Orlando innamorato/Libro terzo/Canto ottavo

Libro terzo

Canto ottavo

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1   Dio doni zoia ad ogni inamorato,
     Ad ogni cavallier doni vittoria,
     A’ principi e baroni onore e stato,
     E chiunque ama virtù, cresca di gloria:
     Sia pace ed abundanzia in ogni lato!
     Ma a voi, che intorno odeti questa istoria,
     Conceda il re del cel senza tardare
     Ciò che sapriti a bocca dimandare.

2   Donevi la ventura per il freno,
     E da voi scacci ogni fortuna ria;
     Ogni vostro desio conceda a pieno,
     Senno, beltade, robba e gagliardia,
     Quanto è vostro voler, né più né meno,
     Sì come per bontate e cortesia
     Ciascun di voi ad ascoltare è pronto
     La bella istoria che cantando io conto.

3   La qual lasciai, se vi racorda, quando
     Sorse il gran crido al campo de’ Pagani,
     Talabalachi e timpani suonando,
     Corni di brongio ed instrumenti istrani,
     Alor che Brandimarte e il conte Orlando,
     Gionti ne’ poggi e riguardando e piani,
     Vider cotanta gente e tante schiere
     Che un bosco par di lancie e di bandiere.

4   Perché sappiati il fatto tutto quanto,
     L’ordine è dato a ponto per quel giorno
     Di combatter Parigi in ogni canto,
     E lo assalto ordinato intorno intorno.
     De li Africani ogni om se dà più vanto,
     L’un più che l’altro se dimostra adorno;
     Chi promette a Macone, e chi lo giura,
     Passar de un salto sopra a quella mura.

5   Scale con rote e torre aveano assai,
     Che se movean tirate per ingegno.
     Più nove cose non se vidder mai:
     Gatti tessuti a vimine e di legno,
     Baltresche di cor’ cotto ed arcolai,
     Ch’erano a rimirare un strano ordegno,
     Qual con romor se chiude e se disserra,
     E pietre e foco tra’ dentro alla terra.

6   Da l’altra parte il nobile Danese,
     Che fatto è capitan per lo imperiere,
     Fa gran ripari ed ordina in diffese
     Saettamenti e mangani e petriere.
     Con gli occhi suoi veder vôl lui palese,
     Ché con li altrui non guarda volentiere,
     E sassi e travi e solfo e piombo e foco
     Per torre e merli assetta in ciascun loco.

7   Sopra a ogni cosa egli ordina e procura
     La gente armata a piede ed a cavallo;
     Mo qua mo là scorrendo per le mura,
     Non pone a l’ordinar tempo o intervallo.
     Già se odeno e Pagani alla pianura
     Con tamburacci e corni di metallo,
     Sonando sifonie, gnacare e trombe,
     Che l’aria trema e par che ’l cel rimbombe.

8   O re del celo! O Vergine serena!
     Che era a veder la misera citate!
     Già non mi credo che il demonio apena
     Se rallegrasse a tanta crudeltate.
     De strida e pianti è quella terra piena:
     Piccoli infanti e dame scapigliate
     E vecchi e infermi e gente di tal sorte
     Battonsi il viso, a Dio chiedendo morte.

9   Di qua di là correa ciascuno a guaccio,
     Pallidi e rossi, e timidi è li arditi;
     Triste le moglie con figlioli in braccio,
     Sempre piangendo, pregano e mariti
     Che le diffendan da cotanto impaccio;
     E disperate a li ultimi partiti,
     Caccian da sé la feminil paura,
     Ed acqua e pietre portano alle mura.

10 Suonano a l’arme tutte le campane;
     De cridi e trombe è sì grande il rumore,
     Che nol potrian contar le voce umane.
     Va per la terra Carlo imperatore:
     Ogni omo il segue, alcun non vi rimane,
     Che non voglia morir col suo segnore;
     E lui qua questo e là quell’altro manda,
     Provede intorno ed ordina ogni banda.

