Orlando innamorato/Libro terzo/Canto terzo

Libro terzo

Canto terzo

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Libro terzo - Canto secondo Libro terzo - Canto quarto

 
1   Tra bianche rose e tra vermiglie, e fiori
     Diversamente in terra coloriti,
     Tra fresche erbette e tra soavi odori
     De gli arboscelli a verde rivestiti,
     Cantando componea gli antichi onori
     De’ cavallier sì prodi e tanto arditi,
     Che ogni tremenda cosa in tutto il mondo
     Fu da lor vinta a forza e posta al fondo;

2   Quando mi venne a mente che il diletto
     Che l’om se prende solo, è mal compiuto.
     Però, baroni e dame, a tal cospetto
     Per dilettarvi alquanto io son venuto;
     E con gran zoia ad ascoltar vi aspetto
     L’aspra battaglia de Grifone arguto
     E de Aquilante, il tanto apregïato,
     La qual lasciai nel canto che è passato.

3   Contai del cocodrilo in che maniera
     Da la torre de Orrilo a furia n’esce.
     A meraviglia grande è questa fiera,
     Che molto vive e sempre in vita cresce;
     Ora sta in terra ed or nella riviera,
     Le bestie al campo, a l’acqua prende il pesce;
     Fatto è come lacerta, over ramaro,
     Ma di grandezza già non sono al paro;

4   Ché questo è lungo trenta braccia, o piue,
     Il dosso ha giallo e maculoso e vario;
     La mascella di sopra egli apre in sue,
     Ed ogni altro animal fa pel contrario.
     Tutta una vacca se ingiottisce, o due,
     Ché ha il ventre assai maggior de un grande armario,
     E denti ha spessi e lunghi de una spana:
     Mai fu nel mondo bestia tanto istrana.

5   Ora Grifon, che lo vidde venire,
     Come detto è di sopra, a tal tempesta,
     Mosse con gran possanza e molto ardire
     Verso di quello e la sua lancia arresta.
     Più bello incontro non se potria dire:
     Tra gli occhi il colse, a mezo de la testa.
     Grossa era l’asta, e il ferro era pongente,
     Ma l’uno e l’altro vi giovò nïente.

6   Fiaccosse l’asta come una cannuza
     E poco fece il ferro alla percossa,
     Ché a quella bestia non passò la buza,
     Tanto era aspra e callosa e dura e grossa.
     Ora apizata è ben la scaramuza,
     E la fiera orgogliosa, ad ira mossa,
     Aperse la gran bocca; e senza fallo
     Integro se il sorbiva esso e ’l cavallo.

7   Se non che a tempo vi gionse Aquilante,
     Che avea già Orilo in due parte tagliato,
     E veggendo il germano a sé davante
     A tal periglio e quasi devorato,
     Mena un gran colpo del brando trinciante
     Sopra al mostaccio, che era rilevato.
     Fatato è il brando, ed esso avea gran forza,
     Ma a quella bestia non taccò la scorza.

8   Il cocodrilo ad Aquilante volta,
     Ma tanto spaventato è il suo destriero
     Che già non lo aspettò per quella volta,
     Né di aspettarlo gli facea mestiero,
     Ché in bocca non gli avria dato una volta,
     Ma travalciato in un boccone intiero:
     L’omo, il cavallo, l’arme e’ paramenti
     Giù serian giti e non toccati e denti.

9   Ma, come io dico, il destriero è smarito,
     Fugge correndo e ponto non galoppa;
     Quello orrendo animal l’avea seguito,
     E quasi il tocca spesso ne la groppa.
     Essendogli vicino a men de un dito,
     Altro che fare ad Aquilante intoppa,
     Ché Orrilo è suscitato e non soggiorna,
     Ma con la mazza alla battaglia torna.

