Silvio Pellico

1837 Indice:Poesie inedite di Silvio Pellico II.djvu Cantiche letteratura Rafaella Intestazione 30 marzo 2012 100% Poesie

Questo testo fa parte della raccolta Poesie inedite (Pellico)


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RAFAELLA.





Cantica.

[p. 11 modifica]La Cantica di Rafaella doveva essere il principio d’un’azione più vasta che non è quella presentemente qui disegnata. Fu il primo saggio ch’io abbia eseguito di tal genere di componimenti, or sono molti anni; ma siffatto lavoro essendo andato perduto con altri scritti della mia gioventù, ho pigliato più tardi a ricomporlo con affezione, ma non più come episodio di poema esteso. Quel poema, nella guisa ideata dapprima, aveva per oggetto di far sentire quanta debba e possa essere sugli uomini l’efficacia delle virtù della donna. Io congegnava a tal uopo una serie di fatti, collocandoli in Italia a’ tempi dell’Imperadore Ottone II, e divisando con simili diversi quadri di mostrare altresì qual fosse l’Italia d’allora sì in bene sì in male, e quanti bei temi a poesia possa offerire la vita del medio evo. Foscolo bramava che ci dividessimo l’assunto di dipingere que secoli, egli con una serie di tragedie della qualità della sua Ricciarda, [p. 12 modifica]ed io con poesie narrative. Sebbene fosse fautore caldissimo degli studii classici, amava egli pure i soggetti de’ mezzi tempi, soltanto volendo che si trattassero con gusto severo, e non con quelle soverchie licenze d’invenzione e di stile, che da taluni della scuola romantica s’andavano introducendo.






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RAFAELLA.





Responsio mollis frangit iram, sermo
     durus suscitat furorem.

(Prov. 15. 1).



O bell’arte de’ carmi! Onde l’amore,
     Il dolcissimo amor, che sin dagli anni
     D’adolescenza io ti portava, e afflitto
     Da lunghi disinganni anco ti porto?
     5Non per la melodìa misterïosa,
     Sol de’ söavi accenti, e non per l’aura
     Degli applausi sonanti entro le sale
     De’ colti ingegni, e non per la più cara
     Delle lodi, — la lagrima e il sorriso

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     10Delle donne gentili. Innamorato,
     O bell’arte de’ carmi, hai la mia mente
     Colle nobili istorie. Il tuo incantesmo
     È per me la parola alta e pittrice
     De’ secreti dell’anima, ed un misto
     15Di semplice e di grande e di pietoso,
     Che nessun’altra bella arte con tanta
     Efficacia produce. A te ne’ voli,
     Cui fantasìa ti trae, tutte concede
     Sue grazie il vero; e tu, se Poesia
     20Inclita sei, quella ond’amante io vivo,
     Tutte del ver serbi le grazie, e ornarle
     Sai di delicatissimo splendore
     Che non punto le offende e non le muta,
     E pur le fa per molti occhi più dive,
     25Più affascinanti l’intelletto. Incede
     Senza carmi e con leggi altre men gravi
     Più scioltamente un narrator, siccome
     Senza cinto la vergine; ma il cinto
     Converte la vaghezza in eleganza.
          30Suoni sull’arpa mia, suoni la lode
     Delle forti sull’uom dolci potenze,
     Onde il femmineo cor va glorïoso;
     E mia cantica dica oggi le pompe
     Del Parlamento di Verona, e quale

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     35D’un magnanimo vate era il periglio,
     E più il periglio d’un illustre oppresso,
     Se vergin trovadrice alla crucciata
     Alma d’un generoso imperadore
     Pacificanti melodìe opportune
     40Dal mite e saggio cor non effondea.
          Quando Italia ordinar, lacera in mille
     Avversanti poteri, ebbe promesso
     Il rege Ottone, e di Verona al circo
     Chiamò l’alta adunanza, ove concorse
     45Ogni baron d’elmo o di mitra ornato,
     Ch’oltre o di qua dell’alpi avesse nome,
     Immensa moltitudini coronava
     Sull’anfiteatrale ampia scalea
     La vasta piazza, in mezzo a cui d’Augusto
     50La maestà fulger vedeasi, e quella
     De’ reggenti minori. A gara e dritti
     S’agitavano e accuse. Ora fremente
     Rattenendo la giusta ira nel petto,
     Or con dolce sorriso, il re supremo
     55Ascoltava e tacea dissimulando,
     Però che pria di pronunciar sue leggi,
     Gli altri indagava e maturava il senno.
          Fra le orrende in que’ dì scagliate accuse
     Contro a veri o supposti empi, colpita

