Orlando innamorato/Libro terzo/Canto settimo

Libro terzo

Canto settimo

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1   Più che il tesoro e più che forza vale,
     Più che il diletto assai, più che l’onore,
     Il bono amico e compagnia leale;
     E a duo, che insieme se portano amore,
     Maggior li pare il ben, minore il male,
     Potendo apalesar l’un l’altro il core;
     E ogni dubbio che accada, o raro, o spesso,
     Poterlo ad altrui dir come a se stesso.

2   Che giova aver de perle e d’ôr divizia,
     Avere alta possanza e grande istato,
     Quando si gode sol, senza amicizia?
     Colui che altri non ama, e non è amato,
     Non puote aver compita una letizia;
     E ciò dico per quel che io vi ho contato
     Di Brandimarte, che ha passato il mare
     Sol per venire Orlando ad aiutare.

3   Di Biserta è venuto il cavalliero
     Per trare il conte fuor de la fiumana;
     Il re Gradasso e Mandricardo altiero
     Avea richiesti a quella impresa strana.
     - Ma dove rimango io? - dicea Rugiero
     - Se ben non chieggio a Orlando Durindana,
     Se ben seco non voglio aver contesa,
     Venir non debbo a sì stupenda impresa? -

4   - Esser conviene il numero disparo, -
     Rispose Brandimarte - a quel che io sento;
     Condurvi tutti quanti avrebbi a caro,
     Ma nol concede questo incantamento;
     Ed io non vedo a ciò meglior riparo
     Che per la sorte fare esperimento.
     Ecco una pietra bianca ed una oscura:
     Chi avrà la nera, cerchi altra ventura. -

5   Ciascun de stare a questo fo contento,
     Così gettarno la ventura a sorte,
     E Mandricardo fuor rimase ispento,
     E quindi se partì dolente a morte.
     Turbato se ne va, che sembra un vento,
     Per piano e monte caminando forte.
     Tanto andò, che a Parigi gionse un giorno,
     Ove Agramante ha già lo assedio intorno.

6   Di fuor ne l’oste, io dico de Agramante,
     Fu ricevuto a grandissimo onore.
     Ma di lui non ragiono ora più avante,
     Perché io ritorno nel primo tenore
     A ricontarvi del conte de Anglante,
     Che se ritrova preso in tanto errore
     Tra le Naiàde al bel fiume del Riso;
     Or odeti la istoria che io diviso.

7   Queste Naiàde ne l’acqua dimorano
     Per quella solacciando, come il pesce,
     E per incanto gran cose lavorano,
     Ché ogni disegno a lor voglia rïesce.
     De’ cavallier sovente se inamorano,
     Ché star senza uomo a ogni dama rencresce,
     E di tal fatte assai ne sono al mondo;
     Ma non si veggion tutti e fiumi al fondo.

8   Queste ne l’acque che il Riso se appella,
     Avean composto de oro e di cristallo
     Una mason, che mai fu la più bella,
     E là si stavon festeggiando al ballo.
     Già vi contai di sopra la novella,
     Quando discese Orlando del cavallo
     Per rinfrescarse a l’onde pellegrine;
     Ciò vi contai de l’altro libro al fine.

9   E come tra le dame fu raccolto
     Con molta zoia e grande adobamento;
     Quivi poi stette libero e disciolto,
     Preso de amore al dolce incantamento,
     A l’onde chiare specchiandosi il volto,
     Fuor di se stesso e fuor di sentimento;
     E le Naiàde, allegre oltra misura,
     Solo a guardarlo aveano ogni lor cura.

10 Però di fuora, in cerco alla rivera,
     Per arte avean formato un bosco grande,
     Ove stava di pianta ogni mainera,
     Ilice e quercie e soveri con giande:
     L’arice e teda e l’abete legera
     Di grado in grado al ciel le fronde spande,
     Che sotto a sé facean l’aere oscuro;
     Poi for del bosco se agirava un muro.

11 Questa cinta era fabricata intorno
     Di marmi bianchi, rossi, azurri e gialli,
     Ed avea in cima un veroncello adorno
     Con colonnette di ambre e de cristalli.
     Ora a quei cavallier faccio ritorno,
     Che vengon senza suoni a questi balli,
     Né san de le Naiàde la mala arte:
     Dico Rugier, Gradasso e Brandimarte,

12 E Fiordelisa, che seco favella
     Di questa impresa e molto li conforta.
     Gionsero in fine a la muraglia bella,
     Qual di metallo avea tutta la porta.
     Sopra alla soglia stava una donzella,
     Come a guardarla posta per iscorta,
     E tenea un breve, scritto da due bande,
     Con tal parole e con lettere grande:

13 ’ Desio di chiara fama, isdegno e amore
     Trovano aperta a sua voglia la via.’
     Questi duo versi avea scritti di fuore,
     Poi dentro in cotal modo se leggia:
     ’Amore, isdegno e il desïare onore
     Quando hanno preso l’animo in balìa,
     Lo sospingon avanti a tal fraccasso,
     Che poi non trova a ritornare il passo.’