10 Ora Grifone a terra era smontato,
     E salta al cocodrilo in su le rene,
     E sì pel dosso è via correndo andato,
     Che per la coppa al capo se ne viene.
     Saltava il cocodrilo infurïato,
     Ma Grifone attaccato a lui se tiene,
     Ché ad ambe man l’ha preso per il naso:
     Mai non fu visto il più stupendo caso.

11 Da l’altra parte Orrilo ed Aquilante
     Ripresa insieme avean cruda battaglia,
     Quale era pur come l’altre davante.
     Non giovano al pagan piastre né maglia,
     Ché in pezzi vanno a terra tutte quante.
     Ecco il gionge alla spalla e quella taglia,
     Credendo darli a quella volta il spaccio;
     La spalla via tagliò con tutto il braccio.

12 Va il braccio dritto a terra col bastone:
     Non sta queto Aquilante, il sire arguto,
     Ché ben sapea di sua condizïone;
     Veggendol morto, non l’avria creduto.
     Da l’altro lato mena un roversone,
     E monca il manco braccio e tutto ’l scuto;
     Poi salta dell’arcione in molta fretta,
     Prende le braccia e quelle al fiume getta.

13 Nel fiume le scagliò da mezo miglio:
     Grande in quel loco è il Nilo, e sembra un mare.
     Disse Aquilante: - Or va, ch’io non te piglio,
     E fami el peggio ormai che mi pôi fare.
     La mosca mal te cacciarai dal ciglio,
     E potrai peggio e gambari mondare,
     Malvaggio truffator, che con tuo incanto
     M’hai retenuto in tal travaglia tanto. -

14 Voltosse Orilo e parve una saetta,
     Tanto correndo va veloce e chiuso,
     E da la ripa nel fiume se getta:
     Col capo innanti se ne andò là giuso.
     Corse Aquilante a Grifon che lo aspetta,
     Che il cocodrilo avea preso nel muso;
     Non bisognava che indugiasse un anno,
     Ché là stava il germano in grande affanno.

15 Come io vi dissi su poco davante,
     Grifon quello animale al naso ha preso,
     E sopra al capo vi tenea le piante,
     Facendo a forza il muso star disteso;
     E così stando, vi gionse Aquilante,
     Qual prestamente fu de arcion disceso,
     E prese la sua lancia, che era in terra,
     Ché non l’aveva oprata in questa guerra.

16 Con quella in mano allo animal s’accosta,
     Ponendo a tal ferire ogni possanza,
     E tra la aperta bocca il colpo aposta,
     E dentro tutta vi cacciò la lanza.
     Via per il petto e per la prima costa
     Fece apparir la ponta per la panza,
     Però che sotto al corpo e ne le aselle
     Il cocodrilo ha tenera la pelle.

17 Ben vi so dir che il tratto a Grifon piacque,
     Perché già più non lo potea tenire;
     Mai lieto fu cotanto poi che nacque.
     Ora comincia Orilo ad apparire,
     Che su venìa natando per quelle acque.
     Quando Aquilante lo vidde venire,
     - Può far - diceva - il celo e tutto il mondo
     Che abbi pescati e monchi in su quel fondo? -

18 Lui l’uno e l’altro de’ bracci menava
     E l’onda con le mano avanti apriva;
     Come una rana quel fiume notava,
     Tanto che gionse armato in su la riva.
     Grifon verso Aquilante ragionava:
     - Se questa bestia fosse ancora viva,
     Quale abbiam morta con affanno tanto,
     Di tale impresa non avremo il vanto. -

19 Disse Aquilante: - Io non so certo ancora
     Che onor ce seguirà questa aventura;
     Far non so io tal prova che mai mora
     Quella incantata e falsa creatura.
     Del giorno avanza poco più de un’ora:
     Che faren ne la notte a l’aria scura?
     A me par di vedere, e già il discerno:
     Quel ce trarà con seco nello inferno. -

20 Grifon diceva: - Adunque ora si vôle,
     Mentre che è il giorno, la spada menare,
     Prima che al monte sia nascoso il sole:
     Per me la notte non sapria che fare. -
     E quasi al mezo di queste parole
     Volta ad Orilo e vallo ad afrontare;
     Ciascun da dover tocca e non minaccia,
     L’un con la spada e l’altro con la maccia.