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     60D’Insubre cavalier venne la fama,
     La fama d’Ugonel. Gli s’apponea
     Da un ribaldo, il qual retti avea vissuti,
     A giudizio del popolo, molt’anni,
     Atroce fatto di perfidia e sangue:
     65Una lunga covata inimicizia
     Verso il prode Emerigo, e astute fila
     Per ingannarlo sotto il sacro ammanto
     Delle gioie amichevoli; ed in fine
     La morte stessa d’Emerigo, oprata,
     70Per artifizi d’Ugonel, con feri
     Di streghe incantamenti o con veleno.
          Carissimo al regnante era Emerigo
     Per assai merti in guerra e pace, e quando
     Avvenne del baron la crudel morte,
     75Fu visto nella reggia il coronato
     Balzar dal soglio, e impallidire, e gli occhi
     Empirglisi di lagrime, e le grandi
     Rammemorar virtù del cavaliero,
     Giurando alta vendetta.
                                                         Ora Ugonello
     80Vincolato ecco giace entro i profondi
     Umidi cavi di vetusta torre;
     E provata apparendo omai la nera
     Trama ed i sortilegi e l’omicidio,

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     Gode l’accusator, gode una turba
     85D’invidïosi or satisfatta, e ognuno
     Di que’ nemici aspetta la imminente
     Del prigionier condanna; e non pertanto
     V’ha moltitudin pur d’illustri e d’imi,
     Che reo stimar non san quel, già fra’ sommi
     90Seguaci di virtude annoverato.
          Le cure mille del Tedesco Impero
     E del regale Italo serto, e il vivo
     Desìo di non fallir, tengon sospesa
     L’alma d’Otton per varii giorni. Intanto
     95Veniva egli nel circo alle adunanze,
     E più del consueto era cruccioso,
     E de’ suoi fidi gl’intelletti ognora
     Feansi industri con feste a serenarlo.
          Misti alla densa spettatrice folla
     100Palpitavan due petti, usi coll’arpa
     A ridir cose non del volgo: a loro
     D’ogni grande spettacolo la vista
     Era di grandi sensi ispiratrice.
     Uno è il vecchio Romeo, guerrier de’ monti
     105Onde scende Eridan; l’altro Aldigero,
     Suo figliuolo e discepolo: Aldigero
     Non noto sol per gl’inni suoi gagliardi,
     Ma formidabil nelle patrie pugne,

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     E cor, cui sublimato ha degno amore
     110Per la vergin de’ cantici lombardi,
     Rafaella, a que’ dì gloria d’Olona.
          Fascino avea sull’anima d’entrambi
     Que’ bellicosi spiriti la luce
     De’ poetici studi. Il vïandante
     115Le valli attraversando in notti estive,
     Vïolarsi i dolcissimi silenzi
     Da dilette armonie sui colli udiva;
     Ed erano i due vati, ardenti spesso
     Di quell’estro recondito e divino,
     120Che più tra il riso degli ameni campi
     Che nel fragor delle città sfavilla.
     Ma l’estro sempre non traean da’ belli,
     Maraviglisi di natura aspetti.
     Or contemplavan, bianchi di spavento,
     125Le tempeste che visitan la terra
     Come i ladroni, e menan beffe al pianto
     De’ poveri, cui tutto han divorato;
     Or lunge ramingavano, e sui laghi
     E sui precipitevoli torrenti
     130E sulle oceanine onde le spume
     Ivan solcando ne’ perigli, all’urto
     Più feroce de’ venti, allor che il legno
     E s’innalza e sprofondasi impazzato,

