelli, e venti scannellature del diametro di poco meno di otto palmi, e della altezza di trentadue palmi, La forma del tempio era quella di un Hexastylos Peripterus con trentasei colonne, sopra un basamento di tre gradini; era lungo duecento diciotto palmi, e targo ottantasei palmi e mezzo. Dal fatto narrato da Diodoro, che i Geomori di Siracusa avevano confiscati i beni dell’appaltatore della costruzione, Agalocle, per essersi costrutta una bella casa coi migliori materiali, destinati al pubblico edificio si deduce che il tempio di Minerva risale all’epoca di Gelone in cui i Geomori non erano ancora stati scacciati dai plebei. Cicerone fa una bella descrizione del tempio nelle sue Verrine, e dice particolarmente, che nulla si poteva vedere di più bello, della parte di quello. Vi erano preziose sculture in oro ed in avorio, e parlicolarmente una testa bellissima di Medusa. Nell’interno era rappresentata sulle pareti la guerra del re Agatocle contro i Cartaginesi, e vi stavano pure dipinti i ritratti di ventisette re o signori della Sicilia, disposti probabilmente nella stessa guisa in cui si vedono dipinti i ritratti dei papi in S. Paolo, fuori delle mura di Roma. Secondo quanto narra Ateneo, sorgeva in cima al frontone dal tempio una statua in oro di Minerva, la quale era per il suo splendore visibile a distanza in mare, ed era uso che coloro i quali s’imbarcavano nel porto di Siracusa, togliessero dall’altare di Giove Olimpico un vaso di carbone: acceso, e lo tenessero in mano in fino a tanto potessero vedere la statua di Minerva. Marcello risparmiò il tempio, le sue statue, i suoi tesori; ma Verre rubò tutto, quadri, sculture, statue, e perfino la testa di Medusa; a nulla ebbe rispetto.
Si scoprirono pure alcuni avanzi del tempio di Diana, che trovavasi in Ortigia. Si vedono oggi nella corte di una casa Santoro, due colonne doriche scannellate; non hanno che sedici scannellature, e sono tanto vicine l’una all’altra, che fra le due havvi poco più di un diametra di colonna.
Sono questi gli unici avanzi dell’antica città insulare. Di tutti i suoi splendidi edificii non rimangono più vestigia, e non possono dire quanto malinconica, e misera di espetto mi sia parsa Siracusa, peggio ancora di Girgenti. Le sue strade strette, sudicie, rivelano ad ogni passo la povertà, la miseria. Non ricordo avere vista altra città, la quale mia abbia fatto tale una impressione di tristezza. I due bei porti sono morti al pari della città e dei campi sassosi di Achradina, e lo onde si frangono mestamente sulla spiaggia deserta, e silenziosa. È d’uopo contemplare quel panorama in una notte serena, di là dove sgorga la fonte Aretusa, per avere una idea precisa della malinconia del passato. La notte mi parve ivi più mesta, più fantastica, che nelle stesse rovine del palazzo dei Cesari dell’antica Roma, ed ivi si prova una vera nostalgia per l’antica Grecia, patria ad ogni eletto ingegno. Nella notte, presso il porto più ampio, splendono alcuni fanali fra gli alberi della unica passeggiata degli odierni Siracusani: sorgono ivi due meschine statue di Ierone e di Archimede ed ivi passeggiano lentamente su e giù gli odierni Siracusani, poveri, malinconici, senza coltura, senz’arti, senza industria, ridotti alla misera vita di abitanti di una povera terricciuola, curvi sotto l’esecrato dispotismo di Napoli. Non ricordo aver veduta una bella fisionomia in tutta la città, e solo il lampo dello sguardo di una signora che mi passò davanti, tutta vestita di nero, mi richiamò ai tempi di Aristippo, e della siciliana Laide.
Nel contemplare dalla spiaggia quel bel porto deserto, dove non scorgevansi che due piccoli legni mercantili turchi, mi ricorrevano alla memoria le parole di Cicerone «Nihil pulchrius quam Syracusanorum portus, et mænia videre potuisse» E difatti il commercio dell’antica Siracusa, non era punto minore di quello di Costantinopoli nei suoi tempi più floridi.
Conviene visitare il museo che trovasi in faccia alla cattedrale, per provare ivi pure un senso di mestizia. Si sono radunati ivi tutti gli avanzi dei capi lavori dell’arte antica in Siracusa, e vi stanno ammonticchiati, quasi rottami, per entro le pareti di una povera stanza. Trovasi ivi pure la famosa Venere Siracusana, mancante della testa, e mutilata del braccio destro. Col sinistro raduna il drappo attorno al corpo, mentre il destro era ripiegato sul seno. È rappresentata nell’atto di uscire dal bagno. È di aspetto florido, forte, e rigoglioso; una Venere per Michelangelo. Fra le varie statue rinomate della Dea dell’amore, quali sarebbero quelle di Milo, di Capua, del Campidoglio, di Firenze, la Venere di Siracusa non è tanto distinta per la grazia, quanto per il pieno sviluppo della bellezza femminile, La sua attitudine non porge quella movenza alquanto civetta delle Veneri di Firenze, di Roma; dessa riposa quieta nella coscienza della sua sensualità. divina. Non si comprende come abbia potuto sfuggire allo sguardo rapace di Verre questa stupenda statua, la quale venne scoperta dal cavaliere Landolina in un giardino della famiglia Bonavia a Siracusa nel 1804, e che diede occasione alla formazione di questo museo, per il quale molto si adoperano fin dal 1809 lo stesso cavaliere Landolina, degno emulo del Mirabella, ed il vescovo Filippo Maria Trigona. Trovansi riuniti in esso alla rinfusa, alcuni vasi, statue, iscrizioni greche, bronzi, ed anticaglie di ogni qualità. La Sicilia non possiede un musco nazionale; se si riunissero le collezioni sparse di Nolo, di Girgenti, di Siracusa, del museo Biscari a Catania, di quello di Palermo, a cui bastaro a dare importanza le metopi di Selinunte, si potrebbe formare una collezione nazionale di riguardo, e che per le monete particolarmente, troverebbe difficilmente l’uguale.
II.
Achradina.
La seconda e la più bella parte della antica Siracusa, era Achradina. Era contigua per così dire ad Ortigia, e vi si avava accesso dall’isola, passando sull’argine o diga, la quale portava prima di tutto allo stupendo faro. Si stendeva Achradina lungo tutta la costa a levante, imperocchè a levante ed a settentrione si bagnava il suo territorio in mare, mentre a ponente era questo circoscritto da Tycha e da Neapoli, ed a mezzogiorno dall’isola, e dai due porti. Era cinta da ogni parle di mura, le quali dovevano essere molto forti, imperocchè Marcello dopo essersi reso padrona di Tycha, di Epipola, e di Neapoli, trovò in Achradina vigorosa resistenza, e forse non vi sarebbe penetrato senza il tradimento dello Spagnuolo Merico, che cedette per denaro l’isola ai Romani, rendendo con ciò inutile la difesa di Achradina. Verso il mare era protetta da quelle mura, nelle quali Archimede aveva fatto praticare feritoie, per poter far agire le sue macchine meravigliose.
Cicerone dice; la seconda città di Siracusa ha nome Achradina, trovansi in esso il foro principale, bellissimi portici, uno stupendo pritaneo, una vasta curia, ed un tempio magnifico di Giove Olimpico; gli altri quartieri della città sono occupati da un’ampia via maestra in senso longitudinale, da varie strade trasversali, e da private abitazioni. Anche oggidì rimane Achradina il campo più rimarchevole e più vasto di rovine di Siracusa. Consiste in un altipiano di roccia calcare, di tinta nera, la quale trovasi quasi dovunque scoperta a fiore di suolo, decomposta dall’azione del tempo, e dove si scorgono traccie di numerose strade, vestigia di passaggio di carri, dove si trovano sepolcri, ponti in pietra, fondazioni di case, piazze, e dove si può riconoscere tuttora il corso, l’andamento, della via Lata.