21 Molto vi era da far da ciascun lato,
     Ché quello a questo e questo a quel menava,
     Avenga che Grifone è bene armato,
     E di mazzate poco se curava.
     Durando la contesa in su quel prato,
     Un cavalliero armato vi arivava,
     Che avea preso in catena un gran gigante.
     Ma di tal cosa più non dico avante.

22 Ben poi ritornarò, come far soglio,
     E questa impresa chiara conterò,
     Ché, quando de una cosa è pieno il foglio,
     Convien dar loco a l’altra; ed imperò
     De Mandricardo racontar vi voglio,
     Qual con Gradasso in Franza menerò.
     Ma, prima che sian gionti, assai che fare
     Avranno entrambi e per terra e per mare.

23 Partiti da la fata del castello,
     Ove l’arme di Ettòr già star suoleano,
     Sorìa, Damasco e quel paese bello
     Senza travaglia già passato aveano.
     Sendo gionti sul mare ad uno ostello,
     Perché era tardi aloggiar vi voleano,
     Ma quello è aperto ed è disabitato,
     Né appar persona intorno in verun lato.

24 Guardando giuso al lito il re Gradasso,
     Verso una ripa a pietre dirocata,
     Ove la batte l’onde e il mare al basso
     Stava una dama ignuda e scapigliata,
     Che era legata con catene al sasso,
     Chiedendo morte la disconsolata.
     - Morte, - diceva - o tu, morte, me aiuta,
     Ché ogn’altra spene è ben per me perduta! -

25 E cavallier callarno incontinente
     Giuso nel fondo di quel gran petrone
     Per saper meglio l’aspro conveniente
     Di quella dama, e chi fosse cagione;
     Ma lei piangeva sì dirottamente,
     Ch’e sassi mossi avria a compassïone,
     Dicendo a quei baron: - Deh! per pietate
     Tagliatime qua tutta con le spate.

26 E se il celo o fortuna vôl che io pèra,
     Per le man de omo almen possa perire,
     Né divorata sia da quella fiera,
     Ché peggio assai è il strazio che il morire. -
     Volean saper la cosa tutta intiera
     E duo baron, ma lei non potea dire,
     Sì forte in voce singiociva, e tanto
     Tra le parole gli abondava il pianto.

27 E pur dicea piangendo: - Se io mi doglio
     Più che io non mostro, n’ho cagione assai.
     Se il tempo bastarà, dir la vi voglio:
     Odeti se una al mondo è in tanti guai.
     Dimora uno orco là sotto a quel scoglio:
     Non so se altro orco voi vedesti mai,
     Ma questo è sì terribile alla faccia,
     Che al ricordarlo il sangue mi se agiaccia.

28 Apena apena che parlar vi posso,
     Ché il cor mi trema in petto di paura.
     Grande non è, ma per sei altri è grosso,
     Riccia ha la barba e gran capigliatura;
     In loco de occhi ha due cocole de osso,
     E bene a ciò providde la natura,
     Ché, se lume vedesse, a tondo a tondo
     Avria disfatto in poco tempo il mondo.

29 Né vi è diffesa, a benché non gli veda,
     Ché, come io dissi, il perfido è senza occhi.
     Io già lo vidi (or chi fia che lo creda?)
     Stirpar le quercie a guisa de finocchi;
     E tre giganti che avea presi in preda,
     Percosse a terra qua come ranocchi;
     Le cosse dispiccò dal busto tosto,
     E pose il casso a lesso e il resto a rosto.

