Oro e orpello
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ORO E ORPELLO.
NOVELLA.
I.
Il marchese e la marchesa di Rivasanta avevano raccolto a quel ballo tutti i loro amici e il fiore della società torinese; il palazzo arredato con gusto aristocratico era degno dei scelti convitati che trovavano nella squisita cortesia degli ospiti il principale allettamento.
Un giovane alto, snello, biondo con gli occhi azzurrognoli e il portamento aristocratico, stava osservando, sul limitare d’una porta, la sfilata delle signore che arrivavano. Era il conte Valdusa, un possidente ozioso d’una piccola città della Toscana che alcuni amici avevano chiamato sulle rive del Po, per il carnevale. I facili ritmi dell’orchestra, la profusione dei fiori, l’alitare tranquillo di centinaia di fiammelle che gli specchi ripetevano all’infinito, il vago profumo d’iris e di viola che sfuggiva dai vaporosi abbigliamenti, confondendosi con la fragranza delle fresche rose, quell’armonia di colori diversi, delicati o smaglianti, sovratutto la presenza di quel mondo femminile, così leggiadro e così vario nelle sue attrattive, gli destava una dolce ebbrezza nel cervello. Un po” muovo per quella società, egli si rivolse tutt’a un tratto ad un suo compagno di studi, un giovane robusto, dalla faccia intelligente ed energica, che stava contemplando anch’egli la piacevole scena, con un’aria d’indifferenza superba.
— Oh! Stefanis!.. — esclamò, armando l’occhio destro d’una cerniera a lente d’oro — fosti un po’ l’illustrazione di queste signore... chi sono quelle deu fanciulle laggiù, vestite di rosa?.
— Le marchesine di Sansevero.
— Il babbo era deputato d’estrema destra?.. conosco, conosco. Non devono avere la croce d’un quattrino. Peccato, sarebbero belline!
— E quell’altra, in rosso cupo? Splendida figura!.
— La contessa di Roccabruna, col marito.
— Mi farò presentare. E questa bionda riccioluta, sentimentale?
— Una poetessa. Annie Detleven.
— Me ne scampi il Cielo! Abbi pazienza, Paolo mio: ancora una domanda e poi vado in cerca della bella contessa. Dimmi il nome di quella giovane bruna, dalla fisonomia capricciosa, vestita di giallo, che arriva ora, con una vecchia signora inglese... se non erro?.. Oh! distratto!
— Scusa, Peppino. È la signorina Muzio.
— Ah! è la fanciulla sdegnosa che ha rifiutato tante proposte di matrimonio?.. figlia, anzi orfana d’un industriale straricco? due milioni di dote e quella reliquia anglicana per angelo tutelare? me ne avevano parlato. Cercherò d’avvicinarmi.
— È vero, deve avere una dote assai vistosa — mormorò Stefanis.
— Ti farebbe voglia, eh? perchè non ti ci provi?..
— Non mi fa voglia, piuttosto mi fa orrore — rispose il giovane troncando rapidamente il discorso.
Valdusa lo guardò, maravigliato, con un cenno di disapprovazione profonda, poi s’allontanò in cerca di conoscenze nuove.
Stefanis rimase lì, sulla porta, ad osservare, col pensiero assente, le coppie che gli passavano dinanzi.
Valeria Muzio era seduta sopra un divano, in fondo alla sala, e discorreva, attentamente, con un signore d’età matura, nascondendo talora i suoi arguti sorrisi sotto un grazioso ventaglio d’artista. Ella indossava un vestito di crespo, semplicissimo, ma tagliato da mano maestra, la cui tinta, d’un giallolino caldo, dava valore al suo pittoresco e sano colorito di bruna; in seno, nella modesta scollatura e sui capelli neri e ondulati portava dei mazzolini di fresche giunchiglie della Riviera. Su quella persona armonica e fina che si distingueva fra tutte, su quel volto mobile ed espressivo si posava spesso, con cupa insistenza, lo sguardo di Stefanis cui sembrava vederla danzare, anch’ella, in mezzo ad una pioggia di monete d’oro.
Quanto aveva detto a Valdusa era profondamente vero. Quell’esagerata ricchezza gli offriva continuo soggetto di pena e di sconforto:
dopo ch’era venuto a Torino, dal suo paesello della Valle d’Aosta, per esercitare la medicina, ciò che faceva, d’altronde, con buon successo, egli amava Valeria d’un ardente ed esclusivo affetto, ma ritenendosi indegno della sua considerazione, non osava nemmeno avvicinarla per la tema di venir confuso coi suoi volgari ammiratori.
Concentrato in quel dolce e triste segreto, egli cercava l’unico suo svago negli studi, ma non mancava di cogliere a volo qualunque occasione gli offrisse il destro di vedere da vicino, e senza dar sospetto, la fanciulla dei proprî pensieri.
Al teatri, ai concerti ove non lo avrebbero attratto che le produzioni più scelte, ci andava sempre per lei; ai balli interveniva sempre per incontrarla, e sia nel fondo d’un palco, o tra le falde protettrici d’una tenda, egli se ne stava immobile e non visto a seguirla con lo sguardo, mentre in cuore gli si agitava una crescente tempesta d’affetto.
La signorina Muzio ballava volentieri, ed era sempre un fremito per lui quando un giovane le si avvicinava per invitarla. Quella sera egli la vide scrivere sul suo carnet anche il nome di Valdusa.
Quando il conte condusse seco Valeria in mezzo alla sala, per la seconda quadriglia, molti sguardi seguirono la coppia giovanile, le mamme mormorarono fra loro — un nuovo concorrente! — qualche fanciulla invidiosa represse una smorfia.
Negl’intervalli, tra le figure, Valdusa seppe intrattenere la sua compagna con discorsi molto garbati, qualche volta perfino sentimentali, senza mai varcare il limite della più scrupolosa delicatezza; trovò modo di dirle che lui era innamorato dei tempi antichi e del loro eroismo, che lo spirito pratico della nostra fine di secolo gli ripugnava.
— I nostri padri erano più grandi in tutto; nel sacrifizio e nell’amore; adesso chi ama più? — egli andava dicendo. — La febbre del denaro più che l’amore governa il mondo.