Si arriva ad Achradina dall’isola, o passando per i tre ponti levatoi delle fortificazioni che tagliano l’istmo, ovvero per mare, imbarcandosi nel piccolo porto, e scendendo a terra al disotto del convento dei Cappuccini, imperocchè piccole chiese, e conventi, S. Maria di Gesù, S. Lucia ed i Cappuccini, sorgono isolati e malinconici, su quell’altipiano. Oltrepassato l’argine, trovasi dapprima in un punto piano la fonte degl’Ingegneri, presso la quale sorge quella colonna isolata di cui ho fatto già parola, unico segno visibile, della antica città. Avendo dessa una base attica, ed essendo senza scannellature, non può dirsi dorica; e Serra di Falco ritiene possa avere appartenuto al tempio di Giove, che Ierone II fece costrurre nel foro; se non che le dimensioni troppo esigue della colonna stessa non permettono accettare questa spiegazione. È certo per contro, che il foro doveva trovarsi in questa località; imperocchè nessun’altra sarebbesi trovata ugnalmente adatta a servire alle due città di Ortigia e di Achradina. Una porta a cinque archi portava al foro, il quale era tuttora attorniato di portici. Trovavansi ivi pure il pritaneo, e la curia, di cui non rimane il menomo vestigio; ed anche la così detta Casa dei sessanta letti, avanzo di un antico edificio, viene ritenuta senza fondamento, rudere del palazzo di Agatocle.
In mezzo ad Achradina, e circa al punto culminante dell’altipiano, trovansi le famose latomie, od escavazioni nei sassi, che ora portano nome dei Cappucini, per averle quei monaci ridotte ad uso di giardini; imperocchè all’ingresso di quelle sorge il convento di quei padri, solitario ed isolato, ma con bella vista sulla città e sul mare. Tutto all’intorno si stende la pianura deserta e morta di Achradina, e si direbbe che la natura colpita dallo sguardo di Gorgona, sia stata tutta ad un tratto convertito in pietra. La campagna di Roma è bella, colla sua lussureggiante vegetazione, colle sue graziose colline, con suoi sepolcri e colle sue torri solitarie, circondate di edera, e non si potrebbe trovare teatro più adatto per i grandi fatti delle storie antiche. Qui per contro tutto ha aspetto di decadezza, di abbandono, e non si vedono che i Capuccini aggirarsi solitari per quella pianura sassosa, per entro a quei labirinti scavati nel sasso. Mi rimpromettevo molto da queste latomie, per quanto ne avevo letto ed udito: però desse superarono la mia aspettazione. Un monaco mi aprì la porta, e tutto ad un tratto mi trova in un ampio recinto, scavato dalla mano dell’uomo nel vivo sasso. Trovai stanze dell’ampiezza di una piccola piazza, colle pareti tagliate a picco, dell’altezza di ottanta piedi, parte della tinta giallognola propria delle rovine greche, parte di colore rosco armonico. L’edera le ricopre in gran parte, arrampicandosi su per quelle in cerca del sole, e della luce, e ricadendo quiadi in graziosi festoni; il piano è smaltato di fiori, e qua e là nelle fessure della roccia, crescono allori, leandri e pini. Queste latomie erano un tempo coperte; si erano lasciati a sostegni pilastri naturali, ma il tetto rovinò quasi dovunque per il tempo, per le intemperie e per i terremoti; ed i massi giacciono confusamente ammonticchiati, formando gole, stretti, valli, in guisa, da dare imagine in miniatura di una catena di monti. Gli spazi aperti alla luce, furono dai capuccini ridotti ad orti, a giardini, che possono dirsi il contrapposto degli orti pensili di Semiramide, trovandosi alla profondità di sessanta ad ottanta piedi dal livello del suolo, ed in quelle cavità vegetano stupende piante di aranci, di melagrani, vili, cipressi, mirti, e non mancano neppure erbe e legumi, che i monaci coltivano per la loro parca mensa. In una di queste latomie mi colpì un bel colpo d’occhio; vedevasi sorgere fra le alte pareti tutte rivestite d’edera, il convento sull’orlo della cavità, ed alcuni pini penzolanti su questa. Si dimentica che queste profondità così pittoriche furono orribili prigioni, e che dopo la sconfitta toccata a Nicia ed a Demostene, quivi furono rinchiusi gli Ateniesi. Molti perirono per febbri, per lo scarso nutrimento, per la malinconia, altri andarono debitori della loro libertà alla declamazione dei versi di Euripide. Queste latomie potrebbero contenere ben un sei mille uomini, e sarebbe dillicile trovare una prigione, in cui fossero malagevoli del pari le evasioni. Trovandosi desse nel bel mezzo di Achradina, si comprende che furono anteriori alla fabbricazione della città. Vuolsi con probabilità che abbiano lavorato a queste escavazioni, dopo la battaglia d’Imera, i prigionieri Cartaginesi, per la estrazione dei materiali richiesti alla fabbricazione delle case, e dei tempii di Siracusa. I ruderi, e le terre cadute hanno rialzato il loro suolo di circa trenta piedi, in guisa che la loro profondità primitiva, era propriamente straordinaria. Sembra che il sasso sia stato tagliato di alto in basso, anzichè in senso orizzontale. Si vedono tuttora parecchie gallerie, anditi coperti, portici, stanze di forma quadrata, ed anche talune a volta, le quali pertanto non sono di origine greca, e porgono piuttosto il carattere di catacombe cristiane. Procedendo oltre dalle latomie sul suolo della Antica Achradina, si vedono dovunque traccie di antiche strade, impronte delle ruote dei carri, come pure si trovano queste a Pompei. Spesso s’incrocicchiano le une colle altre, e fa senso trovarle in tanta quantità, e così visibili, dacchè le traccie delle ruote non s’imprimono nella pietra calcare di Siracusa, con tanta facilità, quanto nel tufo di Roma. Trovai queste traccie delle ruote più abbondanti in vicinanza delle latomie, ed è facile argomentare che vi dovettero essere impresse dai carri che asportavano i materieli di costruzione, estratte da quelle. Del resto anche nei tempi più floridi di Achradina, queste cave aperte nel centro stesso della città, devono averne deturpato l’aspetto; facendo la figura di un vasto cantiere, occupato da una folla di lavoratori, o quasi di un bagno abitato da servi di pena incatenati. Le latomie dovevano propriamente essere le galere di Siracusa. Il sasso trovasi lavorato, scavato alla distanza di parecchie miglia, e sono innumerevoli le fosse sepolcrali che si vedono aperte nella pietra, della forma delle nostre cripte, o tombe attuali. Non si può dire quanto sia stato il lavoro dell’uomo, nella pietra su questo angolo di Sicilia, imperocchè, oltre tutte queste tombe aperte in tutti i sensi, oltre le latomie, si stendono ancora sotto il suolo di Siracusa, a gran distanza, vaste calacombe, tutte scavate nel vivo sasso.