30 Però che sol se pasce a carne umana,
     E tien de sangue de omo a bere un vaso.
     Ma gite voi in parte più lontana,
     Che quel malvagio non vi senta a naso;
     A benché giace adesso nella tana,
     Che per dormir là dentro si è rimaso;
     Ma come se resvegli, incontinente
     Al naso sentirà che quivi è gente.

31 E come un bracco seguirà la traccia;
     Non valerà diffesa, né fuggire,
     Ché cento miglia vi darà la caccia,
     E converravi in tutto al fin perire.
     Onde vi prego che partir vi piaccia,
     E me lasciati misera morire,
     Ma sol chiedo di grazia e sol vi prego
     Che a una dimanda non facciati nego;

32 E questa fia: se forse tra camino
     Avesti un giovinetto a riscontrare,
     Re di Damasco (e nome ha Norandino;
     Non so se mai lo odesti racordare),
     A lui contati il mio caso tapino
     (So ben che lo fareti lacrimare),
     Dicendo: "La tua dama te conforta,
     Che te amò viva ed ama ancora morta."

33 Ma ben guardàti, e non prendesti errore,
     De dir ch’io viva più tra tante pene,
     Però che lui mi porta tale amore,
     Che nol potrian tener mille catene;
     E la mia doglia poi saria maggiore,
     Veggendo perir meco ogni mio bene;
     E più mi doleria che la mia morte,
     Che se a lui fosser sol due dita torte.

34 Direti adunque come sotterrata
     M’avete istessi a canto alla marina;
     Ma lui dimandarà de la contrata
     Per trovar morta almen la sua Lucina.
     Direti che l’aveti smenticata
     Come se chiami, e il loco che confina;
     Poi confortati lui con tal parole
     Che stia contento a quel che ’l mondo vôle. -

35 Così ragiona, e la faccia serena
     Piangendo bagna quella sventurata.
     Tenea Gradasso le lacrime apena,
     E già dal fianco avea tratta la spata
     Per rompere e tagliar quella catena,
     Con la qual quivi al sasso era legata;
     Ma la dama cridò: - Per Dio, non fare!
     Morto serai, né me potrai campare.

36 Questa catena, misera! dolente!
     Per entro al sasso passa nella tana;
     Come toccata fosse, incontinente
     Scocca uno ordegno e suona una campana;
     E se quel maledetto se risente,
     Ogni speranza del fuggire è vana.
     Per piani e monti e ripe e lochi forti
     Mai non vi lasciarà, sin che vi ha morti. -

37 A Mandricardo molta voglia tocca
     De odir se la campana avea bon suono.
     La dama non avea chiusa la bocca,
     Che è scosso la catena in abandono.
     Ben vi so dir che dentro là si chiocca:
     Sembra nel sasso risuonare un tuono;
     E la donzella pallida e smarita
     - Ahimè! - cridava - ahimè! mia vita è gita!

38 Sol de la tema tutta me distorco:
     Adesso qua serà quel maledetto. -
     Eccoti uscir de la spelonca lo orco,
     Che ha la gozaglia grande a mezo il petto;
     E denti ha for di bocca, come il porco,
     Né vi crediati che abbi il muso netto,
     Ma brutto e lordo e di sangue vermiglio;
     Longhi una spanna ha e peli in ogni ciglio.

39 Quanto una gamba ha grosso ciascun dito
     E negre l’ungie e piene di sozzura.
     Ora Gradasso già non è smarito
     Per tanto istrana ed orrida figura.
     Col brando in mano adosso a quello è gito,
     Ma l’orco del suo brando ha poca cura,
     Nel scudo il prende e via strappò del braccio,
     E quel stringendo franse come un giaccio.

40 Se così preso avesse nella testa,
     L’elmo avria rotto e trito come cenere,
     Serìa compita ad un tratto la festa.
     Come se schiazzan le nociole tenere,
     Come se fiacca un ziglio alla tempesta,
     O vero un fongo che al fango se genere,
     Sì sciolto il capo avria, senza dissolvere
     Le fibbie a l’elmo, e fatto tutto in polvere.