14 Gionti quivi e baron, come io vi ho detto,
     La dama con la mano il breve alciava,
     E fo da tutti lor veduto e letto
     Da quella banda che se dimostrava.
     Adunque e cavallier senza sospetto
     Passâr, ché alcun la strata non vetava;
     Con Fiordelisa entrarno tutti quanti,
     Ma per la selva andar non ponno avanti.

15 Però che quella molto era confusa
     De arbori spessi ed alti oltra misura;
     La porta alle sue spalle era già chiusa,
     Che più facea parer la cosa scura;
     Ma Fiordelisa, tra gli incanti adusa,
     - Non abbiati - dicia - de ciò paura;
     A ogni periglio e loco ove si vada,
     Il brando e la virtù fa far la strada.

16 Smontati de li arcioni, e con le spate
     Tagliando e tronchi, fative sentiero;
     E se ben sorge alcuna novitate,
     Non vi turbati ponto nel pensiero.
     Vince ogni cosa la animositate,
     Ma condurla con senno è di mestiero. -
     Così dicea la dama; onde e baroni
     Smontano al piano e lasciano e ronzoni.

17 Smontati tutti e tre, come io vi disse,
     Rugier nel bosco fo il primo ad entrare,
     Ma un lauro il suo camin sempre impedisse,
     Né a’ folti rami lo lascia passare;
     Onde la mano al brando il baron misse
     E quella pianta se pose a tagliare,
     Dico del lauro, che foglia non perde
     Per freddo e caldo, e sempre se rinverde.

18 Poi che soccisa fu la pianta bella
     E cadde a terra il trïomfale aloro,
     Fuor del suo tronco sorse una donzella,
     Che sopra al capo avia le chiome d’oro,
     E gli occhi vivi a guisa de una stella;
     Ma piangendo mostrava un gran martoro,
     Con parole suave e con tal voce,
     Che avria placato ogni animo feroce.

19 - Serai tanto crudel, - dicea - barone,
     Che il mio mal te diletti e trista sorte?
     Se qua me lasci in tal condizïone,
     Le gambe mie seran radice intorte,
     El busto tramutato in un troncone,
     Le braccie istese in rami seran porte;
     Questo viso fia scorza, e queste bionde
     Chiome se tornaranno in foglie e in fronde.

20 Perché cotale è nostra fatasone,
     Che trasformate a forza in verde pianta
     Stiamo rinchiuse, insin che alcun barone
     Per sua virtute a trarcene se avanta.
     Tu m’hai or liberata de pregione,
     Se la pietate tua serà cotanta,
     Che me accompagni quivi alla rivera;
     Se non, mia forma tornarà qual era. -

21 Il giovanetto pien di cortesia
     Promesse a quella non la abandonare,
     Sin che condotta in loco salvo sia.
     La falsa dama con dolce parlare
     Alla riviera del Riso se invia;
     Né vi doveti già meravigliare
     Se còlto fu Rugiero a questo ponto,
     Ché il saggio e il paccio è da le dame gionto.

22 Come condotto fu sopra a la riva,
     La vaga ninfa per la mano il prese,
     E de lo animo usato al tutto il priva,
     Sì che una voglia nel suo cuor se accese
     De gettarsi nel fiume a l’acqua viva.
     Né la donzella questo gli contese;
     Ma seco, così a braccio, come istava,
     Ne la chiara onda al fiume se gettava.

23 Là giù nel bel palazo de cristallo
     Fôrno raccolti con molta letizia.
     Orlando e Sacripante era in quel stallo
     E molti altri baroni e gran milizia.
     Le Naiàde con questi erano in ballo;
     Ciuffali e tamburelli a gran divizia
     Sonavano ivi, e in danze e giochi e canto
     Se consumava il giorno tutto quanto.

24 Gradasso era rimaso alla boscaglia,
     Né trova al suo passar strata o sentiero,
     E sempre avanti il varco gli travaglia
     Tra l’altre piante un frassino legiero.
     Lui questo con la spata intorno taglia,
     Subito uscitte al tronco un gran destriero;
     Leardo ed arodato era il mantello:
     Natura mai ne fece un così bello.