Vidi parecchi spazi di forma quadrata, che segnavano l’area di antiche case, imperocchè in Achradina le case sorgevano senza fondazioni sulla nuda roccia, la quale, come tuttora si può osservare in parecchie città della Sicilia, serviva di pavimento. Si può camminare ore intiere per questo campo sassoso, lungo il mare, cercando la località e la direzione delle antiche mura a ponente verso Tyche, dove la città congiungevasi a questa ed a Neapoli, sembrando però che dovesse esservi un intervallo non fabbricato; dovunque si trovano traccie del passaggio dei carri, del lavoro dell’uomo.
Non si arriva a comprendere, come tutto il materiale di una città così immensa, abbia potuto scomparire tutto quanto, quasi avesse un turbine spazzato quasi monticelli di sabbia tutti quei tempii, quelle mura, quei portici. È vero che per molti secoli si fabbricò con quei materiali; che con quelli si costrussero in vari tempi tutte le fortificazioni della attuale Siracusa; che le città moderne del levante dell’isola asportarono per mare grandi quantità di rovine dell’antica Siracusa, ma ad onta di tutto ciò, la scomparsa totale di tutti quei ruderi, non tralascia di essere un enigma.
Verso mezzodì si abbassa l’altipiano di Achradina, e colà si trovano pure escavazioni, nelle cui pareti sono aperti sepolcri, per la maggior parte a forme di columbari, o di loculi di stile romano. Trovansi pure in questa direzione le meravigliose catacombe, che si stendono sotto Neapoli; vi si ha accesso presso la più antica chiesa cristiana della Sicilia, quelle di S. Giovanni. È questo un edificio, piccolo, bizzarro, preceduto da un portico con archi bizantini, i quali sorgono sopra colonne addossate a pilastri, con capitelli del medio evo. Disgraziatamente la chiesa trovasi molto rovinata. Più antica assai è la cripta, dove si vedono pitture a fresco bizantine. Si ha accesso alle catacombe da una porta presso alla chiesa. Sono più vaste e più imponenti quelle di Napoli, ma nè queste, nè quelle di Roma, sono regolari al pari di queste di Siracusa, le quali formano una vera città di morti, dove riposa un popolo intero. Vi sono numerose strade, gallerie, corridoi, stanze, nicchie, piazze, dove i morti dormono da secoli, mentre al di sopra di essi passano le rivoluzioni. Quanti siano ogni giorno i morti di una grande città, lo rivelano le catacombe di Napoli, e si può comprendere quale immenso numero debba averne accumulato in questi sotterranei Siracusa, un tempo cotanto popolosa.
Anche queste catacombe, come tutte le altre, furono dapprima cave di pietre, le quali vennero di poi ridotte ad uso di necropoli, nella quale per vari secoli si seppellirono i morti secondo un sistema regolare, imperocchè tutte le gallerie sono di tratto in tratto interrotte da una stanza centrale, di forma circolare, ampia, ed a volta, circondata da nicchie, con una, due, o tre porte a volta, in guisa che dallo stile si riconosce, essere posteriori all’epoca greca. Se ne sono finora aperte e sgombrate quattro, ma una vaga tradizione asserisce debbano essere trecento sessanta, e vuolsi debbano arrivare non solo presso il Sebeto, ma stendersi sotto il suolo fino a Catania, cosicchè sarebbero ì lavori sotterranei più estesi di tutto il mondo. Sono per dir vero ingombre per la maggior parte sovratutto nel piano inferiore, ma ad onta di ciò, vennero ridotte accessibili, e praticabili, per la estensione di parecchie miglia. Si perdettero in esse, un venti anni sono, un maestro con sei dei suoi scolari, ai quali volle fare visitare quella necropoli. Si smarrirono in quel laberinto, cercando invano un’uscita, e spossati dalla falica finirono per morire di paura e di fame; furono ritrovati tutti vicini gli uni agli altri, alla distanza di quattro miglia dall’ingresso, e sarebbe difficile imaginare una morte più terribile. Dopo d’allora si sono praticate di quando in quando alcune aperture, per le quali scende una luce dubbia in quelli specchi tenebrosi. La larghezza delle strade è in generale dai dodici ai sedici palmi, la loro altezza dagli otto ai dodici palmi, ed in lunghezza paiono non aver fine, e produce una profonda impressione lo aggirarsi fra le tenebre in quei corridoi sterminati, ed uniformi quanto l’eternità. Solo di quando in quando trovasi interrotta la monotomia di quella vista, da sepolcri ornati di orribili pitture, e rivestiti di stucco rossiccio, nel genere di quello di Pompei. In altri punti i sepolcri si succedono aderenti gli uni agli altri, quasi le celle di un alveare. Si direbbe che un verme sepolto nella terra abbia scavate tutte quelle gallerie, tutti quei corridoi, ed ivi le generazioni si sono succedute le une dalle altre, ivi milioni di uomini trovarono sepoltura. Mi trovavo compreso di orrore in quelle tenebre, pensando alla brevità della vila umana, al continuo avvicendarsi delle umane generazioni. Non si vedono più in quelle catacombe nè ceneri, ne ossa; dove siano andate a finire, io non lo so. Il tempo che ha distrutto ogni vestigia dell’antica Achradina, ha fatto scomparire perfino le reliquie dei morti. Greci, Romani, Cristiani, vennero ivi sepolti gli uni dopo gli altri, e difatti si trovano colà idoli pagani, piccoli bronzi, lacrimari, simboli cristiani, e vi fu rinvenuto pure un basso rilievo, rappresentante i dodici apostoli, i quali venne allogato nella cattedrale di Siracusa. In qualunque modo poi si voglia rappresentare l’idea della morte, è sempre questa identica; e che fosse uso anteriore ai tempi cristiani quello di dare ricovero ai morti nelle catacombe, resta provato dai sepolcri scavati nella pietra che si trovano nella città troglodita di Ispica, non che dalle tombe in quella forma dell’Egitto, delle Indie, e della stessa America nei tempi preistorici.
Al punto dove Achradina confinava con Neapoli, e dove sorgevano tanti stupendi monumenti, si vede, oltrepassato l’antico teatro, l’antica strada dei sepolcri, con tombe di stile greco, scavate nel sasso. La strada stessa, della larghezza di circa venti piedi trovasi scavata nel sasso, ed a poco minore altezza s’innalzano le pareti che la fiancheggiano; il suolo trovasi solcato d’impronte di ruote dei carri. Le tombe scavate nelle pareti sono di varie grandezze, e dimensioni; ed in molte si riconosce ancora il luogo dove stavano le iscrizioni sepolcrali. Sono in generale di stile greco, e tuttocchè rovinate, si riconosce in molte ancora un frontone sostenuto da due colonne scannellate. Rappresentandosi questa strada nella sua forma primitiva, con tutti suoi monumenti, si avrebbe da ambe le parti una serie di facciate di tempietti, interrotti da tombe più meschine e di povero aspetto, imperocchè pare che questa strada posta al di fuori delle mura di Achradina, fosse destinata alla tumulazione di persone di varie condizioni.
Non doveva per vero dire questa strada presentare l’aspetto imponente di quella dei sepolcri di Pompei, imperocchè le pareti hanno un non so che di dure, di monotomo, che ricorda lo stile egiziano. Inoltre, tutto il campo che si stende per Achradina, Tycha, e Neapoli, il quale pare fosse comune alle tre città, e non fabbricato, trovasi pieno di fosse, di tombe. Il numero grande di queste, in guisa che non si può muovere un passo senza incontrare una fossa, tutte quelle che si trovano per la distanza di un miglio tedesco lungo la strada che porta a Catania, valgono meglio di qualunque altra antichità o memoria, a provare quanto grande e popolosa città fosse Siracnsa.