11 Lo esercito pagano è già vicino,
     Che intorno se distende a schiera a schiera:
     Alla porta San Celso è il re Sobrino
     Con Bucifar, il re de la Algazera;
     E Baliverzo, il falso saracino,
     Là dove entra di Senna la riviera
     Se sforza entrar con sua gente perversa;
     E seco è il re de Arzila e quel de Fersa.

12 A San Dionigi il re di Nasamona
     Col re de la Zumara era accostato:
     E il re di Cetta e quel di Tremisona
     Combatteno alla porta del mercato;
     L’aria fremisce e la terra risona,
     Ché la battaglia è intorno ad ogni lato,
     E foco e ferri e pietre con gran fretta
     Da l’una parte a l’altra se saetta.

13 Non sorse più giamai furor cotale
     Tra Cristïani e gente saracina:
     Ciascun tanto più fa quanto più vale.
     Giù vengon travi e solforo e calcina,
     E se sentiva un fraccassar di scale,
     Un suon de arme spezzate, una roina,
     E fumo e polve, e tenebroso velo,
     Come caduto il sol fosse dal celo.

14 Ma non per tanto par che satisfaccia
     La gran diffesa contra a quei felloni.
     Come la mosca torna a chi la scaccia,
     O la vespe aticciata, o i calavroni:
     Cotal parea la maledetta raccia,
     Da’ merli trabuccata e da’ torroni,
     Che dirupando al fondo giù ne viene;
     Già son de morti quelle fosse piene.

15 Onde era fatto su per l’acqua un ponte,
     Orribile a vedere e sanguinoso.
     Quivi era Mandricardo e Rodamonte,
     Ciascun più di salir voluntaroso;
     Ni Feraguto, quella ardita fronte,
     Né il re Agramante si stava ocïoso:
     L’un più che l’altro di montar se afreza
     Tra frizze e dardi, e sua vita non preza.

16 Orlando, che attendeva il caso rio,
     Quasi era nella mente sbigotito;
     Forte piangendo se acomanda a Dio,
     Né sa pigliare apena alcun partito.
     - Che deggio fare, o Brandimarte mio, -
     Diceva lui - che il re Carlo è perito?
     Perso è Parigi ormai! Che più far deggio,
     Che ruïnato in foco e fiama il veggio?

17 Ogni soccorso, al mio parer, si è tardo:
     Su per le mura già sono e Pagani. -
     Brandimarte dicea: - Se ben vi guardo,
     Là se combatte, e sono anco alle mani.
     Deh lasciami callar, ché nel core ardo
     Di fare un tal fraccasso in questi cani,
     Che, se Parigi aiuto non aspetta,
     Non fia disfatta almen senza vendetta! -

18 Orlando alle parole non rispose,
     Ma con gran fretta chiuse la visiera,
     E Brandimarte a seguitar se pose,
     Che vien correndo giù per la costiera.
     Fiordelisa la dama se nascose
     In un boschetto a canto alla riviera,
     E quei duo cavallier menando vampo
     Passarno il fiume e gionsero nel campo.

19 Ciascun di lor fu presto cognosciuto:
     Sua insegna avea scoperta e suo penone.
     - Arme! arme! - se cridava - aiuto! aiuto! -
     Ma già son gionti al mastro pavaglione,
     Che era di scorta assai ben proveduto.
     Il re Marsilio vi era e Falsirone,
     Molta sua gente e re de altri paesi,
     Per far la guardia a’ nostri che son presi.

20 Come sapeti, il nobile Olivieri
     Quivi è legato e il bon re di Bertagna,
     Ricardo e ’l conte Gano da Pontieri,
     E ’l re lombardo e molti de Alemagna.
     Or qua son gionti e franchi cavallieri:
     Ben dir vi so che alcun non se sparagna.
     Chi se diffende, e chi fugge, e chi resta:
     Tutti li mena al paro una tempesta.

