Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA1

Milord Bonfil, poi Isacco.

Bonfil. (Passeggia alquanto sospeso, poi chiama). Ehi.

Isacco. Signore.

Bonfil. (Seguita a passeggiare e pensare.)

Isacco. (Sì ferma immobile ad aspettare.)

Bonfil. (Non vorrei precipitar la risoluzione). (da sè, passeggiando) (Andrò cauto nel risolvere; ma Pamela non mi vedrà prima ch’io non sia sincerato. I di lei occhi mi potrebbero facilmente sedurre). Ehi. (chiamando e passeggiando)

Isacco. Signore. (senza moversi)

Bonfil. (L’amor mi parla ancora in favore di quest’ingrata). (passeggiando) (Sì, così si faccia. Parlisi con milord Artur. Mi [p. 134 modifica] parve sempre un cavaliere sincero. Proverò a meglio sperimentarlo). Ehi.

Isacco. Signore. (come sopra)

Bonfil. Va in traccia di milord Artur. Digli che ho necessità di parlargli. S’egli vuole venir da me, s’io deggio passar da lui, o dove vuole che ci troviamo.

Isacco. Sì, signore.

Bonfil. Portami la risposta.

Isacco. Sarete servito. (in atto di partire)

Bonfil. Fa presto.

Isacco. Subito. (s’incammina colla solita flemma)

Bonfil. Spicciati, cammina, sollecita il passo.

Isacco. Perdonate. (Il lacchè non l’ho fatto mai). (da sè, e parte)

SCENA II.

Milord Bonfil, poi madama Jevre.

Bonfil. La flemma di costui è insoffribile. Ma è fedele. Mi convien tollerarlo in grazia della fedeltà.2

Jevre. Signore...

Bonfil. Non vi ho chiamato.

Jevre. E non potrò venire senza esser chiamata?

Bonfil. No; non potete venire.

Jevre. Finora ci son venuta.

Bonfil. Da qui in avanti non ci verrete più.

Jevre. E perchè?

Bonfil. Il perchè lo sapete voi.

Jevre. Siete in collera per una bugia che vi ho detto?

Bonfil. Dite che ne ho scoperta una sola; ma sa il cielo quante ne avrete dette.

Jevre. In verità, signore, non ho detto che questa sola, e l’ho fatto per bene. [p. 135 modifica]

Bonfil. Perchè tenermi nascosto il colloquio di Pamela con milord Artur?

Jevre. Perchè conosco il vostro temperamento. So che siete assai sospettoso, e dubitavo che poteste prenderlo in mala parte.

Bonfil. Io non sospetto senza ragione. La gelosia non mi accieca. Ho fondamento bastante per diffidare della onestà di Pamela.

Jevre. Oh, cosa dite mai? Diffidar di Pamela, è lo stesso che dubitare della luce del sole.

Bonfil. Sapete voi i ragionamenti di Pamela con milord Artur?

Jevre. Li so benissimo.

Bonfil. Come li sapete, se non vi foste presente?

Jevre. Li so, perchè ella me li ha confidati.

Bonfil. Io li so molto meglio di voi.

Jevre. Avete parlato colla vostra sposa?

Bonfil. No.

Jevre. Parlatele.

Bonfil. Non le voglio parlare.

Jevre. Or ora verrà qui da voi.

Bonfil. Se ella verrà, me ne anderò io.

Jevre. Non dovete partire insieme per la contea di Lincoln?

Bonfil. No, non si parte più.

Jevre. Ella ha preparato ogni cosa.

Bonfil. Mi dispiace dell’inutile sua fatica. (ironicamente)

Jevre. (Che uomo volubile! e poi dicono di noi altre donne).

Bonfil. Se non avete altro da dirmi, potete andare.

Jevre. Non volete venire dalla vostra sposa?

Bonfil. Non ci voglio venire.3

Jevre. E non volete permettere, ch’ella venga qui?

Bonfil. No, non la vo’ vedere.4

Jevre. E come ha da finire questa faccenda?

Bonfil. In queste cose voi non vi dovete impacciare.

Jevre. In verità, signore, siete una bella testa.