Alcuni di questi sepolcri fissano maggiormente l’attenzione per la loro architettura più ricca, o per loro pitture tuttora visibili; e tosto si comprende che erano destinati a persone od a famiglie distinte. Sorgevano in queste vicinanze le tombe stupende che il popolo Siracusano aveva innalzato a Gelone ed a Demarata sua consorte, ma non è possibile più precisarne la località. Due sepolcri meritano di essere particolarmente osservati. Dessi gi trovano a poca distanza l’uno dall’altro, in una bella e piccola cava di pietra gialla, dove sono scavate numerose tombe, e dove passa un ramo dell’antico acquedotto di Tyche. Sono composte in modo bizzaro di massi in pietra, di forma sferica, ammonticchiati gli uni sopra gli altri, quasi a foggia di piramide, e si scorge che andarono soggetti a rovina, imperocchè la disposizione dei materiali non è più regolare, ma accidentale. Si scorge tuttora in quei massi un frontone dorico, a metà rovinato, il quale era sostenuto da due colonne doriche di cui una sola rimane. Esistono pure tuttora traccie delle metopi, e dei triglifi dell’architrave. Ma sebbene lo stile sia greco, il tutto se ne scosta nell’altezza delle colonne, e del frontone, superiori alle proporzioni dell’ordine dorico. Appartiene questo sepolcro ad epoca posteriore ai tempi greci. I Siracusani con pietoso pensiero gli diedero nome di Tomba di Archimede, probabilmente con uguale fondamento a quello che porto gli Agrigentini a battezzare un antico monumento, del nome di Sepolcro di Terone.
È noto che il grande matematico aveva prescritto fosse innalzata sulla sua tomba una colonna, sulla quale si segnassero le proporzioni del cilindro colla sfera, a ricordo de’ suoi studi prediletti.
Cicerone, durante la sua questura a Siracusa fece ricerca della tomba di Archimede, e guidato da quelle nozioni, dopo molti tentativi riuscì a scoprirla quasi perduta in mezzo a folti cespugli. Il Romano non fu poco soddisfatto della sua scoperta, e nella piena della sua vanità sclamò, essere stato volere del destino che la tomba del più grande fra i Siracusani fosse scoperto dall’uomo di Arpino. Non erano a quell’epoca trascorsi che cento cinquant’anni dalla conquista di Siracusa fatta da Marcello, e pure la città era già decaduta a tal segno, che la tomba del più illustre fra suoi cittadini era sepolta fra i cardi selvatici e le spine. Cicerone romano, che guidato dai Ciceroni siracusani e dalla traduzione municipale, va cercando fra i ruderi ed i roveti la tomba di Archimede, fa propriamente la figura di un qualche erudito archeologo od antiquario di Roma, o di Berlino dei giorni nostri.
Ci è forza rinunciare a trovare a nostra volta la tomba di Archimede; verrà giorno in cui si cercherà invano la località dove sorgeva quella di Humboldt. Se non chè dura imperitura la memoria degli uomini illustri, ed a buon diritto sclamava Pericle nella commemorazione degli Ateniesi caduti in guerra: «Agli uomini grandi, è tomba il mondo!» È pur grande l’attrattiva di queste tombe siracusane, in quella regione deserta, inondata di luce, e popolata solo di grande memorie! Sia nello stare seduto colà nel silenzio dello splendido mezzogiorno, o nella tranquillità dell’infuocato tramonto, sia aggirandosi fra quelle tombe che a centinaia a centinaia vi si aprono dinanzi, vi sorgono davanti, come ad Ulisse nell’inferno, le ombre di una stirpe di uomini più grande delle razze attuali, le ombre dei grandi della cara Grecia. Vidi più di una volta quelle tombe venerande e silenziose, animate. Stavano seduti sui loro gradini uomini e ragazzi, di povero aspetto, logori dalla febbre, con gli occhi infiammati, i capelli irti, coperti a mala pena di pochi cenci schifosi; leggevo nelle loro fisonomie la storia della moderna Sicilia, le sevizie della polizia borbonica, il predominio corruttore del clero, e l’animo mio amareggiato, non poteva a meno di prorompere in un’imprecazione tutt’altro che ellenica. Non verrà mai il giorno della liberazione di questa stupenda contrada! Che Iddio piuttosto la restituisca ai Saraceni!
Vi vorrebbe un novello Archimede per iscacciare colle sue macchine e ridurre in cenere tutto il pretismo ed il monachismo che infesta questa povera isola!
Se non che, ancora di una tomba mi resta a far parola. Non lontano dalla via dei sepolcri, in un giardino piantato di viti e di olivi, trovasi sepolto in una solitudine classica il nostro compaesano Platen.
Mentre io stavo sui gradini della sua tomba, dopo avervi depositato una corona formata di un tralcio di vite, mi vennero alla mente in quella pura atmosfera tutta ellenica, le relazioni di Platen con Heine, e mi riportarono questi pensieri tutto ad un tratto in quella malsana atmosfera della letteratura patria in quei tempi falsi tendenti all’ebraismo, i quali fecero tanto torto alla nostra poesia, ed ingenerarono una razza di uomini snervati, non curanti di Dio, nè dei loro simili. Quanto non fu diversa la sorte di Heine e di Platen. Se un Dio avesse dato al primo di esprimere quanto soffriva a vece di farsi beffe di ogni cosa, sarabbe stato propriamente un uomo distinto, imperocchè per ingegno era Heine infinitamente superiore al povero Platen. Eppure dovette il nemico accanito di Platen rassegnarsi a vedere che fosse a questi innalzata una statua. Tanta è pure la potenza della forma! Ed in nessun sito forse questa tanto la si comprende quanto nei paesi meridionali. Fu ventura per Platen, il morire a Siracusa. Poco tempo prima della mie venuta, il re di Baviera, a quanto mi narrò il giardiniere, aveva visitata la tomba del poeta, e deciso di farla ristaurare, imperocchè comincia cadere in rovina.
Augusto Comiti Platen Hallermunde. Anspachiensi.
Germaniæ Horatio.
Tale si è l’iscrizione magniloqua che il cavaliere Londolina fece incidere sulla tomba. Meritò quel freddo versificatore di Platen, di riposare solitario fra i monti di Siracusa, in mezzo a Jerone, a Gerone, ad Archimede, a Timoleone, quale unico rappresentante di quel popolo che più di ogni altro è versato negli studi ellenici? Questo dubbio mi guastava la più bella tomba che imaginare si possa per un poeta, quasi poetica altrettanto che i sacri cipressi che presso la piramide di Caio Cestio ombreggiano la tomba di Shelley, uno dei pochi veri poeti che abbiano prodotto i tempi moderni. Tre favori si dovrebbero domandare agli Dei, quelli di vivere bene, di morire bene, e di avere una bella tomba!
III.
Neapoli.
Mi resta a far parola di Neapoli, di quella parte di Siracusa che fu, come indica il suo nome stesso, l’ultima ad essere costrutta. Dessa fu dapprima, al pari di Tyche, sobborgo di Achradina. Stendevasi quella a ponente del porto Trogilo, questa giaceva fra il maggior porto ed il confine a mezzogiorno dell’altipiano su cui sorgeva Siracusa, e fuor di dubbio scendeva Neapoli verso Tyche; protetta da mura e dalle rupi naturali; nella pianura in vicinanza delle paludi dell’Anapo. La porta Menetide, o Temenetide, portava fuori di città alla campagna, ed anzi questa parte di Siracusa veniva designata pure col nome Temenite, a motivo di una statua di Apollo, che portava dessa pure tal nome. Cicerone accenna di essa un teatro sull’altura e due tempii, di Cerere e di Proserpina, i quali erano stati innalzati da Gelone col prodotto del bottino fatto sui Cartaginesi; ed ivi sorgevano pure i sepolcri di lui, e di Demarata sua consorte, i quali vennero più tardi distrutti da Imilcone Cartaginese.