21 Al pavaglione, ove era la battaglia,
     Non puote il re Marsilio aver diffese;
     Gran parte è morta de la sua canaglia,
     Lui bon partito via fuggendo prese.
     Orlando il pavaglion tutto sbaraglia,
     Squarzato in pezi a terra lo distese;
     Ma quando quei pregion viddero il conte,
     Per meraviglia se signâr la fronte.

22 Oh che spezzar de corde e di catene
     Faceva Brandimarte in questo stallo!
     De arme e ronzoni ivi eron tende piene,
     Onde èno armati e montano a cavallo.
     L’un più che l’altro a gran voglia ne viene
     Per seguitare Orlando in questo ballo,
     Qual ver Parigi a corso se distese,
     E seco è Gano e Oliviero el marchese;

23 Re Desiderio e lo re Salamone
     E Brandimarte (che era dimorato
     Alquanto per disciorre ogni pregione),
     Ricardo e Belengieri apresïato.
     Seguiva apresso Avorio, Avino e Ottone,
     Il duca Namo e il duca Amone a lato,
     Ed altri, tutti gente da gorzera,
     Che più di cento sono in una schiera.

24 E’ già son gionti presso a quelle mura,
     Ove la zuffa è più cruda che mai,
     Che era cosa a vedere orrenda e scura,
     Come di sopra poco io ve contai.
     Grande era quel rumor fuor di misura
     De cridi estremi e de istrumenti assai,
     E facevan tremar de intorno il loco,
     Né altro se odìa che morte e sangue e foco.

25 Già Mandricardo avea pigliato un ponte,
     Rotte le sbarre e spezzata la porta,
     Ed avea gente a seguitar sì pronte,
     Che ciascun dentro molto se sconforta.
     Da un’altra parte il crudo Rodamonte
     Su per le mura ha tanta gente morta
     Con dardi e sassi, e tanta n’ha percossa,
     Che vien da’ merli il sangue nella fossa.

26 Guarda le torre e spreza quella altezza,
     Battendo e denti a schiuma come un verro.
     Non fu veduta mai tanta fierezza:
     Il scudo ha in collo e una scala di ferro
     E pali e graffie e corde fatte in trezza,
     E il foco acceso al tronco de un gran cerro;
     Vien biastemando e sotto ben se acosta,
     La scala apoggia e monta senza sosta.

27 Come egli andasse per la strata a passo,
     Cotal saliva quel pagano arguto.
     Quivi era il ruïnare e il gran fraccasso:
     Adosso a lui ciascun cridava aiuto.
     Se Lucifero uscito o Satanasso
     Fosse giù da lo abisso e qua venuto
     Per disertar Parigi e ogni sua altura,
     Non avria posto a lor tanta paura.

28 E nondimanco in tanti disconforti
     Se adiffendiano per disperazione,
     Ché ad ogni modo se reputan morti,
     Né stiman più la vita o le persone.
     Poi che, condotti a dolorosi porti,
     Veggion palese sua destruzïone,
     E pali e dardi tranno a più non posso
     Con sassi e travi a quel gigante adosso.

29 Lui pur salisce e più de ciò non cura,
     Come di penne o paglia mosse al vento;
     Già sopra a’ merli è sino alla cintura,
     Né ’l contrastar val, forza né ardimento.
     Come egli agionse in cima a quelle mura,
     E nella terra apparve il gran spavento,
     Levossi un pianto e un strido sì feroce,
     Sino al cel, credo io, gionse quella voce.

30 Ma quel superbo una gran torre afferra,
     E tanta ne spiccò quanta ne prese;
     Quei pezzi lancia dentro dalla terra,
     Dissipa case e campanili e chiese.
     Orlando non sapea di tanta guerra,
     Ché in altra parte stava alle contese;
     Ma la gran voce che di là si spande
     Venir lo fece a quel periglio grande.

