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Mentre io stavo sui gradini della sua tomba, dopo avervi depositato una corona formata di un tralcio di vite, mi vennero alla mente in quella pura atmosfera tutta ellenica, le relazioni di Platen con Heine, e mi riportarono questi pensieri tutto ad un tratto in quella malsana atmosfera della letteratura patria in quei tempi falsi tendenti all’ebraismo, i quali fecero tanto torto alla nostra poesia, ed ingenerarono una razza di uomini snervati, non curanti di Dio, nè dei loro simili. Quanto non fu diversa la sorte di Heine e di Platen. Se un Dio avesse dato al primo di esprimere quanto soffriva a vece di farsi beffe di ogni cosa, sarabbe stato propriamente un uomo distinto, imperocchè per ingegno era Heine infinitamente superiore al povero Platen. Eppure dovette il nemico accanito di Platen rassegnarsi a vedere che fosse a questi innalzata una statua. Tanta è pure la potenza della forma! Ed in nessun sito forse questa tanto la si comprende quanto nei paesi meridionali. Fu ventura per Platen, il morire a Siracusa. Poco tempo prima della mie venuta, il re di Baviera, a quanto mi narrò il giardiniere, aveva visitata la tomba del poeta, e deciso di farla ristaurare, imperocchè comincia cadere in rovina.
Augusto Comiti Platen Hallermunde. Anspachiensi.
Germaniæ Horatio.
Tale si è l’iscrizione magniloqua che il cavaliere Londolina fece incidere sulla tomba. Meritò quel freddo versificatore di Platen, di riposare solitario fra i monti di Siracusa, in mezzo a Jerone, a Gerone, ad Archimede, a Timoleone, quale unico rappresentante di quel popolo che più di ogni altro è versato negli studi ellenici? Questo dubbio mi guastava la più bella tomba che imaginare si possa per un poeta, quasi poetica altrettanto che i sacri cipressi che presso la piramide di Caio Cestio ombreggiano la tomba di Shelley, uno dei pochi veri poeti che abbiano prodotto i tempi moderni.