Non havvi attualmente in Siracusa punto dove siano radunate cotante memorie e monumenti, quanto quell’angolo di Neapoli, dove questa città confinava con Achradina, imperocchè ivi, in breve spazio, trovansi le latomie di Dionigi, il teatro, la strada dei sepolcri, l’anfiteatro e l’acquedotto.
Le famose latomie, le quali portano il nome di orecchio di Dionigi, non sono della vastità di quelle di Achradina; ma però non meno pittoriche di queste, ed in qualche parte più belle, e più singolari. Desse fermano un vasto quadrato nella cui profondità giace un giardino sempre verde. Verso il centro sorge un pilastro di roccia naturale, dell’altezza di circa ottanta piedi, in cima al quale emergono dalla lussureggiante vegetazione delle piante rampicanti, gli avanzi di una torre. Si presenta tosto l’idea fosse questa stanza del guardiano del carcere, ma è più probabile servisse il pilastro a sostenere il tetto, ora rovinato, dalla latomia; a destra entrando, si trovano le stanze di questi appartamenti scavati nel sasso, una delle quali porta il nome di orecchio di Dionigi. Le fu dato questo nome da Michelangelo da Caravaggio, il quale visitò queste latomie in compagnia dello erudito siracusano Mirabella, e che fu indotto dalla forma della cavità, a darle quella denominazione la quale diede di poi origine a tante favole.
Tutte le pareti verticali di questa cavità sono rivestite di edere e di capel venere; ed in cima sul margine della escavazione, sorge solitario un pino. La forma strana e singolare della latomia da luogo a quei fenomeni acustici i quali diedero credito alla tradizione poetica, che ivi Dionigi stesse spiando i discorsi, dei suoi prigionieri. Serra di Falco scoprì nel 1840 un’apertura in alto, dalla quale, come da una specie di loggia, si ha vista nella latomia, e di dove si possono udire le parole che si pronunciano, Qualunque di queste, sussurrata a voce bassissima, la lacerazione di un pezzettino di carta, si sentono distintissimamente di lassù, e le guide non mancano mai di darsi il piacere innocente di far ripetere all’eco, Dionigi era un tiranno. Un colpo di pistola viene ripetuto le cento volte dalla parete, romoroso al pari del tuono.
Un’altra parte delle latomie, vicino all’orecchio di Dionigi a nome il Paradiso ed è di grande bellezza. Ha forma di un ampio quadrato, col suolo totalmente piano. Le pareti sono di vario colore, o roseo, o nero cupo, o giallo carico. In certi punti sono angolose, in altre sconvolte e di aspetto bizarro per i massi rovinati colla caduta del tetto, taluni dei quali stanno tuttora come sospesi per aria. In un angolo si apre una specie di grotta, o di arco, sostenuto da pilastri naturali, ed a traverso di quello compaiono alla vista cumuli di macerie, il verde cupo degli aranci, i fiori infuocati del melegrano, ed il limpido cielo di Siracusa. Si direbbe che l’uomo, scavando collo scalpello questi vari spazii abbia vinta la natura, creando vere grotte di Fingallo, e che la natura abbia voluto riprendere i suoi diritti, distruggendo questo lavoro di Sisifo.
Nel lungo tratto della latomia, tuttora in parte coperto, si stabilì da lungo tempo una fabbrica di cordami; uomini, donne, ragazzi, poveri, cenciosi, pallidi, di aspetto malatticcio, guadagnano stentatamente la vita filando in quella antica prigione. Mi trattenni parecchie volte ad osservarli, stando seduto all’ingresso di quella oscura galleria, e nel vederli girare di continuo le loro ruote, e camminare di su, di giù, filando i loro cordami in quell’abisso, mi pareva trovarmi nell’Averno, e che quelle donne pallide e smunte fossero le parche, le quali filassero lo stame della mia solitaria vita! Diedi qualche denaro a quella povera gente, la quale lo accettò colla espressione di gratitudine della miseria che non si attende ad essere soccorsa, ed uscito fuori di là, tornato alla luce del giorno mi trovavo tuttora accorato dall’aspetto di quelle misere esistenze in quel laberinto. E qual favoloso laberinto! Tutto qui in Sicilia ha un aspetto di favola, di mito, Girgenti, al pari di Siracusa, l’Etna quanto l’Enna, ed ogni spiaggia della sua marina! Quivi l’imaginazione si riporta a tempi ben più antichi che nella campagna di Roma; in questa regna l’idea seria della storia, in Sicilia predomina la favola. Dessa è propriamente la terra di Tifone, dei Ciclopi, di Dedalo.
Per quanto siano imponenti le latomie di Achradina e di Neapoli per la loro vastità, per il loro aspetto grandioso, sonvene altre di minor ampiezza in Siracusa, le quali hanno carattere diverso, più romantico, e fra le altre quella del conte Casale, che può dirsi un piccolo paradiso. Non ho visto mai un giardino di tanta vaga bellezza. Trovasi divisa in due parti riunite da una galleria coperta, dell’altezza di circa sette piedi. In fondo trovasi una sala alta cento otto palmi, lunga altrettanto, della larghezza sessantadue palmi. Le pareti sono di una tinta rosea, quasi fossero rischiarate dai raggi del sole nascente, e dall’ingresso si vede il bellissimo giardino. Scorgonsi nelle pareti parecchi buchi, i quali salgono in alto in linea curva: probabilmente trovavansi infissi colà uncini di ferro, per servire quasi di scala agli schiavi i quali scavavano le pietre. La pianta della sala è abbastanza regolare, e si scorge che fu scavata originariamente in quella forma, ed ivi pure sorgono tuttora in cima ad una parte, gli avanzi di una torre di guardia. I terremoti rovinarono parecchie sale di questa latomia, ed ancora nel 1853 rovinarono dall’alto vari massi, che ingombrarono dei loro rottami parte del giardino. Ma tutto lo spazio libero di questo, trovasi ammirabile per splendida vegetazione. Le foglie delle piante di fico vi sono di una larghezza tale, che potrebbero servire di piatti. Vedonsi colà piante e fiori dell’Indie, che non ho mai visti altrove, ed ai quali non saprei dare nome. Le palme contornate di pianticelle rampicanti vi crescono rigogliosissime; l’aria vi è impregnata del profumo degli aranci, del mirto, e gli aloe, gli agave, crescono giganti contro le pareti. Tutto quel giardino, colle sue mura rivestite d’edera, e di muschio, con tutti i suoi corridoi, colle sue rovine, colla ricca e svariata sua vegetazione, porge un aspetto cotanto fantatico, che lo si potrebbe ritenere per il giardino di Titania e di Oberone. Non un soffio di vento, non un atomo di polvere turba la tranquillità di quel recinto, nel quale mitologicamente si potrebbe dire, abbiano le ore imprigionato il sole.
Presso all’orecchio di Dionigi trovansi tuttora gli avanzi notevoli del teatro di Siracusa, uno dei più vasti dell’antichità, e che Cicerone pure dice maximum. Serra di Falco ritiene fosse contemporane al teatro di Bacco in Atene, edificato da Temistocle, ed il primo che sia stato costrutto in pietra in Grecia. Desso è bello edificio, che offre aspetto mirabile di semplicità e di forza, tuttochè in parte rovinato, non rimanendo più della scena che un mucchio di rovine coperte di cespugli. Il semicircolo alquanto allungato, degli ordini di gradini è scavata nel vico sasso della collina di Neapoli. Se ne contano quarantasei file, interrotte da una larga fascia, e tagliate da otto scale diagonalmente in nove cunei.