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     E qual degl’imbarcati urla, qual prega
     135Con pentimento e con secrete angosce,
     Quale il nocchiero interroga, e il nocchiero
     Non risponde, ma sibila convulso.
          Oltre a tai casi dì terrore, a cui
     Aldigero e Romeo s’eran per lungo
     140Vario peregrinar dimesticati,
     Da’ lor nobili cuori assaporata
     Era la voluttà delle battaglie
     Nelle imprese santissime, e il terrore
     Conoscean delle stragi, e l’alta febbre
     145Della sconfitta, e del trionfo i gaudii.
     E sovente il canuto ad Aldigero
     Avea parlato questi detti:
                                                          ― A’ vati
     Uopo è molto veder, che terra e cielo
     Offran lor di magnifico e tremendo,
     150E ciò che s’è veduto indi in solinghe
     Ore volger nell’alma conversando
     Colla propria mestizia, e colle sacre
     Memorie degli estinti, e col Signore
          Eccoli ambi in Verona. Ivi li trasse
     155La fama dell’eccelso intendimento
     Che tanti spirti congrega da mille
     Contrade lontanissime, e la fama

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     Delle regali, portentose pompe.
          Spalanca i bei cilestri occhi Aldigero
     160Nel vasto anfiteatro, inclito avanzo
     Degli antichi Romani. Oh quanta folla
     Sugli estesi gradini è brulicante!
     Quanto splendor nel sottoposto foro,
     Intorno al soglio di colui che Italia
     165Regge e Lamagna, e in Occidente è primo!
          — Oh padre! ei dice; qual soggetto a carme
     D’italo trovadore, e come il labbro
     Di Rafaella, se in Verona or fosse,
     L’alzerebbe sublime! Un gran monarca
     170Che di due nazioni i sommi aduna
     Per drizzar tutti i torti! E quel monarca
     Giudice è tal, che può cotante sciorre
     Inveterate liti, e le può sciorre
     O com’angiol di Dio, disseminando
     175Sapïenza ed anelito di pace,
     O com’angiol di Sàtana, con ratto
     Piglio i buoni strozzando od illudendo!
          — Figlio, taci per or; bevi a larg’onda
     I robusti concetti, e le speranze,
     180E il paventar magnanimo. Indi cresce
     Dell’ingegno l’acume, e in avvenire,
     A fulminar le laide opre de’ vili,

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     E a cingere di luce i generosi,
     Ti detterà più invigoriti i canti.
          185Terminò dell’augusto parlamento
     L’affaccendato primo giorno, e allora
     Fino al seguente dì venner le regie
     Cure sospese, ed il pensoso Sire
     Collo scettro i baroni accomiatava.
     190Gli applausi de’ baroni Imperadore
     L’acclamavan del mondo, e le caterve
     Piene di maraviglia e di letizia
     Ripetean l’alto grido.
                                                    Asceso Ottone
     Sul candido destrier, per la più larga
     195Trapassa delle vie (dall’eccheggiante
     Arena al suo palagio) ampia corsìa
     Tutta sparsa di fiori e di tappeti
     E d’ardenti profumi, entro le mura
     Della città scorrendo. A tanti viva
     200Il festoso clangor si maritava
     Di cento e cento trombe; ed a’guerrieri
     Ed a’ cavalli il cor battea sì lieto,
     Qual batter suol della vittoria al suono.
          Quel moversi de’ popoli irruente
     205Verso le regie case, un mar parea,
     Che traripando inondi la campagna,

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     E le universe voci, ancor ch’allegre,
     Rombavan sì moltiplici e sì ferme,
     Che la tremenda ricordavan foga
     210Di città che o si scagli alla rivolta,
     O per subiti incendi o per tremoto
     Impetüosa dagli alberghi spanda
     Uomini e donne, e per le vie cozzante
     Strilli fuggendo la insensata turba.
     215Si discernea ch’ell’era gioia, e pure
     Era una gioia che mettea spavento.
          A quel mar traripato argine intorno
     Incrollabil si feano estesi armenti
     D’italici corsieri e di tedeschi,
     220Affrenati dà prodi, irti di lance,
     E le precipitose onde giganti
     S’agitavan represse gorgogliando.
          In tali urti di gente il buon Romeo
     Da una parte fu spinto, e da altra parte
     225Spinto venne il suo figlio, e vanamente
     Qua e là si cercan lungo tempo un l’altro,
     E a chiamarsi a vicenda alzan la voce.
          Il sole iva all’occaso, e detto avresti
     Ch’ei discendesse in mezzo al gregge umano,
     230Tutto affollato sulla immensa terra.
     Quella vista, e la splendida vaghezza