25 La briglia che egli ha in bocca è tutta d’oro,
     E così adorno è ’l ricco guarnimento
     Di pietre e perle, e vale un gran tesoro.
     Gradasso non vi pone intendimento
     Che per inganno è fatto quel lavoro;
     Anci se accosta con molto ardimento
     E dà di mano a quella briglia bella
     Senza contrasto, e salta ne la sella.

26 Subito prese quel destriero un salto,
     Né poscia in terra più se ebbe a callare;
     Per l’aria via camina e monta ad alto,
     Come tal volta un sogna di volare.
     Battaglia non fu mai né alcuno assalto,
     Qual potesse Gradasso ispaventare;
     Ma in questo, vi confesso, ebbe paura,
     Veggendose levato in tanta altura;

27 Perché ne l’aria cento passi o piue
     L’avia portato quella bestia vana.
     Il baron spesso riguardava in giue,
     Ma a scender gli parea la scala strana.
     Quando così bon pezzo andato fue
     E ritrovosse sopra alla fiumana,
     Cader si lascia la incantata bestia;
     Nel fiume se atuffò senza molestia.

28 Così Gradasso al fondo se atuffoe,
     E ’l gran caval natando a sommo venne,
     Poi per la selva via si deleguoe
     Sì ratto come avesse a’ piè le penne.
     Ma il cavallier, che a l’acqua si trovoe,
     Subito un altro nel suo cor divenne;
     Scordando tutte le passate cose,
     Con le Naiàde a festeggiar se pose.

29 A suon de trombe quivi se trescava
     Zoiosa danza, che di qua non se usa:
     Nel contrapasso l’un l’altro baciava,
     Né se potea tener la bocca chiusa.
     A cotale atto se dimenticava
     Ciascun se stesso; ed io faccio la scusa,
     E credo che un bel baso a bocca aperta
     Per la dolcezza ogni anima converta.

30 In cotal festa facevan dimora
     Tutti e baroni in suoni e balli e canti;
     Sol Brandimarte se affatica ancora,
     Né per la selva può passare avanti,
     Benché col brando de intorno lavora
     Tagliando il bosco; e da diversi incanti
     Era assalito, ed esso alcun non piglia,
     Ché Fiordelisa sempre lo consiglia.

31 Lui tagliò de le piante più che vinte,
     E de ciascuna uscia novo lavoro,
     Or grandi occelli con penne depinte,
     Or bei palagi, or monti de tesoro;
     Ma queste cose rimasero estinte,
     Ché Brandimarte ad alcuna di loro
     Mai non se apiglia e dietro a sé le lassa,
     E per la selva sino al fiume passa.

32 Come alla riva fu gionto il barone,
     Divenne in faccia di color di rosa
     E tutto se cangiò de opinïone
     Per trabuccarse ne l’acqua amorosa;
     E per gran forza de incantazïone
     Non se amentava Orlando né altra cosa,
     E gioso se gettava ad ogni guisa,
     Se a ciò non reparava Fiordelisa.

33 Perché essa già composti avea per arte
     Quattro cerchielli in forma di corona
     Con fiori ed erbe acolte in strane parte,
     Per liberar de incanti ogni persona;
     E pose un de essi in capo a Brandimarte,
     Quindi de ponto in ponto li ragiona
     Lo ordine e il modo e il fatto tutto quanto
     Per trare Orlando fuor di quello incanto.

34 Il franco cavalliero incontinente
     Fa tutto ciò che la dama comanda;
     Nel fiume se gettò tra quella gente,
     Che danza e suona e canta in ogni banda.
     Ma lui non era uscito di sua mente,
     Come eron gli altri, per quella ghirlanda
     Che Fiordelisa nel capo gli pose,
     Fatta per arte de incantate rose.

35 Come fo gionto giù tra quella festa
     Nel bel palagio de cristallo e de oro,
     Un de’ cerchielli al conte pose in testa,
     E li altri a li altri duo senza dimoro.
     Così la fatason fu manifesta
     Subitamente a tutti quattro loro;
     E le dame lasciarno e ogni diletto,
     Uscendo fuor del fiume a lor dispetto.

36 Sì come zucche in su vennero a galla;
     Prima de l’acqua sorsero e cimieri,
     Poi l’elmo apparve e l’una e l’altra spalla,
     Ed alla riva gionsero legieri.
     Quindi, levati a guisa di farfalla
     Che intorno al foco agira volentieri,
     Sospesi fuôr da un vento in poco de ora,
     Qual li soffiò di quella selva fuora.