Partendo da questo numero di quarantasei file di sedili, non si arriva ad ottenere che un diametro di quattrocento quattro palmi, e pertanto Serra di Falco è di opinione che il teatro dovesse avere un numero maggiore di ordini di gradini, per cui si allargasse maggiormente a misura si saliva. Desso gli attribuisce un diametro di cinquecento quattro palmi, in guisa che sarebbe stato il teatro più vasto di tutta ta Grecia, ad eccezione soltanto di quello di Mieto. Non comprendo del resto perchè nel passo di Cicerone quam ad summam theatrum est maximum la parola maximum si voglia tradurre per maggiore di tutti, e non soltanto per molto ampio.
Davanti alla scena sboccano nell’orchestra due corridoi; la scena stessa poi, la quale è fiancheggiata da due edifici di forma quadrata, trovasi attraversata da un piccolo canale d’acqua, derivato dal vicino acquedotto. Diedero a studiare a molti, e molto si disputò intorno alle due iscrizioni greche Basillisass Nereidos e Basilissas Philisdos, che si leggono sulla cornice che circonda il teatro, e ciò per non essere conosciuto tal nome di regina nella storia di Siracusa. Secondo le ultime spiegazioni che ne furono date, Nereide doveva essere figliuola di Pirro re di Epiro, la quale aveva sposato il figliuolo di Gelone II e Philiste doveva essere figliuola di Leptine e consorte di Gelone. Non rimangono del resto altri avanzi del teatro, i quali meritino un’attenzione particolare: pochi frammenti di sculture si trovarono in essi, ed uno solo pregevole per la scena che rappresenta: è questo un cippo di marmo bianco, sul quale trovasi raffigurata la favola Omerice del serpe e del nido di passero in Aulide, la quale diede a divedere a Calcante la durata della guerra di Troia.
Quanto però soddisfa maggiormente, si è la posizione e l’importanza di quel teatro. Desso rappresenta uno dei campi più splendidi dell’intelligenza, un centro della civiltà umana. Su questi gradini, quasi sepolti nell’erba, ora sedettero un tempo Platone, Eschilo, Aristippo, Pindaro; ivi nell’orchestra vennero collocati i prigionieri Ateniesi, ed ivi furono condannati; ivi parlò Timoleone, ed ivi sedette vecchio e cieco, prendendo parte ancora alla discussione degli affari pubblici. Tutta quanta la storia di Siracusa nei suoi tempi più floridi, si sviluppò quasi azione drammatica sulle scene di questo teatro, imperocchè in teatro tratta vansi allora gli affari di stato, e recitavansi i versi dei sommi poeti; ed in quale altra contrada avrebbero potuto alternarsi del pari la realtà e la poesia, che la Grecia? L’importanza nazionale del teatro trovavasi accrescuta ancora in Siracusa dalla località stessa dove questo sorgeva, vale a dire fra Neapoli, Tyche, Achradina, o non lontano neppure da Ortigia. Da quest’altura la vista si stendeva sul l’immenza città e sul mare, che servivano di fondo alla scena. Quel colpo d’occhio è tuttora bello oggidì, ed il migliore che si possa godere a Siracusa, imperocchè di là si scorgono i due porti, il mare, la spiaggia fino ai monti d’Ibla; sull’ultimo piano la mole imponente dell’Etna, ed i contorni stupendi del mare Ionio, fino alla Rocca di Taormina. E quanto non doveva essere migliore la vista, allorquando lo sguardo cadeva sull’immensa città, su quella folla di tempi, di portici, di splendidi edificii, sulla selva di antenne nei porti la quale animava i Siracusani a compiare le gesta illustri della loro storia! Su queste scene era pure legittimo l’orgoglio patrio, e quale effetto non dovevano ivi produrre i Persiani di Eschilo, coi quali festeggiavano i Siracusani la vittoria d’Imera, o la trilogia del Prometeo?
Non è meno bella di questa vista che si gode dai gradini più elevati del teatro, quella del teatro stesso ridotto a poetica rovina, e dei giardini smaltati di fiori che lo circondano. Anche ivi la semplicità dell’architettura rivela la purezza del gusto ellenico.
In alto, dove i gradini del teatro confinano colla collina, trovasi scavato un Ninfeo, ossia specie di antro pittorico, rivestito tutto di muschio e di licheni, dal quale sgorga una fonte. Mi ricordò la grotta della ninfa Egeria. Stanno allato a questa due altre grotte di minore dimensione, e sonvi d’ordinario doune che lavano i loro panni nella fonte, e che col loro canto malinconico accrescono la mestizia del paesaggio. A destra si apre la strada dei sepolcri, ed a sinistra corre un braccio dell’antico acquedotto di Tycha, il quale da moto ad un molino, per cui questa località ha nome di Molini di Galerme. La parte dell’acquedotto moderno, sostenuta da archi, che corre per un certo tratto fuor di terra, contribuisce dessa pure alla bellezza del colpo d’occhio. Nelle rimanenti parti l’acqua scorre in canali sotterranei, opera probabilmente dei prigionieri Cartaginesi; e non meno grandiosa della cloaca massima di Roma, o dell’emissario di Albano. In alcuni punti il canale trovasi scoperto, e vedesi l’acqua che scende dai monti a distanza di sei miglia, correre rapida e gorgogliante.
A mezzodì e levante del teatro, vedesi in un bosco di melagrani un edificio in discreto stato di conservazione, l’anfiteatro di Siracusa più vasto di quelli di Verona, di Pola e di Pompei, misurando duecento sessanta tre palmi nel suo maggiore asse, e cento cinquantaquattro nel minore. È costrutto per la maggior parte in pietra, ed alle quattro estremità dei due assi trovansi quattro porte, per le quattro parti della città. Serra di Falco fece sgombrare questo anfiteatro nel 1840 dalle macerie; le file dei gradini, e le mura trovansi in alcuni punti rovinate, ma il complesso dell’edificio, come già notai, trovasi in discreto stato di conservazione. Siccome i Greci non si dilettavano del barbaro spettacolo di lotte di gladiatori, e di fiere, l’anfiteatro deve essere di origine romana. Cicerone non ne parla, ma Tacito ne fa menzione, e la sua costruzione prova che Siracusa, sede di un pretore romano ai tempi di Augusto e di Tiberio, popolata da una colonia romana, doveva avere riacquistato un certo grado di prosperità.
L’ultima rovina antica che esista in prossimità del teatro sono le fondamenta di un edificio lungo e stretto, del quale non si può rilevare altro più che la pianta, e di cui non sussistono più che alcuni frammenti di cornici, con teste di leoni. Serra di Falco scoprì queste rovine nel 1839 e ritiene appartenessero a quell’altare di Ierone, che superava in grandezza quello stesso di Olimpia.
IV.
Tycha ed Epipola.
Trovammo radunati in uno spazio relativamente ristretto, gli edifici più imponenti dell’antica Siracusa. Procedendo di là verso settentrione, lungo l’acquedotto, si trova una pianura deserta e sassosa, attraversata dalla strada che porta a Catania, ed ivi giaceva Tycha ricca dessa pure un tempo di notevoli monumenti, fra quali primeggiava il Ticheio, o tempio così denominato, della Dea Fortuna. Confinava Tycha a settentrione con il mare presso il porto Trogilo, ed era chiusa da questa parte da forti mura. A ponente confinava colla fortezza di Epipola. Cicerone fa menzione in essa di un ginnasio amplissimum e di parecchi tempii, ma oggidì non vi si scorge altro che sepolcri scavati orizzontalmente nel sasso, ne’ quali è tuttora visibile la scanellatura per adattarvi le lapidi. Trovansi fra quelle tombe impronte frequenti di ruote di carri, prova dalla loro remota antichità.