Valeria si volse a guardare il suo interlocutore e, come ognuno almeno una volta s’inganna quaggiù, le parve di leggergli nello sguardo azzurro un’espressione di sincerità. Quelle belle frasi nella bocca d’un giovane di modi gentili, anzi quasi cavallereschi, di aspetto seducente, adorno d’un bel nome e preceduto da un’ottima fama, parlavano con insolita eloquenza all’anima sua, ancora ignara d’’amorose emozioni. Ella rispose cortesemente:
— Sarà vero, ma ogni regola ha la propria eccezione. Dei cuori nobili, io credo, se ne potranno trovare come fra le tirannie del passato, così fra le grettezze del nostro tempo...
— N’è convinta? — diss’egli con vivacità, attribuendosi il complimento.
— Sarebbe dolce cosa per noi giovani, se il giudizio delle fanciulle ci fosse benigno. Ella, signorina Muzio, ha la fama d’essere alquanto severa, — soggiunse il conte, riconducendo, dopo la quadriglia, la graziosa sua compagna, presso Miss Cox, la governante inglese.
— Io? severa? — esclamò Valeria — non più di quanto occorre, sa.
— Ho udito parlare spesse volte di lei — continuò il giovane — e ho saputo ch’era molto, molto ammirata, ma... avevo giurato di starle lontano.
— Perchè? faccio forse paura?
— Sì e no. È una paura così strana, che appena la vidi entrare stasera, divenni subito spergiuro...
— Brutta cosa anche verso sè stessi.
— Ella è crudele, massime con un uomo che si confessa... Il mio errore fu quello di troppo presumere delle mie forze.
— O di giurare quando non ne vale la pena...
— Troppa modestia... — protestò Valdusa, — del resto, 10 non sono il solo scrupoloso, ce n’è degli altri... ma quelli, signorina, danno maggiore ascolto al loro esagerato amor proprio che alle attrattive d’una creatura gentile... — soggiunse egli, non temendo il confronto.
— Chi mai? — domandò Irene, con sùbito interesse.
— Ma! un mio vecchio amico, laggiù, che fa la parte di cariatide.
Valeria guardò in fondo alla sala e vide la. testa bruna di Stefanis che spiccava sullo sfondo chiaro d’una portiera.
— Ah! il dottore, — esclamò ella sorridendo — lo vedo spesso, ma sempre da lontano.
E nei suoi grandi occhi vellutati, passò un lampo strano che a Valdusa parve avere la stessa efficacia d’una scrollatina di spalle. In quel punto il marchese di Rivasanta la invitò per una mazurka, e il colloquio fu troncato.
Quando s’aprirono le porte del buffet, l’amabile padrona di casa cercò un momento opportuno per parlare con Valeria, e posando il suo bel braccio, tutto cerchiato di perle, su quello della fanciulla, la condusse seco in un gabinettino, parato ad arazzi dagli smorti colori, e illuminato da una lampada antica di ferro.
— Valeriuccia mia! — disse la marchesa, stringendo impetuosamente al cuore la sua amica, — avevo voglia di darti un bacio qui, in segreto, di dirti subito una cosa alla quale penso spesso per te, e che tu devi fare, perchè lo puoi...
— Non saprei — rispose Valeria sorridendo — dimmelo che ti ubbidirò.
— Se tu dovessi sposarti, un giorno — mormorò la giovane signora chinandosi quasi ‘all’orecchio della fanciulla, — sappi meditare saggiamente le tue inclinazioni, ma bada che il tuo cuore batta all’unisono con un altro cuore...
Nella voce velata, negli occhi umidi della marchesa, in quella sua effusione improvvisa, c’era una tristezza che commosse Valeria.
— Ma tu... — disse con coraggio la fanciulla, prendendole teneramente le mani — tu... non sei felice, Bianca?..
Benchè fossero state compagne di collegio, e sin dall’infanzia amiche e confidenti, la marchesa non rispose alla domanda.
— Non parliamo di me... — mormorò ella dopo un lungo silenzio, — il mio destino è già fissato... e poi, tu lo sai, Giuliano è buono, molto buono, io lo stimo assai, lo rispetto, e provo per lui una fedele e sincera affezione. Non ero nel tuo caso io.... non potevo scegliere. Ma tu devi promettermi di seguire il voto dell’anima...
— Oh! io resterò sempre ragazza, — bisbigliò Valeria — sono incredula, diffidente... d’altronde non c’è stato mai nessuno che mi volesse realmente bene...
— Tra quelli che ti cercano, pochi sono sinceri, lo credo anch’io — continuò la marchesa — ma l’amore vero è timido, dubbioso e fiero, e spesso si nasconde. Non so perchè mi sia fitto in testa che in queste stanze, perduto tra la folla, vi sia un giovane che t’adora, un giovane venuto unicamente per te... per vederti, per ammirarti in silenzio.
Non porta un nome illustre, ma è presso ad illustrarlo: il suo forte ingegno, il suo cuore impareggiabile valgono più delle ricchezze... e poi, anzi tutto, capisci, è un carattere, è un uomo nel vero senso della parola!..
— Non sapre a chi tu possa alludere... disse Valéria senza turbarsi affatto.
— No?.. proprio? non ti sei mai accorta di nulla? guarda...
E mentre passavano insieme da un salotto, le additò Stefanis che centemplava, meditabondo, una grande azalea fiorita.
Egli si scosse all’apparire delle due giovani, così seducenti, nella bella e diversa freschezza dei loro vent’anni, ma si sarebbe contentato d’un inchino, se la marchesa, fermandosi destramente dinanzi a lui, non gli avesse chiesto col suo fare cortese:
— Perchè così pensieroso, dottore?
— Io pensieroso? — balbettò il giovane, mutando un poco colore — s’inganna signora, osservavo questa pianta, facevo dei riflessi sulla respirazione.
— Troppo gravi, mi pare... E perchè non ballate? Se a me il ballo non fosse vietato, mi prenderei l’impegno di farvi desistere da questi propositi.
— Mi riterrei ben fortunato, marchesa, ma in verità è troppo tempo ch'io...
— Tutte scuse, mio buon dottore. Non posate da vecchio, per carità.