41 Ma lui non vede ove ponga la mano,
     Per questo a caso l’ha nel scudo preso;
     E dette un scosso sì crudo e villano,
     Che a terra il re Gradasso andò disteso.
     L’orco il prese a traverso a mano a mano,
     Alla spelonca lo portò di peso;
     Ben se dibatte invano e se dimena,
     Pur l’orco il lega e pone alla catena.

42 Come legato l’ebbe, incontinente
     Fuor de la tana di novo è venuto;
     E Mandricardo si stava dolente,
     Ché il suo caro compagno avia perduto.
     Non avea brando il cavallier valente,
     Però che aveva in sacramento avuto
     Mai non portare alla sua vita brando,
     Se non acquista quel del conte Orlando.

43 Chinosse e prese una gran pietra e grossa:
     Bene è cinquanta libre, vi prometto;
     E trasse quella di tutta sua possa,
     E gionse lo orco proprio a mezo il petto.
     Ma quel non teme ponto la percossa,
     Anci l’ira gli crebbe e il gran dispetto;
     Ove ebbe il colpo, con la man se tocca,
     E, come un verro, ha la schiuma alla bocca.

44 E dietro al cavallier par che se metta,
     Come un seguso a l’orme de una fiera.
     Già Mandricardo ponto non lo aspetta,
     Ché avea persona destra, atta e legiera.
     Su corre al poggio, e sembra una saetta;
     Quindi, fermato a megio la costiera,
     Tra’ un gran sasso tratto fuor del monte,
     E quel percosse dritto nella fronte.

45 Quel sasso in mille parte se spezzò,
     Ma fece poco male a quel perverso,
     E già per questo non lo abandonò,
     Ché non l’aveva mai di naso perso.
     Mandricardo ne va quanto più può,
     Cercando il monte a dritto ed a traverso,
     Tanto che gionse a quello in su la cima,
     E lo orco apresso; e quasi ancora in prima.

46 Non sa più che si fare il cavalliero,
     Né a questa cosa sa prender partito;
     Per ogni balza e per ogni sentiero
     Questa malvagità l’avea seguito,
     Né far bisogna ponto di pensiero
     Aver con esso de diffesa un dito;
     Ben gli tra’ sassi e tronchi aspri e robesti,
     Ma non ritrova cosa che lo aresti.

47 Torna correndo in giù, verso il vallone,
     A benché indietro se voltava spesso,
     Ed ecco avanti trova un gran burone:
     Da cima al fondo tutto il monte è fesso.
     Alor se tenne morto quel barone,
     E per spazzato al tutto se è già messo;
     Sopra alla balza a corso pieno è mosso,
     Di là de un salto andò con l’arme in dosso.

48 Ed era larga più de vinti braccia,
     Sì come altri estimar puote alla grossa;
     Ma quel brutto orco che seguia la traccia,
     Perch’era cieco non vidde la fossa,
     Onde per quella a piombo giù tramaccia.
     De intorno ben se odette la percossa,
     Ché, quando gionse in su le lastre al fondo,
     Parve che il cel cadesse e tutto il mondo.

49 Non dette la percossa sopra al letto,
     Perché quella aspra ripa era molto alta,
     E ben tre coste se fiaccò nel petto,
     E quelle pietre del suo sangue smalta.
     Diceva Mandricardo con diletto:
     - Chi ponto stecca al segno mal si salta.
     Or là giù ti riman in tua malora! -
     Così dicendo più non se dimora.

50 E giù callando lieto e con gran festa,
     Al mar discese e venne alla spelonca.
     Qua vede un braccio, e là meza una testa,
     Colà vede una man co’ denti monca.
     Per tutto intorno è piena la foresta
     Di qualche gamba o qualche spalla tronca
     E membri lacerati e pezzi strani,
     Come di bocca tolti a lupi e a cani.