31 Gionse correndo ove è l’aspra battaglia:
     Non fo giamai da l’ira sì commosso.
     La gran scala di ferro a un colpo taglia,
     E Rodamonte roinò nel fosso,
     E dietro a lui gran pezzi de muraglia,
     Ché gli è caduta meza torre adosso;
     E un merlo gionse Orlando nella testa,
     Qual lo distese a terra con tempesta.

32 Fo Rodamonte sviluppato e presto.
     Tanta fierezza avea il forte pagano,
     Che non mostrava più curar di questo,
     Come se stato fosse un sogno vano.
     Ma il franco conte non era ancor desto,
     Qual tramortito se trovava al piano;
     Or Rodamonte già non se ritiene,
     Esce dal fosso e contro a i nostri viene.

33 De esser gagliardo ben li fa mestiero,
     Ché a lui de intorno sta la nostra gente:
     Su l’orlo aponto è Gano da Pontiero.
     Benché sia falso e tristo della mente,
     Purché esser voglia è prodo e bon guerrero;
     Ma la sua forza alor giovò nïente,
     Ché Rodamonte, che de l’acqua usciva,
     De un colpo a terra il pose in su la riva.

34 Questo abandona e ponto non se arresta.
     Ché sopra ’l campo afronta Rodolfone;
     Parente era di Namo e di sua gesta:
     Tutto il fende il pagan sino allo arcione.
     Poi mena al re lombardo ne la testa:
     Come a Dio piacque, colse di piatone,
     Ma pur cadde di sella Desiderio
     A gambe aperte e con gran vituperio.

35 La gente saracina, che è fuggita
     Per la gionta de Orlando, ora tornava,
     Più assai che prima mostrandosi ardita;
     Ché Rodamonte sì se adoperava,
     Che ciascuno altro volentier lo aita.
     Di qua di là gran gente se adunava:
     Balifronte di Mulga e il re Grifaldo
     E Baliverzo, il perfido ribaldo.

36 Quivi era Farurante di Maurina
     E il franco Alzirdo, re di Tremisona,
     Il re Gualciotto di Bellamarina
     Ed altri assai che ’l canto non ragiona;
     Tutti non giongeranno a domatina,
     Ché Brandimarte, la franca persona,
     Ne mandarà qualcun pur allo inferno,
     E qualcuno Olivier, se ben discerno.

37 Stati ad odire il fatto tutto a pieno,
     Ché or se incomincia da dover la danza.
     Salamon vide il figlio de Ulïeno,
     Qual più de un braccio sopra alli altri avanza:
     Ove il colpo segnò, né più né meno,
     A mezo il petto il colse con la lanza;
     Quella se ruppe, e ’l Pagan non se mosse,
     Ma con la spada il Cristïan percosse.

38 Il scuto gli spezzò quel maledetto,
     Le piastre aperse, come fosser carte,
     E crudelmente lo piagò nel petto;
     Gionse allo arcione e tutto lo disparte,
     Il collo al suo ronzon tagliò via netto.
     Ora a quel colpo gionse Brandimarte,
     E, destinato di farne vendetta,
     Sprona il destriero e la sua lancia assetta.

39 A tutta briglia il cavallier valente
     Percosse Rodamonte nel costato,
     Che era guarnito a scaglie di serpente;
     Quel lo diffese, e pur giù cade al prato.
     Come il romor d’uno arboro si sente,
     Quando è dal vento rotto e dibarbato,
     Sotto a sé frange sterpi e minor piante:
     Tal nel cader suonò quello africante.

40 Or Brandimarte volta al re Gualciotto,
     Poi che caduto è il franco re di Sarza;
     Ad ambe man lo percosse di botto,
     Per mezo il scudo lo divide e squarza.
     Lo usbergo e panciron che egli avea sotto
     Partitte a guisa de una tela marza;
     Per il traverso il petto li disserra,
     E in duo cavezzi il fece andare a terra.

41 Ed Olivieri, il franco combattente,
     Mostra ben quel che egli era per espresso;
     Alla sua gesta il cavallier non mente,
     Ché il re Grifaldo insino al petto ha fesso.
     In questo tempo Orlando se risente;
     Stato gli è sempre Brigliadoro apresso,
     Tanto era savio, quella bestia bona!
     Sta col suo conte e mai non lo abandona.