— Ecco qui una mia carissima amica che accetterà volentieri la parte di tentatrice. Non è vero Valeria?
La fanciulla sorrise, e Stefanis si limitò a fare un inchino ritraendosi, un poco, affinchè le due signore potessero passare per recarsi al buffet.
— Ma non sai ch’egli si studia d’evitarmi? — disse Valeria.
— È innamorato... — rispose Bianca, — non hai visto come s’era alterato in volto, com’era confuso?..
— Come puoi aver concepito questa stranissima idea? ..
— Intuito di donna — conchiuse silenziosamente la marchesa.
Valdusa, che non era lontano, avendo intese queste parole, s’appressò subito e disse:
— Se la facoltà d’intuizione è un dono esclusivo del sesso gentile, sarò io troppo ardito se oserò lusingarmi che la signorina Stefanis mi conceda questa polka?
— Oh Dio! caro conte, come siete ricercato! — esclamò, ridendo, la marchesa, mentre Valeria accettava di buon grado l’invito del bel cavaliere.
II.
Più tardi, danzando il cotillon con un cugino di Rivasanta, Valeria si sovvenne tutt’a un tratto di Stefanis e, seguendo uno di quegl’impulsi che la sua tempra indipendente non era avvezza a reprimere, colse il destro d’una figura che la costringeva a scegliere un compagno mo. mentaneo e, lasciando da parte i signori che concorrevano @ quell’onore, ruppe le file, e, avvicinatasi con molta grazia al giovane medico, lo decorò d’un odoroso mazzolino di gaggie, ciò ch’equivaleva all’offerta di ballare con lei.
Al vedersela comparire dinanzi, il povero Stefanis fu preso da un abbagliamento, da una vertigine: volle proferire qualche parola e nulla disse. Sapeva benissimo che il cortese invito della signorina Muzio era uno scherzo, era il semplice adempimento d’una promessa fatta all’ospite e all’amica, ma non poteva rifiutarsi senza essere troppo sgarbato. Soltanto un leggero tremolîo delle labbra tradì la sua emozione. Egli piegò il capo, ringraziando con una certa dignità un po’ triste, poi prese Valeria tra le sue forti braccia, come un leggiadro fiore e la trasse seco in un vorticoso giro di waltzer.
Mentre Valeria tornava impassibile al suo posto, il cuore di Stefanis batteva, con violenza, facendo tremolare il mazzetto di gaggie puntato sulla marsina, e dentro, nel suo profondo, lo struggeva senza conforto, l’esaltata passione.
Ma un cameriere venne poco tempo dopo ad avvertirlo che lo si attendeva al letto d’un ammalato gravissimo. Richiamato, subito, da questa realtà dolorosa, alla coscienza del dovere, il giovane dominò, con un atto imperioso, il proprio affanno e s’affrettò ad abbandonare la festa che volgeva d’altronde allegramente al fine.
— Ho ballato sai, con quel tuo dottore, — disse Valeria accommiatandosi dalla marchesa, — è un bell’orso, cara, te l’assicuro, non m’ha rivolto una parola.
— Chagrin d’amoureux, Valeria mia!
— Quale idea fantastica! — esclamò la fanciulla volgendosi a Valdusa che l’aspettava per porgerle la sua pelliccia di volpe azzurra.
— Mi sembra una fata! — disse il giovane cercando discernere sotto le misteriose falde del cappuccio di trine, un sorriso d’addio.
— Badi, conte, le fate certe volte non portano fortuna, — mormorò Valeria, mentre i suoi occhi neri e contraddicenti lampeggiavano pieni di benignità.
— Parte subito, Valdusa? — continuò ella, scendendo le scale.
— Presto, pur troppo. Mi permetterò tuttavia di presentar loro i miei omaggi prima di tornare in Toscana, — concluse il giovane, volgendosi correttamente a Miss Cox, che chinò il capo anch’ella in segno d’approvazione.
Un’ora dopo, la musica affascinante, i lieti colloqui, le sobrie risa, il bisbiglio degli addii, tutto s’era smorzato nel più profondo silenzio.
Bianca di Rivasanta, ritiratasi nella sua elegante camera da letto color verde-mare, non trovava pace, tuttochè avesse ingoiato una porzione di cloralio; Valdusa dormiva d’un sonno di piombo, nel suo convenzionale appartamentino d’albergo; Valeria, raccolta la casta persona entro il suo candido letto di fanciulla, s’assopiva, mollemente, sognando, colla testina perduta fra i morbidi ricami dei guanciali. Chino sopra l’infermo che non gli dava il cuore d’abbandonare, Stefanis vegliava in silenzio. A tratti, lo assalivano impetuose le ricordanze del ballo, e egli vedeva passare sopra uno sfondo luminoso due figure unite che lo distraevano, con un grave turbamento, dal suo caritatevole ufficio.
Fuori albeggiava, e dalle persiane socchiuse una vivida stella gli appariva sulla fredda serenità del cielo invernale, come una vaga promessa dall’alto.
III.
Alcuni mesi più tardi, Muzio si trovava nel suo studio, intento a meditare un nuovo caso patologico, quando gli giunse una lettera col bollo di Livorno. Portava il monogramma dorato e ne sfuggiva una ricercata fragranza.
— Guarda un po’! è Valdusa che mi scrive — diss’egli con una maraviglia non scevra d’apprensione. E lesse subito le poche, telegrafiche parole.
Carissimo,
«A Livorno da tre settimane. Stagione brillante, società sceltissima. Vera high life. Stelle d’ogni grandezza... vivide, opache, nebulose... anche cadenti. Un solo astro mi seduce. Indovina un po’; mio caro filosofo?.. Valeria Muzio. Audaces fortuna juvat. Serba silenzio scrupoloso; fra breve saprai di più. In agosto ella. torna costà, io andrò a Roma donde ti scriverò un’epistola più seria. Addio e segui l’ottimo esempio.
Il tuo fortunato
Peppino.”
Stefanis sorrise, ma nel riporre quella lettera entro il suo portafogli,
s’accorse che le mani gli tremavano.
«Il fatto doveva accadere», diceva fra sè; «il momento poco importa. Purchè Valdusa la renda felice!»