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     De’ nugoletti occidentali, e il molle
     Nell’aere della sera innominato
     Religïoso incantamento, e in blandi
     235Fremiti omai converso il fracassìo,
     Ed a que’ blandi fremiti commista
     La grata dissonanza or de’ nitriti
     Che le briglie scotendo alza, presago
     Della vicina stalla, il corridore;
     240Or di persone salutanti, o mosse
     A subitanee risa; or d’allungato
     Grido di chi da lunge appellar sembra
     Con dolce affetto un qualche suo smarrito,
     De’ trovadori commovea lo spirto.
          245Alle söavi rimembranze è schiuso,
     Più in quella vespertina ora che in altre
     Dell’intero suo giorno, il cor dell’uomo,
     Perocchè il dileguarsi della lampa
     Che a tutti è lieta, inchina ogni pensante
     250Ad affetti patetici, e al ricordo
     Del dileguarsi della vita. Allora
     Diciam la requie a’ nostri pii, che insieme
     Un dì con noi frangeano il pane, e al sacro
     Ospital nappo s’estinguean la sete,
     255E che falce di morte indi ha mietuto;
     E se remota è la natia convalle,

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     L’invochiam sospirando, e riportiamo
     Alle cene domestiche e alla pace
     Del proprio letto il desïïoso sguardo.
     260E le vergini piangono a quell’ora
     Più dolcemente o la perduta madre,
     O l’amica, od il prode, a cui risposto
     Avea già il cor, se non le labbra: «Io t’amo!»
     Ed a quell’ora tutto ciò nell’alma
     265Sente un alto poeta, e più che mai
     Con mistica armonia s’ordinan belle
     D’egregi fatti istorie entro sua mente.
          Tal ben era Aldigero, e in sè volgea
     Fantasie nobilissime, e lui pure
     270Premeva uopo di carmi. E nondimeno
     Sue fantasie turbava una tristezza,
     La tristezza gentil de’ generosi,
     Nel dire entro il cor suo, che, mentre tanta
     Qui la festa fervea, mentre brïaca
     275Di piaceri e spettacoli e conviti
     Era pur la genìa, carco di ferri,
     In cupe volte di prigion, nel lezzo
     E nel dolore un Ugonel giacesse
     Senza conforto di parola amata,
     280Nè di soave illusïon, presago
     Di quell’orrendo palco e di que’ neri

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     Veli, e del manigoldo, e della scure!
     E quell’oppresso era Ugonel! Colui,
     Che il senno de’ miglior dicea innocente!
          285Di loco in loco errò Aldiger lung’ora,
     Indi all’ansante petto altra potenza
     Tormentosa s’aggiunse. Udì levarsi
     Dalle regie pareti una celeste
     Musica d’inni e corde, e a quelle sedi
     290Egli tragge, vi giugne, e appena dice:
     «Son trovador», si schiudono le cinte
     Dell’amplissima sala, ove al fulgore
     Di faci innumerevoli e di gemme,
     Alla guisa d’un Dio, da inebbrïante
     295Pompa sedea bëato il re de’ regi.
          Cinquanta arpe sonavano, ed eletti
     Trovadori ed elette trovadrici,
     Bellissime di forma e verecondia,
     Coralmente cantavano salute
     300Al formidato e caro sir. Fra quelle
     Vergini illustri, chi s’affaccia al guardo
     Maravigliato d’Aldigero? È dessa!
     L’inimitabil Rafaella! Alcuna
     Ei dianzi speme non nutrìa che addotta
     305Ivi da’ consanguinei ella venisse.
     Inenarrabil giubilo s’indonna

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     Dell’amante garzon; ma il foco ei cela,
     E mira, e pensa, e ascolta, e più di prima
     Vago di carmi ha il fervido intelletto.
          310Qual di lui fassi l’esultanza, quando
     Onorevol romor da tutte parti
     S’alza di gente che il ravvisa e dice:
     — Non è quegli Aldiger? Certo, è Aldigero!
     Il famoso Aldiger! — Lo stesso Ottone
     315Ode il pronto susurro, e poichè tanta
     Dell’estro d’Aldigero è qui la fama,
     Vuole che un’arpa a lui si porga e canti.
          Penetrato era intanto ivi Romeo,
     E testimon d’onor sì grande al figlio,
     320Di tenerezza lagrimò: tremava
     Nondimeno il canuto, a cui più noto
     Era che al figlio suo, quanta abbisogni
     Innanzi ai re prudenza; egli tremava,
     Conscio dell’arditissimo desìo
     325Di verità che in Aldiger fervea.
          Ed infatti Aldiger, poste le dita
     Sull’auree corde, e dolcemente svolta
     Ossequïosa melodìa, la sacra
     Maestà benedisse, indi i sublimi
     330Doveri commendando de’ regnanti,
     Osò mischiar con reverenti encomii