37 Chi avesse chiesto a lor come andò il fatto,
     Non l’avrebbon saputo racontare,
     Come om che sogna e se sveglia di tratto,
     Né può quel che sognava ramentare.
     Eccoti avanti a lor ariva ratto
     Un nano, e solo attende a speronare;
     E, come presso e cavallier si vede,
     - Segnor, - cridava - odeti per mercede!

38 Segnor, se amati la cavalleria,
     Se adiffendeti il dritto e la iustizia,
     Fati vendetta de una fellonia
     Maggior del mondo e più strana nequizia. -
     Disse Gradasso: - Per la fede mia!
     Se io non temessi di qualche malizia
     E de esser per incanto ritenuto,
     Io te darebbi volentieri aiuto. -

39 Il nano allora sacramenta e giura
     Che non è a questa impresa incantamento.
     - Oh! - disse il conte, - e chi me ne assicura?
     Tanto credetti già, che io me ne pento.
     Lo augel ch’esce dal laccio, ha poi paura
     De ogni fraschetta che se move al vento;
     Ed io gabbato fui cotanto spesso,
     Che, non che altrui, ma non credo a me stesso. -

40 Disse Rugier: - Non è solo un parere,
     E ciascun loda la sua opinïone.
     Direbbe altrui che fosser da temere
     L’opre de’ spirti e queste fatagione;
     Ma se il bon cavallier fa el suo dovere
     Non dee ritrarse per condizïone
     Di cosa alcuna; ogni strana ventura
     Provar se deve, e non aver paura.

41 Menami, o nano, e nel mare e nel foco,
     E se per l’aria me mostri a volare,
     Verrò teco a ogni impresa, in ogni loco:
     Che io mi spaventi mai, non dubitare. -
     Gradasso e ’l conte se arrossirno un poco
     Odendo in cotal modo ragionare;
     E Brandimarte al nano prese a dire:
     - Camina avanti, ogniom ti vôl seguire. -

42 Il nano aveva un palafreno amblante:
     Via se ne va per la campagna piana.
     Dicea Gradasso verso il sir de Anglante:
     - Se questa impresa fia sublime e strana,
     E per sorte mi tocca il gire avante,
     Io voglio adoperar tua Durindana,
     Anci pur mia, però che il re Carlone
     Me la promisse, essendo mio pregione. -

43 - Se lui te la promisse, e lui te attenda! -
     Rispose il conte, in collera salito
     - Ben parlo chiaro, e vo’ che tu me intenda,
     Che non è cavallier cotanto ardito,
     Dal qual mia spata ben non mi diffenda;
     E se a te piace mo questo partito
     Di guadagnarla in battaglia per forza,
     Eccola qua: ma guàrdati la scorza. -

44 Così dicendo avea già tratto il brando,
     A cui piastra né usbergo non ripara;
     Gradasso d’altra parte fulminando
     Trasse del fodro la sua simitara.
     Araldo non vi è qua che faccia il bando,
     Né re che doni il campo chiuso a sbara;
     Ma senza cerimonie e tante ciacare
     Ben se azufarno, e senza trombe e gnacare.

45 E cominciano il gioco con tal fretta,
     Con tanta furia e con tanta ruina,
     Che l’una botta l’altra non aspetta;
     De intorno al capo l’elmo gli tintina,
     E ciascun colpo fuoco e fiama getta.
     Come sfavilla un ferro alla fucina,
     Come chiocca le fronde alla tempesta,
     Cotal l’un l’altro mena e mai non resta.

46 Menò a due mano il conte un colpo crudo,
     Con tal furor che par che il mondo cada;
     Gradasso il vidde e riparò col scudo,
     Ma non giova riparo a quella spada:
     La targa e usbergo in fino al petto nudo
     Convien che ’n pezzi a la campagna vada,
     E la gorzera e parte del camaglio
     Ne portò seco a terra de un sol taglio.

47 Quando il re franco del colpo se avvide,
     Mena a due mano e il fren frangendo rode;
     Sino alla carne ogni arma li divide,
     E ’l gran rimbombo assai de intorno se ode.
     Dice Gradasso, e tutta fiata ride:
     - Se ben ti rado, fàcciati bon prode!
     In questa volta più non te ne toglio,
     Perché a mio senno il pel non è ancor moglio. -

48 Diceva il conte: - Che bufonchie, che?
     Prima che quindi te possi dividere,
     Tante te ne darò che guai a te,
     E insegnarotti in altro modo a ridere. -
     Rispose a lui Gradasso: - Per mia fè!
     Se omo del mondo me avesse a conquidere,
     Esser potrebbe che fusti colui;
     Ma in verità né te stimo né altrui.