Ma per quanto egli chiamasse in soccorso la sua fida amica, la ragione, non gli riescì di far nulla in quel giorno e in molti altri appresso.
Gli pareva che nel suo cuore si fosse spenta, all’improvviso, una luce interna che tutto, vividamente, lo rischiarava.
Passarono due altre settimane, poi giunse una seconda lettera, questa con la data di Roma. Stefanis l’aperse, sicuro di trovarvi la sua acerba condanna e scorse tutte d’un fiato, le seguenti righe:
Mia adorata Valeria,
«Ti scrivo per la prima volta dall’eterna Roma che contemplo, pensando a te. La leggiadra tua immagine mi segue ovunque, come, un simbolo di vita e di speranza, in mezzo a queste rovine che l’afa estiva rende deserte e malinconiche. Vorrei dare le ali al tempo affinchè esso mi riconducesse a te vicino... I miei ‘affari volgono al termine, fra breve sarò in Toscana e poi... m’accoglierai nella tua poetica villa, il nostro legame sarà noto agli amici, e io riudrò dalla tua bocca le soavi parole che mi mormorasti un giorno, sulla spiaggia del placido mare, quando invidiavi la vita felice dei pescatori... Difatti, che cosa sono gli agi, i beni, il lusso, in confronto a quella vita semplice, ignorata, in cui v’è tanta ricchezza di familiare affetto e di virtù? .. che sono i fasti del mondo in confronto alla dolce intimità della famiglia?.. Un vano miraggio. lo sogno continuamente queste tranquille gioie che faranno di me un tenero compagno, un amico devoto e... un uomo felice.
Pensa a me, e amami quanto t’ama, dal profondo del suo cuore, il-tuo fedele
Peppino.”
Ti prego, mettimi ai piedi di Miss Cox.»
Altamente commosso da questa lettura e turbato nella sua delicata coscienza per averla fatta così, senz’esitare, come uno che s’affretta a vuotare il calice fino al fondo, Stefanis domandò a sè stesso per qual singolare combinazione quel foglietto gli fosse pervenuto; e riflettendo, finì per concludere che Valdusa scrivendo, ad un tempo a lui e alla signorina Muzio, doveva avere, senz’altro, scambiate le buste.
Il primo suo impulso fu quello di rinviare subito la lettera al forlunato scrivente, ma poi si sovvenne che Valdusa non aveva indicato il suo indirizzo di Roma. Valeva dunque meglio tenerla lì fino al suo ritorno, e guardarla di tratto in tratto e convincersi che tutto, proprio tutto, era finito, per sempre...
E Valeria aveva ella ricevuto in iscambio la lettera a lui destinata? chi lo sapeva? chi lo saprebbe mai?..
IV.
Mentre Stefanis stava concentrato nei suoi amarissimi pensieri, Valeria Muzio appena uscita dal letto, comodamente adagiata in una sedia a sdraio, sorbiva, da una tazza di porcellana inglese, il caffè che le aveva porto l’elegante cameriera, sopra il vassoio d’argento cesellato.
Il lungo accappatoio bianco, disegnava appena la linea gentile della persona; la testina leggiadra, ombreggiata nella fronte da riccioli naturali, s’ergeva, come un bel fiore dall’arricciatura di trina antica; sulle spalle le scendevano ondeggiando due grosse trecce mezzo disfatte. La luce viva, penetrando coll’aria mattutina dalle finestre spalancate, dava alla fanciulla una rugiadosa freschezza, nella serena gioia di vivere e d’amare.
— Giustina — diss’ella alla cameriera — la posta non è ancor venuta?
— No, signorina.
— Questi benedetti postini come si fanno aspettare! Era meglio che tu mandassi un domestico all’ufficio...
— Hai detto al giardiniere che mi porti le gardenie?
— Gliel’ho detto, stamane.
— Ne voglio molte, e anche delle tuberose,.. oggi viene Bianca a desinare.
— La sarta ha mandato il suo vestito bianco: vuole provarlo?
— Lo proverò più tardi, tanto, finchè non c’è... il conte, non lo metterò. Dammi piuttosto il mio braccialettino di perle, sono avvezza a portarlo sempre dopo che sono fidanzata — soggiunse, confidenzialmente. — Fra poco devi uscire e andare dal libraio. Ti farai dare qual che cosa di nuovo... un romanzo inglese; ti scriverò il titolo sopra un cartoncino.
— Il piccolo paravento giapponese e il vaso indiano di cui si parlò ieri, devo comperarli?
— No. A pensarci, mi sono venuti in uggia.
— Stamane, per tempo, — continuò l’impassibile cameriera — è venuta la moglie del fabbro, sa, quella ch’è rimasta vedova con sette figliuoli...
— Di al maestro di casa che la fornisca di quant’occorre. No, lascia stare, ci andrò io stessa entro la giornata. Soffrono molto, eh?
— Soffrono la fame, signorina.
— Oh Dio! la fame! presto, presto, dammi il mio portamonete... laggiù su quel tavolino — e, levatine alcuni biglietti — prendi — soggiunse, — portale subito questo... poi si vedrà...
E due grosse lagrime sfuggirono dai grandi occhi neri. Ma il suo sguardo, all’improvviso, si ravvivò, il portiere aveva suonato, doveva essere la posta...
— Corri, Giustina, spìcciati!..
La cameriera fu in un balzo nell’anticamera e strappò più che non tolse di mano ad un piccolo groom la guantiera ch’egli recava.