Bonfil. Sono il diavolo che vi porti.5 [p. 136 modifica]

Jevre. Con voi non si può più vivere.

Bonfil. Io non vi prego, perchè restiate.

Jevre. Se fosse viva la vostra povera madre!...

Bonfil. Vorrei che fosse viva mia madre, e che foste crepata voi.

Jevre. Obbligatissima alle di lei grazie.

Bonfil. Sciocca.

Jevre. È insoffribile.

Bonfil. Andate.

Jevre. Sì, vado. (Ci scommetto che ora è pentito d’aver sposata Pamela. Fanno così questi uomini. Fin che sono amanti, oimei, pianti, sospiri, disperazioni; quando sono mariti, diventano diavoli, basilischi6. (da sè, e parte)

SCENA III.

Milord Bonfil solo.

Non sarebbe cosa fuor di natura7, che Jevre tenesse più dalla parte di Pamela, che dalla mia. Le donne hanno fra di loro un interesse comune, quando trattasi di mantenersi in concetto presso di noi. Oltre di ciò, Jevre ha sempre amato Pamela; e se meco è attaccata per interesse, lo sarà molto più seco lei per amore. Tutto ciò mi fa diffidar di costei e diffidando di Jevre, posso dubitare ancor di Pamela. Se esamino la condotta ch’ella ha tenuto meco, non dovrei crederla menzognera, ma le donne hanno l’abilità di saper fìngere perfettamente. Potrei lusingarmi, che riconoscendosi nata di nobil sangue, si trovasse in maggior impegno di coltivare le massime dell’onestà e del contegno; ma posso anche temere ch’ella abbia perduta quella soggezione, che le inspirava la sua creduta viltà, e che la scienza del proprio essere l’invanisca a segno di superare i rimorsi, e non abbia per me quella gratitudine, che a’ miei benefizi si converrebbe. Questi miei argomenti sono per mia disgrazia sulla ragione fondati; ma quella stessa ragione, che [p. 137 modifica] cerca d’illuminarmi, avrà forza per animarmi. Ho amata Pamela, perchè mi parve degna d’amore; saprò abborrirla, quando lo meriti. Ero disposto a sposarla, quando la credevo una serva. Avrò il coraggio di ripudiarla, benchè riconosciuta per dama. Sì, la buona filosofia m’insegna, che chi non sa vincere la passione, non merita di esser uomo, e che si acquista lo stesso merito amando la virtù, e detestando la scelleraggine8. (parte)

SCENA IV.

Miledi Pamela e madama Jevre.

Jevre. Poc’anzi il padrone era qui. Potrà essere poco lontano. Trattenetevi, che lo andrò a ricercare.

Pamela. No, no, fermatevi. Dovreste conoscerlo meglio di me. Guai a chi lo importuna soverchiamente. Desidero di vederlo, desidero di parlargli, ma vo’aspettare, per farlo, un momento opportuno. Il cielo vede la mia innocenza ed i suoi falsi sospetti; mi vergogno a dovermi giustificare; pure l’umiltà non è mai soverchia, ed un marito, che mi ha a tal segno beneficata, merita che, innocente ancora, mi getti a’ suoi piedi a supplicarlo, perchè mi ascolti.

Jevre. Non so che dire; s’io fossi nel caso vostro, non sarei così buona; ma forse farei peggio di voi, e può darsi che colla dolcezza vi riesca d’illuminarlo.

Pamela. Chi sa mai, se mio padre abbia penetrato niente di questo fatto?

Jevre. Non l’ho veduto, signora, e non ve lo saprei dire.

Pamela. Voglio andar ad assicurarmene.9 (in atto di partire)

Jevre. No, trattenetevi, non trascurate di vedere Milord, prima ch’egli esca di casa. [p. 138 modifica]

Pamela. Andate voi da mio padre. Sappiatemi dire, se ha penetrato nulla di questo mio novello travaglio.

Jevre. Sì, signora, restate qui, e prego il cielo che vi consoli. (parte)

SCENA V.10

Miledi Pamela, poi Milord Artur.