La gita da Neapoli o da Tycha, per la strada di Floridia ad Epipola, la quale giace in alto nella campagna, è piuttosto malagevole, ed è d’uopo farla a piedi od a cavallo, imperocchè non appena si arriva sul territorio antico di Epipola, è necessario arrampicarsi per una orribile strada sassosa ingombra di rovine, e di massi di roccia calcare. Epipola occupava il punto più elevato dell’altipano, e confinava col colle Eurialo, al vertice di tutto il triangolo, mentre più sotto l’Eurialo sorgeva un’altra eminenza, il Labdalo. Sono tuttora oggidì riconoscibile le due alture, caratteristiche di quella parte dell’antica Siracusa, e portano il nome di Belvedere, e di Mongibellisi.
Il Labdalo era stato fortificato dagli Ateniesi sotto Nicia per dominare la città; si erano dessi fortificati parimenti in Epipola, finchè furono scacciati di là dai Siracusani comandati da Gelippo, i quali in allora, secondo quanto narra Diodoro, atterrarono tutte le mura in quell’altezza, e da quell’epoca il Labdalo solo viene ricordato quale fortezza. Se non che Dionigi fece scomparire tutte quelle antiche fortificazioni in occasione della costruzione delle famose sue mura a settentrione di Epipola, le quali si stendevano per la lunghezza di trenta stadii, pari quasi ad un miglio tedesco. Queste mura erano fornite di quando in quando di torri, e costrutte con massi di tal volume, che difficilmente potevano essere atterrati. Non risulta se Dionigi abbia costrutto pure fortezze sull’Eurialo, e sul Labdalo; unicamente si sa che l’Esapilo, per il quale i Romani s’introdussero nella città si trovava a settentrione di Epipola, e sorgeva pure fuor di dubbio in quelle mura la torre Gallagra, che i Romani assaltarono durante le feste di Diana. Gli avanzi che ora rimangono del Labdalo, quei massi enormi della lunghezza di quattordici a sedici palmi, quelle fondamenta di torri, i fossi, le gallerie sotterranee, tutto prova che quivi fu una fortezza regolare, e che non vi esistettero soltanto le opere provvisorie fatte dagli Ateniesi, in vista dell’assedio. Secondo il sistema antico dei Greci, tutti quei massi voluminosi sone sovrapposti gli uni agli altri senza cemento, e gli avanzi che ne sussistono, formano tuttora una mole di qualche riguardo. Trovansi scavate nel vivo sasso catacombe o gallerie, dell’altezza di nove a dieci piedi, e della larghezza di otto piedi, le quali coi loro corridoi, e con i loro antri sotto terra, formano quasi una seconda fortezza, e che per la loro fortezza hanno dato luogo a sostenere, fossero destinate quelle gallerie a stanza di cavalleria. È probabile che quella fortezza sotterranea si trovasse in comunicazione colla porta di soccorso, che dalla città metteva alla campagna. La mancanza totale poi di vôlte in tutte quelle opere, l’uso esclusivo della linea retta in tutte le loro parti, prova incontestabilmente la loro origine greca.
Dalle rovine di Labdalo si scorgono i dintorni di Epipola, seminati tutti dei massi voluminosi delle mura di Dionigi, delle rovine della fortezza, di sassi rotolati giù dall’altura, ed ivi pure si trovano latomie di bizzarra struttura, le quali vuolsi siano quelle, dove Dionigi tenne prigione Filosseno, e dove questi compose suoi Ciclopi. Furono tolti di qui materiali di costruzione per parecchie città, e tutte le fortificazioni attuali di Siracusa vennero eseguite coi ruderi delle mura di Dionigi, in guisa che Carlo III di Borbone, vuole essere considerato qual vero distruttore dell’antica città. Nel visitare tutte queste cave, tutte queste rovine non si può a meno di essere compresi di stupore, per la enorme copia di ottimo materiale di costruzione estratto da questo suolo; l’abbondanza di quella bella pietra, che si lavora con tanta agevolezza collo scalpello, non potè a meno di avere facilitato l’estenzione della città, come più tardi avvenne per la stessa causa di Napoli, e de’ suoi sobborghi.
Per un ripido sentiero si sale in cima all’Eurialo, che domina tutta la pianura siracusana. Il suo nome melodioso, risuona appropriato in questa solitudine. Un povero villaggio si formò a piedi del monte, e sovra a questo sorge un telegrafo. Non si trovano colà altre rovine, che di una cisterna, e di alcune mura antiche di dubbia origine, ma basta vedere il luogo che domina tutta quanta l’area occupata dall’antica città, per essere persuasi che quivi doveva sorgere una fortezza. È incerto se già Dionigi l’avesse innalzata, non facendosene menzione all’epoca dell’assedio degli Ateniesi. Per contro era diventata di grande importanza, allorquando Marcello, prese Siracusa d’assalto. Dopo che erasi impossessato di Tycha, e di Neapoli, trovavasi l’Eurialo, a cui Tito Livio dà nome di colle e di fortezza, alle spalle che minacciava la sua posizione. Trovavasi come rinchiuso fra le mura di quella parte della città, e stando per arrivare dal di fuori Ippocrate ed Imilcone per gittarsi entro l’Eurialo, correva Marcello pericolo di trovarsi totalmente chiuso fra quello ed Achradina, quando Filodemo il quale comandava la fortezza, perduta ogni speranza di soccorso, si piegò a capitolare.
Oggi l’Eurialo porta a buon diritto il nome di Belvedere, godendosi propriamente bella vista d’in cima a quell’altura. Di fronte si ha l’orizzonte del mare Jonio, a tergo, l’Etna «colonna del cielo» e la sguardo spazia sulla costa orientale dell’isola, ricca di magnifici golfi promontorii, fin oltre Agosta, e colà dove Catania si perde nei vapori. Si ha davanti agli occhi tutta quanta la pianura siracusana, la quale per quasi tre ore di strada scende ad Ortigia. Rappresentandosi coll’imaginazione tutto questo ampio spazio ricoperto di abitazioni, ed il golfo inoltre seminato di villaggi, di case di campagna, non havvi dubbio che lo aspetto di questa grande città che si elevava verso terra, quasi a foggia di piramide gigantesca, in quattro ordini per così dire di gradinate, doveva pur essere vista imponente, e che tenuto conto di tutti questi particolari, l’osservazione che Siracusa contasse ne’ suoi tempi migliori, un milione e mezzo di abitanti, non deve punto sembrare esagerata. Ora tutta questa pianura è deserta ed arida; soltanto al confine del territorio di Neapoli, verso mezzogiorno, si scorge una linea di vegetazione la quale segna il corso dei Ciane, e dell’Anapo, e colà intendo portare ancora il mio lettore.V.
L’Anapo e l’Olimpio.
Da Neapoli diramavasi la via Elorica, la quale attraversava le patudi Lisimelia, e Siraca, varcava sur un ponte l’Anapo, al di là del quale sorge il colle Poliene, ed in cima a questo trovansi il tempio di Giove Olimpio, ed una località denominata Olimpio. Tutta questa contrada è abbastanza conosciuta per le storie delle guerre di Siracusa, imperocchè ripetute volte, tanto gli Ateniesi quanto i Cartaginesi si accamparono ai piedi dall’Olimpio, fin verso le sorgenti del rivo Ciane, e sempre vi furono decimati dai malori che sorgevano da quei terreni paludosi. Le poche colonne rovinate, unici avanzi dell’Olimpio, che tuttura sussistono in quella altura, si scorgono a parecchie miglia di distanza, e sono colla colonna che trovasi presso la fonte degl’Ingegneri, e della quale abbiamo fatta di già parola, le uniche che rimangano tuttora in piedi sul territorio dell’antica Siracusa.
