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le sue statue, i suoi tesori; ma Verre rubò tutto, quadri, sculture, statue, e perfino la testa di Medusa; a nulla ebbe rispetto.
Si scoprirono pure alcuni avanzi del tempio di Diana, che trovavasi in Ortigia. Si vedono oggi nella corte di una casa Santoro, due colonne doriche scannellate; non hanno che sedici scannellature, e sono tanto vicine l’una all’altra, che fra le due havvi poco più di un diametra di colonna.
Sono questi gli unici avanzi dell’antica città insulare. Di tutti i suoi splendidi edificii non rimangono più vestigia, e non possono dire quanto malinconica, e misera di espetto mi sia parsa Siracusa, peggio ancora di Girgenti. Le sue strade strette, sudicie, rivelano ad ogni passo la povertà, la miseria. Non ricordo avere vista altra città, la quale mia abbia fatto tale una impressione di tristezza. I due bei porti sono morti al pari della città e dei campi sassosi di Achradina, e lo onde si frangono mestamente sulla spiaggia deserta, e silenziosa. È d’uopo contemplare quel panorama in una notte serena, di là dove sgorga la fonte Aretusa, per avere una idea precisa della malinconia del passato. La notte mi parve ivi più mesta, più fantastica, che nelle stesse rovine del palazzo dei Cesari dell’antica Roma, ed ivi si prova una vera nostalgia per l’antica Grecia, patria ad ogni eletto ingegno. Nella notte, presso il porto più ampio, splendono alcuni fanali fra gli alberi della unica passeggiata degli odierni Siracusani: sorgono ivi due meschine statue di Ierone e di Archimede ed ivi passeggiano lentamente su e giù gli odierni Siracusani, poveri, malinconici, senza coltura, senz’arti, senza industria, ridotti alla misera vita di abitanti di una povera terricciuola, curvi sotto l’esecrato dispotismo di Napoli. Non ricordo aver veduta una bella fisionomia in tutta la città, e solo il lampo dello sguardo di una signora che mi passò davanti, tutta vestita di nero, mi richiamò ai tempi di Aristippo, e della siciliana Laide.
Nel contemplare dalla spiaggia quel bel porto deserto,