Fra un mazzo di giornali, d’illustrazioni e di lettere, Valeria scòrse subito ciò che più le stava a cuore, la grande busta profumata, col monogramma dorato, la prese in mano con trasporto e v’introdusse cautamente la lama d’un pugnaletto per non lacerarla. Ma non aveva appena spiegato il foglio che un piccolo grido di maraviglia le sfuggì. Poi, senz’esitare, lesse, avidamente:
«Muzio carissimo,
Hai ricevuto la mia epistola telegrafica? Non ne dubito. Essa t’avrà preparato alla confidenza che sto per farti. La mia barca ha navigato a gonfie vele e ho già il porto in vista. Quando approderò, essa avrà per carico una bella donnina e dei milioni, que’ milioni che a te, mio caro idealista, facevano tanto orrore. Io, povero mortale, li trovo proprio senza eccezione. In quanto alla donnina, ho avuto campo di conoscerla da vicino: ella congiunge alle sue doti intellettuali la più seducente avvenenza... soltanto madre natura ha voluto farne una delle sue... le ha messo un grano di pepe di troppo. Il capriccio è la caratteristica delle figlie uniche, ma io non me ne accòro. Non appartengo al bel numero di quei disgraziati che cadono sotto il dominio d’Eva. Mi piace d’avere una volontà indiscutibile, assoluta. Così la mia pic cola tigre passerà dalla bizzarra fierezza, alla mansuetudine dell’agnellino e lo condurremo con un nastro color di rosa. Non ci credi? T’invito a vedere, l’anno venturo in casa mia, se non dico il vero; come anticipatamente ti prego di voler assistere alle mie nozze. Il tuo felicissimo
Peppino.”
Trascinata, come Stefanis, da un istinto imperioso, Valeria non s’era fatto scrupolo di quella lettura, ma, leggendo, era diventata, a mano a mano, rossa, poi pallida, poi bianca addirittura dalla sorpresa, dal disgusto, dal ribrezzo. Stava per lacerare a brani il piccolo foglio, poi, quasi inconsciamente, si trattenne e stringendolo con atto convulso, fra le mani, si buttò sul letto in un parossismo di collera disperata. Non si curava affatto d’investigare, col pensiero, per quale strana combinazione quella lettera fosse pervenuta a lei, ma s’abbandonava tutta all’amarezza del cocente disinganno, al cruccio d’essersi lasciata così ciecamente illudere dagli artifizî d’un uomo volgare, ella che aveva sempre accolto con un sorriso di diffidenza e d’incredulità, gli ammiratori che le si affollavano d’intorno devoti, ossequiosi, in qualunque luogo si recasse.
Stavolta Valeria aveva amato per la prima, e l’amore l’era penetrato insidiosamente nel cuore con le più folli, con le più lusinghiere speranze; nei suoi luminosi sogni d’avvenire, ell’aveva fatto il proposito d’essere una moglie saggia, docile, amorosa, di vincere le bizzarrie del suo temperamento un po’ capriccioso, di dedicarsi a quel caro compagno fra tanti prescelto. E ora quest’uomo che la sua immaginazione s’era compiaciuta di circondare d’un’aureola poetica, le si rivelava, tutta un tratto, nella più sfacciata ipocrisia, nella più ributtante venalità; le strappava all’improvviso dal cuore la fiducia, uno dei più grandi benefizî che ci siano concessi quaggiù. Perduta per sempre quell’illusione, ella doveva tornare all’antico scetticismo che l’esperienza rafforzava, alla solitudine dell’orfana sua vita, all’amara privazione degli affetti familiari. Valeria non tardò tuttavia ad accorgersi che nel rimpianto del bel sogno svanito, lo sdegno prevaleva al dolore, la sua anima altera sentiva, anzi tutto, il tormento dell’ingiuria sofferta, e quando fu cessato il primo spasimo quasi incosciente e potè leggere in fondo a sè stessa, le parve provare un vago senso di liberazione.
«L’ho io amato? l’ho io proprio amato?» diceva fra sè, tentando convincersi con la ragione, — l’impareggiabile soccorritrice di tanti affanni, — che il sentimento che l’aveva predominata da più mesi, non era che un giuoco dell’esaltata fantasia, un giovanile inganno «qual luce mi s’è fatta d’intorno? quanta chiarezza nella mia mente che una ri dicola convinzione offuscava! Benedetta lettera! tu sei proprio venuta in tempo per salvarmi dalla sventura! — E quasi diventava benigna verso il perfido foglietto rivelatore. Ma poi ne veniva rileggendo una parte, con triste voluttà; una fiamma divampava sulle sue guance pallide e un singhiozzo le scuoteva il petto.
La cameriera, tornando un’ora dopo dalla sua missione di carità, dovette picchiare e ripicchiare più volte prima d’essere ammessa.
— C’è di là questo signore che desidera parlare con lei, e domanda se potesse concedergli un minuto, un minuto solo d’udienza... — disse Giustina, porgendole un biglietto. Valeria lo guardò alla prima, distrattamente, poi vi fissò gli occhi: — Paolo Stefanis... mai, mai! gli dirai che non lo posso ricevere, gli dirai che sono indisposta, che non vedo nessuno... va da Miss Cox, pregala di fare le mie veci.
— La signora è uscita poc’anzi — replicò la cameriera.
— Uscita! e dunque, io non lo ricevo, hai capito. Ma no, Giustina, aspetta.
— Che vorrà egli? proprio lui, proprio quello a cui è diretta la lettera!.. — mormorò fra sè, e mentre, nella sua irresolutezza, tornava a scorrerla collo sguardo, le cadde sott’occhio la frase: i milioni che a te, caro idealista, facevano orrore, e, mutando subito pensiero — no no, — soggiunse — è meglio che lo veda, digli che s’accomodi nel salotto, poi vieni a ravviarmi i capelli.
Giustina, tornando, la trovò già dinanzi allo specchio, e in pochi minuti, con alcune forcine di tartaruga, la bruna testina fu acconciata.
Valeria si cacciò in fretta sulle palpebre alterate il pietoso piumino della cipria, scelse un’elegante toeletta da mattina, tutta guernita di nastri rossi, si mise in seno una rosa, poi, assumendo all’improvviso un fare gioviale, quasi spensierato, e agitando, con grazia, il piccolo ventaglio, s’inoltrò nel salotto ove Stefanis l’attendeva, con una forte palpitazione.
Che cosa l’aveva guidato colà? affetto. Indarno il giovane diceva a sè stesso che quella visita era una mancanza di tatto e che la lettera andava restituita a Valdusa; egli si sentiva trascinato da una forza arcana, da una magica tentazione, egli così solito a dominare il proprio istinto. Doveva essere quella la sua prima ed ultima visita, la sua prima ed ultima follia, un addio segreto, senza speranza, tutto compenetrato dall’aspra voluttà del sacrifizio. Non portava egli la lettera d’un tenero fidanzato? Sotto quest’usbergo egli si sentiva sicuro, la sua passione non aveva paura di tradirsi.
