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146 ATTO SECONDO

SCENA XIII

Pamela, poi il Conte d’Auspingh suo padre in abito civile.

Pamela. Tutti mi amano, ed il mio caro sposo mi odia. Numi, per qual mia colpa mi punite a tal segno? Ho io forse con troppa vanità di me stessa ricevuta la grazia, che mi ha offerto la provvidenza? Non mi pare. Sono io stata ingrata ai benefizi del cielo? Ho mal corrisposto alla mia fortuna? Eh, che vado io rintracciando i motivi delle mie sventure? Questi sono palesi soltanto a chi regola il destin de’ mortali; a noi non lice penetrare i superni1 arcani; sì, son sicurissima, che il nume eterno affliggendomi2 in cotal modo, o mi punisce per le mie colpe, o mi offre una fortunata occasione per meritare una ricompensa maggiore.

Conte. Figlia... oimè sostenetemi, il dolore mi opprime, non ho forza per reggermi, non ho fiato per isfogar la mia pena.3

Pamela. Deh caro padre, non vi affliggete. Sono innocente, e l’innocenza non è abbandonata dal cielo.

Conte. Sì, è vero; ma l’umanità si risente. Sono avvezzo a soffrire i disagi di questa vita, non le macchie dell’onor mio.

Pamela. Si smentirà la calunnia; sarà conosciuta la verità.

Conte. Ma intanto chi può soffrire questa maschera vergognosa?

Pamela. Soffrir conviene le disposizioni del cielo.

Conte. Il cielo ci vuol gelosi dell’onor nostro. Merita gl’insulti chi li sopporta4.

Pamela. Che possiam fare nello stato nostro?

Conte. Tentar ogni strada per redimere la riputazione depressa. Svelar gl’inganni, e domandare giustizia.

Pamela. Oimè! qual mezzo abbiamo per appoggiar le nostre querele? Il mio sposo è il nostro avversario. Milord Artur è

  1. Ed. cit.: supremi.
  2. Ed. cit.: che i numi afflìggendomi ecc. o mi puniscono ecc.
  3. Nella cit. ed. dopo le parole oimè, sostenetemi, opprime, forza, reggermi, ci sono dei puntini.
  4. Queste ultime parole mancano nella cit. ed.