42 Onde salito è subito a destriero,
     Esce del fosso la anima sicura.
     Quando quei dentro videro il quartiero,
     Levase il crido intorno a quelle mura.
     Fu reportato insino allo imperiero
     Come apparito è Orlando alla pianura,
     E che scampati sono e Cristïani
     Da’ Saracini, e son seco alle mani.

43 Non domandati se lo imperatore
     Di tal novella zoia e festa prese;
     A tutti quanti sfavillava il core,
     Brama ciascun de uscire alle contese.
     Aperta fu la porta a gran furore,
     E salta fuori armato il bon Danese,
     E Guido de Borgogna è seco in sella,
     Duodo de Antona e Ivone de Bordella.

44 Avanti a tutti è il figlio de Pipino,
     Ché non vôl restar dentro il re gagliardo;
     Solo in Parigi rimase Turpino,
     Per aver della terra bon riguardo.
     Or torniamo al Danese paladino,
     Che sopra al ponte scontra Mandricardo,
     Qual, come io dissi su, poco davante,
     Là combatteva, e seco era Agramante.

45 Correndo viene Ogier con l’asta grossa,
     E gionse Mandricardo, che era a piede;
     Gettar se ’l crede de urto nella fossa,
     Ma quello è ben altro om che lui non crede.
     Fermosse il saracin con tanta possa,
     Che al scontro della lancia già non cede;
     Via passava Rondello a corso pieno,
     Ma quel pagan gli dà di man a freno.

46 Ed Agramante, che era lì da lato,
     Se sforza scavalcarlo a sua possancia;
     Ma Carlo Mano, che ivi era arivato,
     Percosse il re Agramante con la lancia
     Trabuccandolo a terra riversato,
     E passolli il destrier sopra la pancia.
     Or qua la zuffa grossa se rinova,
     Ché ogniom se affronta e vôl vincer la prova.

47 Raportato era già di voce in voce
     Come abattuto se trova Agramante,
     Onde ciascun se aduna in quella foce:
     Lo un più che l’altro vôl ficcarse avante.
     Quivi è Grandonio, il saracin feroce,
     E seco è Feraguto e Balugante;
     Ma sopra tutti Mandricardo è quello
     Che fa diffesa e mena gran flagello.

48 Sol fu quel lui che Agramante riscosse
     Per sua prodezza e ’l trasse di travaglia.
     Oh quanti morti andarno in quelle fosse,
     Perché era sopra al ponte la battaglia,
     E l’acque dentro diventorno rosse
     Per tanto sangue che la vista abaglia;
     Re Carlo, Ogieri e li altri tutti insieme
     Adosso a quei pagan con furia preme.

49 E già cacciati for gli avea del ponte:
     Pur tra le sbarre ancor se contrastava;
     Ecco alle spalle de’ Pagani il conte
     E Brandimarte, che lo seguitava,
     Con l’altre gente vigorose e pronte.
     Or la baruffa terribile e brava
     Qua se radoppia, e tanto dispietata
     Che simigliante mai non fu contata.

50 Però che Rodamonte, quello altiero,
     Sempre ha seguìto Orlando alla spiegata;
     Più non si tien né strata né sentiero,
     Tutta la zuffa è in sé ramescolata;
     Né adoperarse ormai facea mestiero:
     Tanto è la gente stretta ed adunata,
     Che Rodamonte solo e solo Orlando
     Fan piazza larga quanto è lungo il brando.

51 Ma fusse o per quel populo devoto
     Che in Parigi pregava con lamento,
     O per altro destino al mondo ignoto,
     Ne l’aria se levò tempesta e vento,
     E sopra al campo sorse un terremoto,
     Dal qual tremava tutto il tenimento;
     Terribil pioggia e nebbia orrenda e scura
     Ripieno aveano il mondo di paura.