Pamela. È grande veramente il bene che ho conseguito dal cielo, e conviene ch’io me lo meriti colla sofferenza. Ma in due cose son io colpita, che interessano troppo la mia tenerezza. Il padre e lo sposo sono i due cari oggetti dell’amor mio, e sono al punto di perder uno, e di essere abbandonata dall’altro. Ah, nata son per penare, e non so quando avran termine i miei martori.

Artur. Miledi. (salutandola)

Pamela. Voi qui, signore? non sapete i disordini di questa casa?

Artur. Non vi rechi pena la mia presenza; son qui venuto per ordine di Milord vostro sposo.

Pamela. Compatitemi, s’io mi ritiro; non vorrei che mi ritrovasse con voi. (in atto di partire)

Artur. Accomodatevi; come vi aggrada.

Pamela. Milord, avete novità alcuna in proposito di mio padre?

Artur. Ho un biglietto del segretario di stato. (accostandosi un poco)

Pamela. Ci dà buone speranze?

Artur. Mi pare equivoco; non l’intendo bene.

Pamela. Oh cieli! lasciatemi un po’ vedere.11

Artur. Volentieri. (caccia di tasca un biglietto)

Pamela. Presto presto, Milord.

Artur. Eccolo qui. Madama. (nell'atto che dà il viglietto a Pamela, esce milord Bonfil, ed insospettisce.)12 (I) (2) (3) [p. 139 modifica]

SCENA VI.

Milord Bonfil e detti.

Bonfil. Perfidi, sugli occhi miei?13

Artur. A che vi trasporta la gelosia?14

Bonfil. Che cosa v’interessa per lei? (ad Artur)

Artur. Un cavalier d’onore dee difendere l’innocenza.

Bonfil. Siete due mancatori.

Artur. Voi non sapete quel che vi dite.

Pamela. Permettetemi, ch’io possa almeno parlare.

Bonfil. Non ascolto le voci di una femmina menzognera.

Pamela. In che ho mancato, signore?

Bonfil. Questo nuovo colloquio giustifica le vostre male intenzioni.

Pamela. Potrete riconoscere da questo foglio... (presenta a Bonfil il viglietto avuto da Artur.)

Bonfil. (Prende il vlglietto e lo straccia) Non vo’ leggere altri viglietti; ne ho letto uno che basta. Così non l’avessi letto; così non vi avessi mai conosciuta!

Pamela. Ma questa poi, compatitemi, è una crudeltà.

Artur. È un procedere senza ragione.

Bonfil. Come! non ho ragione di risentirmi, trovandovi soli in questa camera per la seconda volta in un sospettoso colloquio?

Artur. io ci venni da voi chiamato.

Bonfil. E voi perchè ci veniste?15 (a Pamela)

Pamela. Per attendervi, per pariarvi, per supplicarvi di credermi, e di aver compassione di me.

Bonfil. Non la meritate.

Artur. Voi siete un cieco, che ricusa d’illuminarsi.

Bonfil. Le vostre imposture non mi getteranno la polve negli occhi.

Artur. Giuro al cielo; l’onor mio non regge a simili ingiurie. [p. 140 modifica]

Bonfil. Se vi chiamate offeso, ho la maniera di soddisfarvi.

Pamela. Deh per amor del cielo...

Bonfil. Partite. (a Pamela16)

Pamela. Caro sposo.

Bonfil. Non ardite più di chiamarmi con questo nome.

Pamela. Che sarà di me sventurata?17

Bonfil. Preparatevi ad un vergognoso ripudio.

Pamela. No; dite piuttosto ch’io mi prepari alla morte. Non sarà vero ch’io soffra un insulto non meritato. Tre cose amo in questa vita: voi, mio padre, e il mio onore. Fra voi e mio padre potreste disputare nel cuor mio il primo luogo; ma l’onore vi supera tutti due, e se in grazia vostra sarei disposta a soffrir moltissimo, quando trattasi dell’onore, non soffro niente. Condannatemi a qualunque pena, riconoscerò voi solo per mio sovrano; ma se col ripudio tentate disonorarmi, saprò ricorrere a chi può più di voi. Siete di me pentito? soddisfatevi colla mia morte. Sì, morirò, se così vi aggrada, ma vo’ morir vostra sposa; ma vo’ morire onorata. (parte)

SCENA VII18.