Per arrivare colà, e seguire il corse dell’Anapo, il mezzo migliore si è quello di imbarcarsi nel maggior porto, risalendo il fiume a traverso le paludi. Desso sbocca in mare passando sotto un ponte, ed a misura lo si risale il sue letto si va restringendo a segno, di dare a stento passaggio alla barca. Si abbandonano allora i remi, ed i barcaiuoli spingono la navicella coll’aiuto di una lunga pertica, o la rimorchiano per mezzo di una fune. Non ho fatta mai una gita più romantica, che quella navigazione dell’Anapo. Crescono sulle due sponde del fiume fitti giunchi, dell’altezza di ben venti piedi; canne palustri di una straordinaria grossezza, tutte rivestite di piante rampicanti, le quali si stendono pure dalle une alle altre canne, e ricadono in graziosi festoni. La profonda solitudine, la tranquillità dell’atmosfera, il silenzio assoluto, producono una impressione magica, e tanta e tale si è la splendidezza della vegetazione, che uno si potrebbe credere trasportato sotto il cielo dei tropici. Si vedono svolazzare, o nuotare sulle onde cemtinaia di uccelli acquatici, di colori vari e vivaci. Oltrepassata la via Elorica, l’Anapo si divide in due rami, o per dir meglio mette foce in esso il rivo azzurro e classico Ciane, il quale sgorga dal limpido stagno, di forma circolare, detto la Pisma. Ivi si gettò la ninfa Ciane, secondo la favola, fuggendo davanti a Plutone, allora quando questi portò Proserpina all’inferno, e tosto venne trasformata in azzurra fonte. Ivi venivano ogni anno i Siracusani a festeggiare la memoria di Proserpina, sacrificando a nome del popolo un toro ed una vacca, che venivano precipitati nello stagno. Questo luogo è propriamente meraviglioso, e stando seduto all’ombra delle canne palustri, sul margine, di quelle acque, uno crederebbe sognare, e trovarsi riportato ai tempi favolosi. Mi fu allora rivelato pienamente il significato delle sculture di quegli antichi sarcofaghi, le quali rappresentano il ratto di Proserpina; mi si presentavano all’imaginazione tutte quelle finzioni graziose del genio greco. Ed in quale splendido modo non ricompensò Cerere la sua ninfa, per le lagrime versate intorno alla sorte di Proserpina! Sulle sponde di questo rivo cresce la pianta rara, la quale produce il papiro. È l’unico punto dove la si trovi in Europa, dal momento che scomparve dalie sponde dell’Oreto presso Palermo. Provai una vera soddisfazione, quando vidi emergere dalle acque cerulee questa figliuola perduta del Nito. Questo bel giunco sorge vagamente dalle acque, all’altezza di circa quindici piedi, graziosamente incurvato, triangolare, liscio, e di un bellissimo verde cupo. Porta in cima una ricca corona di filamenti verdi, fini, sottili, che ricadono quasi una folta capigliatura, alla quale il popolo la dato il nome, per dir vero abbastanza appropriato, di parrucca. La vista di questa pianta peregrina, vera ninfa dell’erudizione, cagiona grata sorpresa a tutti coloro che vengono dalle regioni nordiche, e la si direbbe una apparizione favolosa, imperocchè queste piante sorgono folte, le une vicine alle altre, in un disordine pittorico, sormontate tutte dalla loro capigliatura, e specchiandosi nelle acque cerulee del rivo. Ogni idea greca scompare ad un tratto, e la fantasia vola sulle sponde di quel Nilo solenne, enigmatico, alle piramidi, alle sfingi, ai rotoli dei maravigliosi papiri. Sulle rive della Ciane siracusana, su questa terra ellenica, mi apparvero queste piante quasi un mito, quasi rappresentanti della tradizione secondo la quale ogni civiltà, ogni scienza, sarebbero originarie del favoloso Egitto; e nel gettare alternativamente gli sguardi sulle piante del papiro, e sui tronchi delle colonne del tempio di Giove Olimpico, mi pareva avere davanti agli occhi contemporaneamente i simboli delle due civiltà dell’oriente, e dell’occidente.
Landolina e Politi si provarono ad estrarre da queste piante il papiro, e la prova loro riusci perfettamente, avendone ricavate striscie, le quali non si differenziano da quello egiziano, che per maggiore freschezza di tinta. S’impiega a tal uopo la scorza del fusto, divendola in fogli sottilissimi, che si levigano, dopo averli sottoposti a pressione.
Lasciai la barca nel Ciane per salire sulla vicina collina di Poliene. Le colonne scannellate dell’Olimpio, che colà tuttora sussistono, hanno piedistallo, ma mancano di capitelli. Il tempio era molto antico, perchè esisteva di già all’epoca della battaglia d’Imera; ma era di poca mole, misurando il diametro delle colonne appena sette palmi. Gelone aveva rivestita la statua di Giove di un mantello d’oro, ma Dionigi lo tolse dalle spalle del Dio, dicendo da libero pensatore, che un mantello d’oro era troppo pesante per la state, e troppo freddo per l’inverno. Più tardi Verre s’impossessò della statua stessa di Giove, e la portò a Roma, Serbavansi pure nell’Olimpio i registri coi nomi di tutti i cittadini di Siracusa, i quali caddero nelle mani degli Ateniesi, allorquando occuparono l’Olimpico. Anche da quell’altura la vista di Siracusa è bella. Si ha sotto, immediatamente il verde piano, irrigato dalle acque del Ciane, dove riposano a migliaia gli Ateniesi e gli Africani e non havvi nei dintorni di Siracusa località più campestre, e più malinconica di questa. Dopo avere attraversato quella pianura arida e sassosa, la quale si stende da Achradina ad Epipola, l’occhio si riposa sulle verdi sponde dell’Anapo, sui meandri del Ciane, e ricorrono alla memoria i nomi di Teocrito, e di Pindaro. Dove sono andati i bei tempi dell’antica Grecia?
Uno sprazzo di pioggia mi cacciò da quell’altura, e mi costrinse, tornato che fui sulle rive dell’Anapo, a ricoverarmi sotto un ponte. Stetti ivi sepolto un buon pezzo, come un’anima sullo Stige, o per parlare meno poeticamente, tutto impregnato di umidità. Siccome però non havvi giorno, come dice Cicerone, in cui non splenda il sole a Siracusa, dopo una mezz’ora il cielo si rasserenò, e vidi Iride nunzia di pace stendere il suo arco sul mare ed un raggio di sole rischiarare tutta quanta Ortiglia, in guisa che tutta l’isola pareva nuotare in un mare di luce variopinta. Contemplai pure per tal modo per l’ultima volta il Vesuvio, nel tornare a Napoli colto dalla pioggia; ed auguro a tutti coloro che saranno per visitare Napoli, o Siracusa sia loro dato di potere godere di quello stupendo spettacolo.
Tolsi in tal guisa congedo da Siracusa, dovendo partirne l’indomani, e sallo il cielo, con quanto rincrescimento. Pochi istanti però prima di allontanarmi, volli ancora salire al teatro, per gettare un ultimo sguardo sulla città. Ed ora, addio Aretusa! Addio pure rive del Timbro, che volgete le vosire acque poetiche!
fine del secondo ed ultimo volume.