V.
Valeria entrò nel salotto con una studiata apparenza di serenità, ma s’avvide che Stefanis, al suo arrivo, aveva mutato colore.
— Buon giorno, dottore — diss’ella, con fredda amabilità, senza stendergli la mano, mentre il giovane s’inchinava; — a che cosa devo ascrivere il piacere della sua visita?.. Miss Cox non è in casa, ma io non ho voluto ch’ella si disturbasse due volte...
— Compatisca il mio ardire, signorina. La cagione che mi conduce è strana... il caso, o uno sbaglio forse... chi lo sa?... una parola sola e parto subito.
— S’accomodi, la prego, — soggiunse Valeria, con grande pacatezza, additandogli una poltroncina e sedendogli di faccia, sopra un sofà. — In che cosa posso aggradirla?..
— Oh! non sono venuto a chiedere un favore — disse Stefanis, arrossendo improvvisamente. Adempio ad un semplice dovere, e restituisco una lettera la quale... credo... le appartiene.
— Una lettera?..
— Sì, una lettera di Valdusa, che il caso, con mio vivo rammarico, m’ha fatto cadere fra le mani.
— E... ella la lesse?
— Pur troppo... la lessi... e ne chiedo perdono. Sulla busta vi era il mio indirizzo... lo scritto è breve... insomma, un quiproquo deplorevole... Peppino è sempre stato un pochino... distratto.
— Davvero? oh! le distrazioni non portano sempre conseguenze disastrose — mormorò Valeria, frenando a stento l’ira che le faceva tremare le labbra.
Stefanis aveva levato intanto dal portafogli la famosa lettera.
— Non so dove abbia preso l’ardire di portarla io stesso — disse il giovane con voce alterata — non mi pareva cosa d’affidare ad altri o alla posta... Ignoro d’altronde ove Valdusa si trovi in questo momento... non volevo privarla più a lungo d’un piacere... e poi, le confesso, mi stava in mente ch’ella avesse ricevuto il foglio a me rivolto e che venne senza fallo scambiato...
— Io? le pare? non ho visto niente, si figuri! — disse Valeria con molta alterezza, senza prendere la busta che Stefanis aveva deposta sul tavolino. — Non importa ch’ella faccia tante scuse, dottore, non ne vale proprio la pena. Io le sono grata della sua premura, ma non le nascondo che, quand’anche ella avesse restituita più tardi la lettera al conte Valdusa io non ci avrei perduto nulla... proprio nulla. Fra me e quel... signore, non esiste più alcun rapporto amichevole.
Stefanis scattò in piedi come fosse preso da un mortale spavento.
— Sono sempre più confuso e mortificato — balbettò egli con la faccia stravolta — mi permetta d’allontanarmi subito.
— No... resti un pochino, dottore. La notizia che le diedi poc’anzi le sembrerà forse alquanto... curiosa — ripigliò la fanciulla, con molta calma apparente, — ma è semplice assai... Il conte, da quanto capisco, le ha... forse un po’ indiscretamente confidato il... progetto che andava da qualche tempo maturando... ma io sono una creatura strana, quasi selvaggia... ho le mie bizze... muto pensiero con facilità, e quelle cose che oggi non mi dispiacciono, talvolta mi destano un senso di ribrezzo, l’indomani...
Il giovane la guardò gravemente e con una curiosità profonda. In quell’attitudine sdegnosa, con quella veste bizzarra, sparsa di nastri scarlatto, con quella rosa rossa in seno la cui sottile fragranza giungeva fino a lui, bella per il fascino della nobile e intelligente fisonomia, per il mal frenato ardore di giovinezza che ne trapelava, Valeria parve a Stefanis la viva immagine d’un capriccio, ma d’un capriccio adorabile e irresistibile. Egli sentiva che le aspre e inconsiderate parole della fanciulla celavano un’interno affanno; e una pericolosa pietà gli scendeva in cuore.
Difatti, spossata dalla lunga sensazione nervosa, Valeria perdette un minuto la padronanza di sè, e 1 suoi grandi occhi neri apparvero al giovane inondati di lagrime.
— Da qualche tempo sono un po’ sofferente, — balbettò ella, vergognosa di quel femminile abbandono, reprimendosi con violenza.
— Me ne avvedo! — disse Stefanis, molto agitato — e ho rimorso d’essere stato così indiscreto, d’essere venuto anch’io ad importunarla... Badi però, — soggiunse, seguendo un impulso della professione, tutto commisto d’una tenera e segreta sollecitudine, — badi che certe crisi nervose, ripetendosi spesso, potrebbero nuocerle.
— Poco importa, dottore. Del resto, colla volontà si vince tutto. Prima di partire, abbia la cortesia di rispondere a una mia domanda.
— Volentieri, signorina.
— È ella profondamente legato col conte Valdusa?
— Fummo condiscepoli, siamo rimasti amici.
— Amici... intimi? — insistette Valeria:
— Ella sa che s’è fatto e si fa un grande abuso di questo nome, il quale non sarebbe giustificato che dall’affinità delle anime.
— Sta bene — concluse la fanciulla — la ringrazio. Doman l’altro vado in campagna alla mia villa fuor di porta. Il lunedì e il giovedì dalle tre alle sette, ricevo sempre... la sera vengono i miei vecchi amici... È tanto vicino... due passi... se mi vuol favorire? ..
— Le sono riconoscente, signorina, ma le mie occupazioni... gli ammalati... non so davvero se...
— Verrà? — insistette Valeria con un breve ma profondo sguardo.
— Grazie. Forse... verrò — rispose Stefanis soggiogato, pur proponendosi di non accettare.
La fanciulla gli porse la sua manina in segno d’addio. Egli l’aveva già stretta nella sua mano nervosa, e s’avviava per uscire. quando Valeria mormorò:
— E la lettera?
— Ma, signorina...
— Io non la voglio, la prenda lei, la restituisca a chi la scrisse.