Milord Artur e Milord Bonfil.

Bonfil. Sì, Pamela fu sempre mai lo specchio dell’onestà; voi avrete il merito di averla villanamente sedotta.

Artur. Siete con essa ingiusto, quanto meco voi siete ingrato.

Bonfil. La vostra falsa amicizia non tendeva che ad ingannarmi.

Artur. Le vostre indegne parole meritano di essere smentite col vostro sangue.

Bonfil. O il mio, od il vostro laverà la macchia dell’onor mio. (parte)

Artur. Il cielo farà giustizia alla verità. (parte) [p. 141 modifica]

SCENA VIII.

Pamela e madama Jevre.

Pamela. Madama Jevre, consigliatemi voi nella mia estrema disperazione.

Jevre. Per dire la verità, comincio a confondermi ancora io.19 Buona cosa che vostro padre ancor non sa niente. Ma sarebbe forse meglio ch’ei lo sapesse. Vi darebbe qualche consiglio.

Pamela. Qui non c’è più nessuno. Dove mai saranno eglino andati?

Jevre. Sono andati giù; li ho sentiti scender le scale.

Pamela. Temo del precipizio di alcun di loro. Hanno tutti due al loro fianco la spada20.

Jevre. Eh, avranno considerato che pena c’è in Londra a metter mano alla spada; i pugni sono le armi, con cui si fanno in Inghilterra i duelli.

Pamela. Ma io sono così agitata e confusa, che mi manca fino il respiro.

Jevre. Parlate un poco con vostro padre. Informatelo della vostra disgrazia, e sentite che cosa vi sa dir quel buon vecchio.

Pamela. Non ho core di farlo. So la di lui delicatezza in materia d’onore, e so che ogni mia parola gli sarebbe una ferita al seno.

Jevre. Volete che gli dica io qualche cosa?

Pamela. No, è meglio ch’ei non lo sappia.

Jevre. Che non lo venga a sapere21, è impossibile. E se lo sa per bocca d’altri, è peggio. Dubiterà che sieno vere le vostre mancanze22, se voi non avete coraggio di confidarvi con lui; permettetemi ch’io l’informi23, lo farò con maniera.

Pamela. Fate quel che vi pare. [p. 142 modifica]

Jevre. Poverina! vi ricordate, quando il padrone vi voleva serrar in camera? Quando vi donò quell’anello?24 Allora vi faceva paura il suo amore, ora vi fa paura il suo sdegno: ma quanto allora vi fu utile la modestia, ora è necessario l’ardire. Non abbiate timore. Dite le vostre ragioni, dove si aspetta. Scommetto l’osso del collo, che se andate voi a trattare la vostra causa in un tribunal di giustizia, portare via la vittoria, ed è condannato il giudice nelle spese. (parte)

SCENA IX.

Pamela, poi Miledi Daure.

Pamela. Jevre procura invano di sollevarmi. Sono troppo oppressa dal mio dolore.

Miledi. Gran cose ho di voi sentite, signora.

Pamela. Deh, cognata mia dilettissima...

Miledi. Sospendete di darmi un titolo, che da voi non mi degno ricevere. L’avrei sofferto più volentieri da Pamela rustica, di quel ch’io lo soffra da Pamela impudica25. La sorte vi aveva giustamente trattata colla condizione servile, e non vi fe’ ascendere al grado di nobiltà, che per maggiormente punire la vostra simulazione.

Pamela. Miledi, il vostro ragionamento non procede da una misurata giustizia, ma da quel mal animo che avete contro di me concepito. Perchè mi trovaste restia a condescendere ai vostri voleri, mi giuraste odio e vendetta; e quell’abbraccio che mi donaste nel cambiamento di mia fortuna, fu uno sforzo di politica interessata. Celaste il vostro sdegno, fin che non vi è riuscito manifestarlo; ora, per soddisfare al mal animo, vi prevalete delle mie disgrazie, e voi forse, unita all’imprudente nipote, corrompeste l’animo del mio sposo, e macchinaste la mia rovina. Con tutto ciò, non crediate ch’io vi odi, [p. 143 modifica] come voi mi odiate. Mi preme salvar l’onore, spero di farlo, ma se potessi contro di voi vendicarmi, credetemi, non lo farei. Lo sapete se vi sono stata amica una volta, e malgrado all’ingratitudine, lo sarei ancora nell’avvenire.