49 Quando un tuo pare avessi alla centura,
     Non restarei di correre a mia posta.
     Se pur te piace, prova tua ventura:
     Vieni oltra, vieni, e a tuo piacer te accosta. -
     Orlando se avampò fuor di misura,
     Dicendo: - Poco lo avantar ti costa;
     Ma tra fatti e parole è differenzia,
     Del che vedremo presto esperïenzia. -

50 Tuttavia parla e mena Durindana,
     Ad ambe mano un gran colpo gli lassa;
     Manda il cimiero a pezzi in terra piana,
     E ’l copo col torchion tutto fraccassa.
     Risuonò l’elmo come una campana,
     E il re chinò giù il viso a terra bassa;
     Di sangue ha il naso e la bocca vermiglia,
     Perse una staffa e abandonò la briglia.

51 Ma non perciò perdette la baldanza
     Quel re superbo, e divenne più fiero;
     Parea di foco in faccia alla sembianza.
     Mena a duo mani e gionse nel cimiero
     Con tanto orgoglio e con tanta possanza,
     Che il coppo e il torchio manda nel sentiero.
     Risuonò l’elmo, ed accerta Turpino
     Che un miglio o più se odette in quel confino.

52 E fu per trabuccar de lo arcion fuore
     Il franco conte a quel colpo diverso;
     La sembianza proprio ha d’un om che more,
     E piedi ha fuor di staffe e ’l freno ha perso.
     Fuggendo via ne ’l porta il corridore
     Per la campagna, a dritto ed a traverso,
     E ’l re Gradasso il segue con la alfana,
     Per darli morte e tuorli Durindana.

53 Pur ne la istoria il ver se convien dire:
     A suo dispetto li dava de piglio;
     Ma Brandimarte non puote soffrire
     Vedere Orlando posto in tal periglio,
     Onde correndo se ’l pose a seguire.
     Voltò Gradasso il viso, alciando il ciglio,
     E disse: - Anco tu vai cercando noglia?
     Io ne ho per tutti; venga chi ne ha voglia. -

54 Ma in questo Orlando se fu risentito,
     E ver Gradasso vien col brando in mano.
     Rugiero allora, el giovane fiorito,
     Fra lor se pose con parlare umano,
     Cercando de accordargli ogni partito;
     E similmente ancor faceva il nano
     Pregando per pietate e per mercede
     Che vadano alla impresa che lui chiede.

55 E tanto seppon confortare e dire,
     Che tra lor fu la zuffa raquetata;
     Ma ben la compagnia voglion partire,
     E ciascadun ha sua strata pigliata.
     Gradasso con Rugier presero a gire
     Ove il nano una torre ha dimostrata;
     E Brandimarte e il conte paladino
     Verso Parigi presero il camino.

56 Quel che Rugier facesse e il re Gradasso,
     Vi fia poi racontato in altra parte,
     Perché al presente a dir di lor vi lasso,
     E seguo come il conte e Brandimarte
     Vennero in Francia caminando a passo,
     Con Fiordelisa, maestra in tutte l’arte;
     E una mattina, al cominciar del giorno,
     Vidder Parigi, che ha lo assedio intorno.

57 Perché Agramante, come io vi contai,
     Sconfitto avendo in campo Carlo Mano
     E morta e presa di sua gente assai,
     Se era atendato a cerco per quel piano.
     Tanta ciurmaglia non se vidde mai
     Quanta adunata avea quello africano;
     Ben sette leghe il campo intorno tiene,
     Che valle e monti e le campagne ha piene.

58 Quei de la terra stavano in diffese,
     E notte e giorno attendono alle mura,
     Ché sol de’ paladin vi era il Danese,
     Che a far beltresche e riparar procura.
     Ma quando il conte mirando comprese
     Cotal sconfita e tal disaventura
     Sì gran cordoglio prese e dolor tanto,
     Che for de gli occhi li scoppiava il pianto.

59 - Chi se confida in questa vita frale -
     Diceva lui - e in questo mondo vano,
     Lasci gli alti pensieri e chiuda l’ale,
     Prendendo esempio dal re Carlo Mano,
     Che sì vittorïoso e trïonfale
     Facea tremar ciascun presso e lontano;
     Or l’ha del tutto la fortuna privo
     In un momento, e forse non è vivo. -

60 Ma, mentre che dicea queste parole,
     Nel campo si levò sì gran romore,
     Che par che il cel risuoni insino al sole,
     E sempre il crido cresce e vien maggiore.
     Or, bella gente, certo assai mi dole
     Non poter mo chiarir tutto il tenore;
     Ma apresso il contarò ne l’altra stanza,
     Ché in questo canto abbiam detto a bastanza.