Il giovane esitava, ma uno sguardo un po’ imperioso lo decise, e, senza dir altro, inchinandosi profondamente, prese la busta, ch’ella non aveva toccata, e uscì dal salotto.
VI.
Valeria rimase alcuni minuti immobile e come raccolta in sè stessa. Il suo cuore era in tumulto, e nella sua mente fantasiosa passavano, turbinando, le più strane idee.
Prima di tutto, rammentando che Valdusa doveva recarsi fra breve a Firenze e lieta di conoscere l’albergo ov’egli era solito alloggiare in quella città, corse alla sua scrivania e preparò il seguente biglietto per lui:
«Il signor conte è incorso in un grave ma salutare errore: scrivendo contemporaneamente al dottor Stefanis e a me, ha scambiato uno coll’altro, i due indirizzi. Il fatto non ha bisogno di commenti. Le restituisco tutte le lettere ch’ella mi ha volontariamente spedite e la prego di farmi avere subito le mie. Da questo momento, ogni relazione fra lei e me, è rotta in modo irremissibile.
Vareria Muzio.»
Poi, senza curarsi nemmeno di sottoporre lo scritto all’approvazione del suo tutore, o almeno al consiglio di Miss Cox, raccolse e vi unì le poche lettere di Valdusa, un anellino e il braccialetto ch’egli le aveva regalati, ne fece un plico e mandò subito a raccomandarlo alla. posta.
Compiuto quest’atto, le parve di sentirsi più tranquilla, e andò nell’appartamentino della sua vecchia amica per aprirle il cuore.
Il conte, esasperato d’aver così scioccamente compromesso, per una fatale distrazione, tutto l’avvenire, non si sentì l’animo di rispondere a Valeria, nemmeno per chiederle scusa, ciò che gli sarebbe sembrato anche troppo umiliante ed amaro; tenne per qualche giorno una corrispondenza alquanto vibrata col tutore della signorina, andò in collera senz’alcuna ragione con Stefanis, poi, avido di qualche confortevole conquista, pigliò il pretesto di certi studi agricoli che gli stava a cuore d’intraprendere e partì per un lungo viaggio all’Estero.
VII.
Erano trascorse parecchie settimane, e Stefanis non compariva a villa Muzio.
Valeria, sempre un po’ taciturna e cupa, si pentiva d’aver invitato, con insistenza, quell’orgoglioso che così male rispondeva alla sua cortesia, La marchesa di Rivasanta villeggiava a poca distanza da lei; si vedevano spesso, e un giorno ella non potè a meno di confidare all’amica tutto l’accaduto, narrandole anche della strana renitenza del dottore.
— Credo ch’egli sia tanto nobile, quanto Valdusa era volgare, — disse Bianca dopo un breve silenzio. — Tu desidereresti proprio che venisse? — ella domandò poi, guardandola nel fondo degli occhi.
— Io?.. non so, Bianca, capirai... quando s’invita...
— Ah! è unicamente per questo?.. non v’è un desiderio più... intimo... più profondo?..
Valeria non rispose, ma abbracciò la marchesa stretta stretta, nascondendole in seno il volto inondato di lagrime.
Alcuni giorni dopo, Stefanis entrando nel salotto a terreno della villa Rivasanta, trovò la marchesa col cappello in testa, intenta ad abbottonarsi i lunghissimi guanti.
— Ah, dottore! — esclamò ella — come mi dispiace che giungiate in sì mal punto! Ho promesso a Valeria Muzio di farle una visitina stasera, prima del desinare. Ella m’aspetta... e viene anche Giuliano. Una buona idea! voi conoscete la mia cara amica, non è vero?.. Accompagnateci, ve ne prego.
— Impossibile, marchesa!
— Come impossibile?
— Non vi sono mai stato... e poi... devo tornare subito in città.
— Una mezz’ora a noi ce l’avreste regalata, spero, e io non vi domando di più; la passeggiata è breve... dieci minuti appena. Vedete come cammino per seguire i vostri suggerimenti... voi siete ingrato alla più docile delle vostre pazienti.
Ma il giovane pur sorridendo, continuava a protestare. Allora la marchesa gli si piantò ritta dinanzi, e interrogandolo ancor più con lo sguardo che con le parole:
— Voi fuggite la signorina Muzio — disse con risolutezza. — Un simile modo di procedere non si giustifica che coll’avversione o... coll’amore, Valeria, poverina, non merita la vostra avversione, nè voi potreste accogliere in cuore un sentimento così malvagio... è dunque l’amore... siete così fortemente innamorato, Stefanis?
Il giovane impallidì.
— Non so... non so nulla — rispos’egli — la prego, donna Bianca, non insista più oltre.
Ma la marchesa che aveva saputo quanto bramava, non si diede per vinta e, opponendo la sua femminile, seducente ostinazione, alla grave fermezza di Stefanis, chiamato in aiuto anche il marito, lo indusse con dolce violenza a seguirli. Essi raggiunsero in breve la villetta ove la signorina Muzio soleva passare l’autunno, una specie di cottage perduto fra il verde, che portava il motto Quies, sul cancello di ferro tutto adorno di grappoli di bignonie rosse.
V’era molta gente, quella sera, e Valeria potè dissimulare la viva commozione che le destò nell’animo la comparsa inaspettata di Stefanis.
La marchesa trovò, tuttavia, un momento opportuno per mormorarle all’orecchio:
— Non mi sono ingannata, ma egli non si tradirà mai...
Il dottore non si trattenne a lungo, ma quell’incontro, quasi forzato, nell’elegante salotto tutto adorno di crisantemi giapponesi, ove la gentile padroncina di casa, vestita di rosa, andava, come una fata leggiadra dall’una all’altra delle sue ospiti, gli lasciò nell’animo un ardente, un tormentoso desiderio, ed egli dovette lottare eroicamente contro la dolce tentazione. Il suo istintivo riserbo, la sua naturale alterezza facevano sempre prevalere sull’innamorato, l’uomo che avrebbe preferito morire piuttosto che esporsi a un disinganno o ad un rifiuto. Fermo nel suo proposito di non tradirsi, egli mantenne il solito delicato contegno, si contentò di fare un’altra fuggevole comparsa alla villa e due brevi visite in città, durante l’inverno. Nei pubblici ritrovi, al concerti, nei teatri non gli era più concesso di scorgere Valeria nemmeno da lontano, perchè la fanciulla quell’anno menava una vita assai ritirata.