Miledi. Vi ascolto per ammirare fin dove giunge l’ardire26 ì di una rea convinta.

Pamela. Chi rea mi crede, mentisce.

Miledi. A me una mentita?

Pamela. Perdonatemi, non intendo di darla a voi, ma a chi ingiustamente mi accusa.

SCENA X.27

Isacco e le suddette.

Isacco. Miledi. (salutando Pamela) Miledi. (salutando miledi Daure)

Miledi. Che cosa e’è?

Isacco. Il padrone, milord Artur, il cavaliere Ernold si battono alla pistola.

Pamela. Il mio sposo?

Miledi. Mio nipote?

Isacco. Miledi. Miledi. (saluta e parte)

SCENA XI.

Miledi Daure, Pamela, poi monsieur Longman.

Pamela. Oh numi! soccorrete il mio sposo.

Miledi. Vo’ cercar d’impedire, se fia possibile...

Longman. Dove andate, signora?

Pamela. Milord è in pericolo.

Longman. Trattenetevi, che l’affare è finito.

Pamela. Il mio sposo?

Longman. È salvo. [p. 144 modifica]

Miledi. Mio nipote?

Longman. È sanissimo.

Pamela. Milord Artur?

Longman. L’ha passata bene.

Miledi. Come andò la facenda?

Longman. Uditela, che è da commedia.28 Altercavano fra di loro il padrone e milord Artur, entrò il Cavaliere per terzo, e si è riscaldata la rissa. i due primi avrebbero voluto venire all’armi, ma temevano i rigorosi divieti di questo Regno. L’imprudentissimo Cavaliere, che ne’ suoi viaggi ha imparate le costumanze peggiori, promosse in terzo la sfida della pistola. Toccò a lui a battersi primo con milord Artur. Si posero in certa distanza. Il Cavaliere tirò, e la pistola non prese fuoco. Milord Artur corse avanti, e gli presentò la pistola al petto. Il Cavalier se la vide brutta. Pretendeva di poter prendere un’altra pistola. Milord Artur sosteneva esser padrone della di lui vita, e milord Bonfil, cavaliere onorato, quantunque nemico di milord Artur, diede ragione a lui, diede il torto al Cavaliere, e questi con tutto lo spirito di viaggiatore29 principiava a tremare dalla paura. Milord Artur fece allora un’azione eroica. Disse al Cavaliere: Io son padrone della vostra vita, ve la dono; e sparò la pistola in aria. Il Cavaliere non sapeva di esser vivo o morto. Stette un pezzo sospeso, e poi disse a milord Artur: Milord, io che ho viaggiato, non ho trovato un galantuomo maggiore di voi. Il padrone si disponeva colla pistola a battersi con milord Artur. Il Cavaliere gliela tolse di mano, e la scaricò contro un arbore,30 fece un salto per l’allegrezza, e tirò fuori il suo taccuino per registrar questo fatto. Milord Artur se n’è andato senza dir niente. Il padrone partì bestemmiando, e il Cavaliere restò in giardino, cantando delle canzonette francesi.

Pamela. Sia ringraziato il cielo. Niuno è pericolato. [p. 145 modifica]

Miledi. Dove andò mio fratello?

Longman. Nell’appartamento terreno.

Miledi. Anderò a ritrovarlo. (in atto di partire)

Pamela. Non andrete senza di me. (volendola seguitare)

Miledi. Fermatevi; a voi non è lecito di vederlo.

Pamela. Non potrò vedere il mio sposo?

Miledi. No; vi ha ripudiata nel cuore, e vi ripudierà legalmente. (parte)

SCENA XII.

Pamela e monsieur Longman.

Pamela. Non impedirà ch’io gli parli. (in atto di partire)

Longman. Ah, signora, fermatevi. Il padrone è troppo adirato contro di voi. Ora ha più che mai il sangue caldo. Non vi esponete a un insulto.