51 Ciò riguardando varca di bon passo;
     E gionse a quella tana in su la intrata,
     Qual molto è grande dentro da quel sasso,
     E riccamente d’oro è lavorata.
     Poi che ebbe sciolto quindi il re Gradasso,
     E la dama che al scoglio era legata,
     Tutti se revestirno a nove spoglie,
     Ché veste ivi trovarno e ricche zoglie.

52 Montarno, e ciascadun forte camina;
     Seco è la dama dal viso soprano:
     E via passando a canto alla marina
     Iscorsero una nave di lontano.
     Viddero in quella, quando se avicina,
     L’alta bandiera del re Tibïano:
     Qual era parte di questa donzella,
     Tolta da loro alla fortuna fella.

53 Re de Cipri in quel tempo e de Rodi era
     Quel Tibïano ed altre terre assai,
     E va cercando per ogni rivera
     De la filiola, e non la trova mai;
     Onde di doglia in pianto se dispera,
     E mena la sua vita in tristi guai.
     Come la dama la bandiera vide,
     Per allegrezza a un tratto piange e ride.

54 Già meglio se comincia a discernire
     La nave e la sua gente tutta quanta;
     E la donzella non può sofferire,
     Ma con la veste a quella nave amanta;
     E, senza più tenirvi in lungo dire,
     Salirno al legno; e la zoia fo tanta
     Quanto a sì fatto caso esser credia,
     Trovando lei che morta esser tenìa.

55 E già le poppe voglion rivoltare,
     Tirando con le corde alte le antene.
     Eccoti lo orco che nel poggio appare,
     E verso il mare a corso se ne viene;
     Ben vi so dir che ogniom si dà che fare,
     Ché la più parte alor morta se tiene;
     Ciascun de’ marinari era parone
     A tirar presto e volgere il temone.

56 Pur giù vien lo orco e verso il mar se calla.
     La barba a sangue se gli vedea piovere,
     Un gran pezzo de monte ha in su la spalla,
     Che dentro vi eran pruni e sterpi e rovere;
     Legier lo porta lui come una galla,
     Né cento boi l’avrian potuto movere.
     Correndo vien la orrenda creatura:
     Già dentro al mare è sino alla cintura.

57 E tanto passa, che va come il buffolo,
     Che il muso ha fuori e i piedi in su la sabbia;
     Movere odendo e remi al suon del zuffolo,
     Trasse là verso il monte con gran rabbia.
     Gionsine presso; e l’onda diè dal tuffolo,
     Che saltar fece l’acqua in su la gabbia;
     Ma se più avanti un poco avesse agionto,
     Sfondava il legno e li omini ad un ponto.

58 Se e marinari alora ebber spavento,
     Non credo che bisogni racontare,
     Ché qual di loro avea più de ardimento
     Nascoso è alla carena e non appare.
     Ora levosse da levante il vento,
     L’onda risuona e grosso viene il mare;
     Già rotto il celo e l’acqua insieme han guerra:
     Più non se vede lo orco né la terra.

59 De l’orco, dico, ormai non han paura,
     Ma morte han più che prima in su la testa,
     Però che orribilmente il celo oscura,
     Il vento cresce ogniora e gran tempesta.
     Pioggia meschiata de grandine dura
     Giù versa con furore, e mai non resta:
     Ora fùlgore, or trono ed or saetta,
     Che l’una l’altra apena non aspetta.

60 Per tutto intorno bursano e delfini,
     Donando di fortuna il tristo annoncio;
     Non sta contento il mare a’ suoi confini,
     Che in nave ne entra assai più d’un bigoncio:
     Da far vi fia per grandi e piccolini.
     Ma non vi vo’ tenir tanto a disconcio,
     E nel presente canto io ve abandono,
     Ché ogni diletto a tramutare è bono.