Un giorno di marzo, erano alcune settimane che non la vedeva, Stefanis, torturato da una profonda tristezza, non seppe resistere ad un improvviso ed imperioso istinto del cuore, e decise di passare la serata in casa Muzio.
Al suo apparire, Valeria arrossì profondamente, ma dopo qualche minuto egli s’accorse ch’era un po’ smorta in viso e di sofferente aspetto.
Mentre quei signori che soleva chiamare i suoi vecchi amici e ch’erano infatti le reliquie della società in mezzo alla quale aveva vissuto nell’infanzia, stavano intenti ad una solenne partita di whist, e Miss Cox preparava gravemente il thè, la fanciulla, col pretesto di mostrargli certe fotografie di quadri moderni, lo trasse in disparte presso un tavolino sul quale si trovava uno splendido albo d’argento cesellato. E mentre il giovane osservava, col pensiero dolcemente distratto, le belle riproduzioni delle opere dei pittori scozzesi, Valeria, tutto a un tratto, gli disse:
— Stefanis... io ho la bugia in orrore... e pure... un giorno, con lei qui in questo salotto ho mentito... Fu, credo, l’unica menzogna della mia vita, me ne pento ora e me ne accuso...
— Non capisco... — rispose il giovane un poco turbato.
— Sì, pur troppo, ho mentito, — ripigliò Valeria — ma allora non ero in grado di parlare chiaramente. Non immagina di che si tratta? No? Ecco: le dissi che non avevo ricevuto alcuna lettera da... da quel signore, e non era vero. La lettera c’è... l’ho chiusa qui in questo cofanetto, l’ho serbata per lei, essa le appartiene.
E aprendo la serratura dorata d’un grazioso gingillo d’ebano intarsiato che giaceva lì presso, sopra una mensola, ne trasse un foglio di carta tutto spiegazzato e glielo porse.
— Allora non volevo che lo leggesse — soggiunse — adesso, invece, lo desidero. Ella vi troverà la ragione di tante cose.
— Se ben rammento — disse Stefanis — la signorina ricusò d’accettare lo scritto che le portavo... Non mi sarebbe lecito di fare altrettanto?
— No no. La cosa è assai diversa. Sia buono, Stefanis, prenda la lettera e la legga subito: ho bisogno di questa giustificazione.
Il giovane acconsentì con una certa riluttanza, ma un lampo di gioia rifulse sulla sua faccia sconvolta quando gli passarono sott’occhio le parole che si riferivano a lui.
A Valeria che lo studiava attentamente, quel fuggevole ma espressivo sorriso, non passò inosservato.
— È una lettera indegna! bruciamola subito — esclamò egli.
— No, Stefanis, la tenga lei in perpetuo ricordo. Non mi curo del giudizio acerbo che Valdusa fece su di me. Le avevo già detto che sono capricciosa, e non voglio nasconderlo.
Il giovane le rivolse un acuto sguardo come se volesse penetrare nel profondo e per lui delizioso mistero di quell’anima di fanciulla, e disse con grande dolcezza:
— Non vi è nulla che possa domare e vincere questa tendenza al capriccio di cui ella ama sì spesso accusarsi?
La domanda era pericolosa. Valeria rimase un momento sopra pensiero, poi rispose, con improvvisa timidezza, senza sollevare gli occhi:
— Certe esperienze sono molto amare... vi sono dei momenti in cui la vita ci appare come un mare deserto e procelloso, in cui s’ha bisogno d’un faro a cui rivolgere uno sguardo... Io avevo sperato una volta di trovare un buon amico... uno spirito superiore al cui consiglio affidarmi... sento che m’avrebbe resa migliore... ma egli mi fugge.
Stefanis parve non aver capito e non rispose.
— Sì, sì mi fugge — insistette la fanciulla, — e vorrei almeno saperne la ragione, Stefanis...
— La ragione è una sola, ma è molto grave — disse finalmente il giovane — ma ella mi consentirà di tacerla, non è vero?
— E se... per caso... nella sua saggezza avesse... torto anche lei? — osservò Valeria con un fine sorriso.
— Può darsi, signorina. In ogni modo sono il primo, cioè... l’unico a soffrirne.
Stefanis parlava ancora con la consueta alterezza, ma il suo volto commosso tradiva il segreto: la luce della passione nobilissima e fin allora così gelosamente custodita, gli rifulgeva come una fiamma dagli occhi.
— Ella ne soffre?.. — domandò Valeria.
— Molto.
— Non le è mai balenato alla mente il pensiero che potesse soffrirne anche...
— Non ho alcun diritto di pensarlo, signorina... — egli mormorò con voce alterata.
— Oh! vuole proprio che glielo dica?.. m’ha fatto male sa, tanto male!
— Valeria!
Il dolce nome gli sfuggì involontariamente dalle labbra, come un soffio. Ella continuò:
— Ho creduto che mi ritenesse indegna della sua amicizia, incapace di discernere il vero dal falso; come una volta... ho creduto d’esserle affatto indifferente...
— Dio buono! — esclamò il giovane, con un impeto di mal frenata tenerezza — come può dire così, se da tre anni ella è il mio solo pensiero, l’unico bene dei miei occhi, l’unico conforto della mia solitaria vita!..
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Il cameriere annunziò la marchesa di Rivasanta. Quando i giuocatori, dietro sua preghiera, si furono rimessi al posto, donna Bianca volle che i due giovani tornassero anch’essi nel loro angoletto, sulla piccola causeuse, dinanzi all’albo aperto e si mise lî presso in una poltroncina.
— Mi sembrate commossi... — diss’ella, tutta un tratto, non senza malizia — che cosa c’è in quell’albo?..
— C’è questo, Bianca... Paolo m'ha detto che mi vuol bene...
E dopo aver rivolto fra le lagrime un raggiante sorriso a Stefanis, Valeria attrasse a sè la testina pallida e bionda della marchesa e la coperse di baci infocati.
Jacopo Turco.