Pamela. Monsieur Longman, che cosa mi consigliate di fare?

Longman. Non saprei. Sono afflitto al pari di voi.

Pamela. Credete voi ch’io sia rea della colpa che mi viene apposta?

Longman. Oibò; vi credo innocentissima.

Pamela. E ho da soffrire di essere calunniata?

Longman. Abbiate pazienza. Il tempo farà scoprire la verità. Il padrone è geloso. Non vi ricordate, che fu geloso di me? Non vi ricordate, che paura mi ha fatto?

Pamela. Parla di ripudiarmi, la minaccia è terribile.

Longman. Non lo farà; ma quando mai lo facesse.... Pamela, ancora vi amo. Oh povero me! non mi ricordava che siete nata contessa. Compatitemi per carità, vi ho voluto bene, e ve ne vorrò sempre. Uh, se mi sentisse il padrone! Vado via 31. Dove posso, fate capitale di me. (parte) [p. 146 modifica]

SCENA XIII

Pamela, poi il Conte d’Auspingh suo padre in abito civile.

Pamela. Tutti mi amano, ed il mio caro sposo mi odia. Numi, per qual mia colpa mi punite a tal segno? Ho io forse con troppa vanità di me stessa ricevuta la grazia, che mi ha offerto la provvidenza? Non mi pare. Sono io stata ingrata ai benefizi del cielo? Ho mal corrisposto alla mia fortuna? Eh, che vado io rintracciando i motivi delle mie sventure? Questi sono palesi soltanto a chi regola il destin de’ mortali; a noi non lice penetrare i superni32 arcani; sì, son sicurissima, che il nume eterno affliggendomi33 in cotal modo, o mi punisce per le mie colpe, o mi offre una fortunata occasione per meritare una ricompensa maggiore.

Conte. Figlia... oimè sostenetemi, il dolore mi opprime, non ho forza per reggermi, non ho fiato per isfogar la mia pena.34

Pamela. Deh caro padre, non vi affliggete. Sono innocente, e l’innocenza non è abbandonata dal cielo.

Conte. Sì, è vero; ma l’umanità si risente. Sono avvezzo a soffrire i disagi di questa vita, non le macchie dell’onor mio.

Pamela. Si smentirà la calunnia; sarà conosciuta la verità.

Conte. Ma intanto chi può soffrire questa maschera vergognosa?

Pamela. Soffrir conviene le disposizioni del cielo.

Conte. Il cielo ci vuol gelosi dell’onor nostro. Merita gl’insulti chi li sopporta35.

Pamela. Che possiam fare nello stato nostro?

Conte. Tentar ogni strada per redimere la riputazione depressa. Svelar gl’inganni, e domandare giustizia.

Pamela. Oimè! qual mezzo abbiamo per appoggiar le nostre querele? Il mio sposo è il nostro avversario. Milord Artur è [p. 147 modifica] in sospetto. Chi può parlare per noi, chi può trattare la nostra causa, chi può farci fare giustizia?

Conte. Io, figlia, io stesso andrò a gettarmi ai piedi del Re, e colle mie lacrime, e colle mie preci...

Pamela. Voi ardireste di presentarvi al monarca? Voi, che tuttavia siete oppresso dalla divisa di reo, vi arrischiereste di precipitare la grazia, di cui vi potete ancor lusingare?

Conte. Che giovami una tal grazia, se fia disonorato il mio sangue? Pochi giorni di vita mi rimangono ancora, e poco goder io posso del reale rescritto. Sì, vo’ morire, ma vo’ morire onorato. Presenterò al regal trono un reo cadente, ma sosterrò la causa della mia figlia. Il Re non può confondere l’innocenza vostra colle mie colpe. A costo della mia morte farò palesi gl’insulti che a voi si fanno; e sarà un testimonio di verità manifesta mirar un tenero padre, che si sacrifica volontario per la propria figlia innocente.

Pamela. Ah, tolga il cielo un sì tristo pensiero dalla vostra mente.