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     Sentenze tai, ch’eran flagellò al core
     Di taluni fra i grandi, e l’infiammato
     Inno rivolse a pingere l’uom giusto,
     335Che i maligni allontanano dal trono
     Con atroci calunnie. E la pittura
     Dell’improvvido vate apertamente
     D’Ugonel presentava e le sembianze,
     E le virtù, ed il carcere. In suo cieco
     340Zelo pel vero il trovador pregava
     D’Augusto la giustizia a diffidenza
     Contro orribili accuse, e predicea
     Indi a lui gloria, ed agl’iniqui infamia.
          Otton s’alzò sdegnato; e mise un cenno,
     345E l’inno s’interruppe, e dalle mani
     D’uno scudier tolta al cantor fu l’arpa;
     E la popolosissima assemblea
     Alzò lungo susurro, in cui sommesso
     Plauso verso Aldiger mostravan molti,
     350Ma plauso da rispetto e da paura
     Alternamente soffocato. I cuori
     Più ad Ugonello e ad Aldiger propensi
     Nuocer temeano maggiormente ad ambi;
     Se quel plauso sciogliean.
                                                           Qui l’assennato
     355Imperador volle calmare il moto

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     Di quella moltitudine di menti,
     Mostrando alma pacifica, e di novo
     Sovra il trono s’assise, e chiese il canto
     Delle arpatrici. Ognuno imitò il sire,
     360Dissimulando la imprudente scossa
     Data ai pensieri dal gagliardo vate,
     E dolcissima scese sugli spirti
     Delle virginee voci insiem sonanti
     La musica celeste. Ognun per altro,
     365Benchè temprato a palpiti più miti,
     Volgendo la pupilla in sul monarca,
     Contristar si sentìa; chè nell’augusta
     Faccia, atteggiata indarno alla quiete,
     Balenava recondito corruccio,
     370E l’occhio suo fulmineo esser parea
     D’imminente rigor nuncio tremendo.
     I più avveduti spettatori scritta
     La morte vi scorgean del pro’ Ugonello.
          Ad Aldiger s’approssimò Romeo,
     375E — Che festi? gli disse sotto voce;
     Che fia di te? Finta indulgenza è questa,
     Che te impunito breve tempo lascia:
     Libero uscirai tu di questa cinta?
     E se pur libero esci, ove allo sdegno
     380Ti sottrarrai del rege? Oh potess’io

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     Trarli di qui!
                                    Pietosa a lor d’intorno
     Volea la folla schiudersi allo scampo
     Del perigliante vate. ― Uso alla fuga
     Non son, disse Aldiger; se travïommi
     385Nell’impeto dell’estro il buon desìo,
     Tal non è colpa che celarmi io debba,
     E molta ho fè nel retto cor del sire.
          Sebbene irremovibil dal suo loco,
     Pur mesto era Aldiger, tardi mirando
     390Assai sciagure sovrastanti, e prima
     L’accelerato d’Ugonel supplizio,
     E rimordeagli coscienza. — Io reo,
     Secretamente a sè dicea, d’audace
     Orgoglio fui; me ne punisce Iddio!
          395Dopo il virgineo insiem sonante accordo,
     Palma Ottone degnò batter con palma,
     E sorridendo già sorgea, bramoso
     Di portar lunge da cotanti sguardi
     Alfin l’arcana impazïenza. Il passo
     400Rafaella avanzò, novo tintinno
     Assumendo sull’arpa, ed il cortese
     Imperador si rifermò nel seggio
     Brevi credendo reverenti augurii
     Dalla ispirata udir vergine illustre.