Conte. Figlia, se voi mi amate, non m’impedite un passo indispensabile al nostro decoro. Ve lo comando coll’autorità che ho sopra di voi. Lasciatemi andare, e raccomandatemi ai numi. Se più non ci vediamo qui in terra, ci rivedremo un giorno nel cielo. La vostra povera madre sarà in viaggio per Londra. Abbracciatela in nome mio. Consolatela, se potete... Cara figlia, il cielo vi benedica. (parte)

Pamela. Ahi! mi sento morire36 (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Si veda nell’Appendice questa scena, quale fu stampata nell’ed. di Roma del 1760.
  2. Ed. cit.: La temerarietà dì questo sciocco Italiano e insoffribile. Ma è fedele, convien tollerarlo ecc.
  3. L’ed. cit. aggiunge tra parentesi: con un poco di sdegno.
  4. L’ed. cit. aggiunge: come sopra.
  5. L’ed. cit. aggiunge tra parentesi: con forza.
  6. L’ed. cit. aggiunge: Uhi ingratacci!
  7. Ed. cit.: fuor di proposito.
  8. Nella cit. ed. di Roma segue qui una scena tra Bonfil e il servo Falloppa, che l’autore soppresse: vedasi Appendice, a. II, sc. IV.
  9. La scena poi così segue nella cit. ed.: «Ieure. Non volete attendere che ritorni Milord vostro sposo? Pamela. Ci verrò, quando sarà egli tornato. Ieure. Aspettate un momento. Chi è di là?» Seguono poi altre scene tra il servo e dette, tra il servo e milord Arlur, coi numeri VI e VII, come si vede nell’Appendice.
  10. Il principio di questa scena, come si legge nell’ed. cit. di Roma, vedasi in Appendice (sc. VIII).
  11. Ed. cit.: lasciatemelo.
  12. L’ed. cit. aggiunge: e pone mano alla spada.
  13. Aggiunge la didascalia nella cit. ed.: sfoderando la spada.
  14. Aggiunge la didascalia nella cit. ed.: sfoderando la spada per difesa. Poi continua Bonfil: «Morirai, scellerata, contro Pamela». Mancano quindi, per difetto di stampa, le parole di Artur.
  15. Segue qui nella cit. ed. di Roma una parte di dialogo che l’autore soppresse nella ed. veneziana del Pasquali, come si vede nell’Appendice (a. II, sc. IX).
  16. Ed. cit.: con sdegno.
  17. Nella ed. cit. la didascalia aggiunge: piangendo.
  18. Nella cit. ed. di Roma interviene in questa scena, mentre Bonfil e Artur si battono, il cavaliere Ernold; vedasi Appendice, a. II, sc. X.
  19. Segue poi a dire Ieure nella cit. ed.: Pare che oggi tutte le cose vadano alla rovescia. Anche quello stolido di Falloppa va a pensare che volessimo Milord Artur.
  20. Nell’ed. cit. leggesi invece: erano qui colle spade in mano.
  21. Ed. cit.: che non lo sappia ecc.
  22. Ed. cit.: Dubiterà che sia vero ecc.
  23. Ed. cit.: ch’io gli parli ecc.
  24. L’ed. cit. dice più brevemente: Ricordate quando il padrone vi donò quell’anello?
  25. Ed. cit.: da Pamela infedele.
  26. Ed. cit.: la sfacciataggine.
  27. Questa scena, com’è nella citata ed. di Roma, vedasi in Appendice (a. II, sc. XIII).
  28. Segue nella cit. ed.: Si sfidarono alla pistola. Toccò al Cavaliere di battersi il primo cori Milord Artur. Si posero in certa distanza. Il Cavaliere tirò e la pistola non prese foco ecc.
  29. Ed. cit.: e questi con tutti i suoi viaggi.
  30. Ed. cit.: la scaricò contro un albero.
  31. Ed. cit.: Vado via, ove posso ecc.
  32. Ed. cit.: supremi.
  33. Ed. cit.: che i numi afflìggendomi ecc. o mi puniscono ecc.
  34. Nella cit. ed. dopo le parole oimè, sostenetemi, opprime, forza, reggermi, ci sono dei puntini.
  35. Queste ultime parole mancano nella cit. ed.
  36. Ed. cit.: Ohimè... Mi sento morire.