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          405Rafaella tremanti avea le bianche
     Mani sovra le corde, e uscìa tremante
     Dal dolce petto il modulato suono,
     E le guance arrossìano e di pallore
     Si ricoprìano, e il grande occhio fulgente
     410Errava intimidito, e s’atterriva
     Del re incontrando il formidato sguardo.
     Quel gentil trepidar della fanciulla
     Di tutte grazie adorna, intenerìa,
     E maggiormente a lei tutti amicava.
          415Oh! prepotenza de’ söavi incanti
     Che la donna somigliano al bambino,
     E pur la spargon di virtù nascosa
     Che ratta vince ogni viril fortezza!
     Oh! come l’uom, quell’apparente infanzia
     420Mirando in viso della donna, e in tutti
     I morbidissimi atti di quell’ente,
     Gli s’avvicina con fiducia, e ardisce
     Dirsi maggiore,— ed a quell’ente quindi
     Che si debol parea, tributi solve
     425Di reverenza, e a sè maggior lo estima!
          Per quel poter che nelle forme regna
     E nella voce della donna, e astringe
     Le feroci, virili alme ad ossequio,
     Dato alla donna è svolger ne’ suoi detti

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     430Mirabili ardimenti; ed ardimenti
     Non sembran quasi, ma sospiri e preghi.
          Chi rivelato avea tal maestrìa
     Alla vergin de’ cantici? Addolcisce
     A sua voglia e fortifica. Ispirava
     435Pietà col suo tremor; poi quella voce
     Dianzi timida tanto, e quell’aspetto
     Sembran di cherubin conscio a sè stesso
     Di grazia e d’autorevole potenza
     Irresistibil. Ne stupisce Ottone,
     440Ma non puote adirarsene, e diletto
     Anzi ne prova sommo. E Rafaella
     Seppe scansar ne’ generosi carmi
     Quel periglioso, indefinibil punto
     Di baldanza per ottimi consigli,
     445Che irritar puote qual pungente biasmo;
     E non pertanto ella assai disse a laude
     Della giustizia ne’regnanti, e disse
     Necessarii gl’indugi, ove affrettata
     Da esortatori fremebondi venga
     450Di talun la caduta. Ogni pensiero
     Della bella arpatrice era incalzante
     A virtù, ma siccome i detti blandi
     Di madre, che a virtù sprona e accarezza
     L’indociletto garzoncello, o come

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     455I detti d’una figlia a piè del padre.
          Quell’umiltà, quella dolcissim’arte,
     Que’ prorotti dal cor supplici versi
     vinser l’alma del grande Imperadore,
     E gl’intenti ei capì di Rafaella.
     460Battè le regie palme, e alla percossa
     Unissona fur segno, onde gli astanti
     Baroni il plauso prolungar sì forte,
     Che ne tremaro il suolo e le colonne.
          Otton chiamò la vergine, le cinse
     465L’eburneo collo di splendenti gemme,
     E dal suol rialzandola, degnossi
     Dirle: — Qual grazia chiederesti? — Ed ella:
     — Se t’offese Aldiger, deh! gli perdona,
     E mite sii nelle condanne, o sire!
          470Cessò la festa, e pieno di soave
     Commozïone era d’Otton lo spirto,
     Ed all’intime stanze dei riposi
     Ritraëndosi, disse al più fidato
     De’ cancellieri suoi: — M’avea lo schietto,
     475Ma severo Aldiger mosso a tal ira,
     Ch’io divisava d’Ugonel la morte;
     Pacato or sono, e indugierò.
                                                                 Felice
     Quel freno ai moti del rigor! felice

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     480La sapïente vergine che a brame
     Di verità togliea l’impeto scabro
     Delle audaci parole, e ammorbidìa
     Con abbondante carità i consigli!
     Il sospendersi i fulmini, die’ loco
     485A gravi scoprimenti: entrò discordia
     Fra gl’inimici d’Ugonel; le accuse
     Si contraddisser; la menzogna apparve;
     Del Sassone Emerigo l’omicida
     Fu manifesto e dato a morte; e colmo
     490Di gloria uscì del carcer suo Ugonello.
          Fu grato all’Imperante il liberato
     Ed alla vergin trovadrice; e vide
     Ch’ella amava Aldigero, e che Aldigero
     Per l’emula ne’ carmi si struggea,
     495E fra i varii parenti accordo trasse,
     E l’imen si compiè. Sorrise Ottone
     Ai degni sposi, e a Rafaella disse:
     — Temprato dal tuo pio genio celeste,
     Il vigor d’Aldiger più non m’irrìta.
          500Nè da quel dì Romeo gl’impeti incauti
     Non temè del figliuol: fatto era questi
     Prode leon che a gentil maga è ligio.