52 E già chinava il giorno ver la sera,
     Che più facea la cosa paventosa;
     Di qua, di là se ritrasse ogni schiera,
     E mancò la battaglia tenebrosa.
     Ma Turpin lascia qua la istoria vera,
     Che in questi versi ho tratto di sua prosa,
     E torna a ragionar di Bradamante,
     De la qual vi lasciai poco davante,

53 Quando ella occise al campo Daniforte,
     Quello avisato e falso saracino
     Che a tradimento la feritte a morte:
     Ma lui perse la vita, essa il camino,
     Ché era la notte ombrosa e scura forte.
     Lei sempre via passò sera e matino
     Per quel deserto inospite e selvaggio,
     Ove atrovò nel mezo un romitaggio.

54 E gran bisogno avendo di riposo,
     Per molto sangue che perduto avia,
     E per il camin lungo e faticoso,
     Smontava a terra e alla porta battia;
     E quel romito, che stava nascoso,
     Signosse il viso e disse: - Ave Maria!
     Chi condotto ha costui? O che miracolo
     Fa che omo arivi al povero abitacolo? -

55 - Io sono un cavallier, - disse la dama -
     Ch’ier me smaritti in questa selva oscura,
     Ed ho de riposar bisogno e brama,
     Ché son ferito e stracco oltra misura. -
     Rispose quel romito: - In questa lama
     Mai non discese umana creatura;
     Da sessanta anni in qua che vi son stato,
     Non vidi una sol volta uno omo nato.

56 Ma spesse fiate il demonio me appare,
     In tante forme ch’io non saprei dirti,
     E poco avante io presi a dubitare
     Che fosti quello, e stei per non aprirti.
     Questa matina qua viddi passare
     Una barchetta carica de spirti,
     Che ne andava per l’aria alla seconda
     Battendo e remi come fusse in onda.

57 Colui che stava in poppa per nocchiero,
     Mi disse: "Fratacchione, al tuo dispetto
     Partito è già di Francia il bon Rugiero,
     Qual serìa stato un cristïan perfetto.
     Tolto lo abbiamo dal dritto sentiero,
     Ché vòlto avria le spalle a Macometto;
     Ma di sua legge ormai non credo che esca,
     Ed hollo detto acciò che ti rincresca."

58 Passò la barca, poi che ebbe parlato
     Quel tristo spirto, e più non fu veduta;
     Ed io rimasi assai disconsolato,
     Pensando che era l’anima perduta
     Di quel baron, che morirà dannato,
     Se Dio per sua pietate non lo aiuta,
     O se persona non li mette in core
     Di batezarse e uscir di tanto errore. -

59 Quando queste parole udì la dama,
     Tutta se accese in viso come un foco;
     Pensando al cavallier che cotanto ama,
     Nella sua mente non ritrova loco;
     E sì desia di rivederlo e brama,
     Che cura di riposo o nulla, o poco,
     A benché quel romito assai la invita
     A medicarse, perché era ferita.

60 E tanto ben la seppe confortare,
     Che pur al fine ella pigliò lo invito;
     Ma, volendoli il capo medicare,
     Vide la trezza e fo tutto smarito.
     Battese il petto e non sa che si fare,
     - Tapino me, - dicendo - io son perito!
     Questo è il demonio, certo (il vedo a l’orma),
     Che per tentarmi ha preso questa forma. -

61 Pur cognoscendo poi per il toccare
     Ch’ella avea corpo e non era ombra vana,
     Con erbe assai la prese a medicare,
     Sì che la fece in poco de ora sana;
     Benché convenne le chiome tagliare
     Per la ferita, che era grande e strana:
     Le chiome li tagliò come a garzone,
     Poi li donò la sua benedizione,

62 Dicendo: - Vanne altrove a ogni maniera,
     Ché donna non può star con omo onesta. -
     Lei se partitte e gionse a una riviera,
     Qual traversava per quella foresta.
     Il sole a mezo giorno salito era:
     E fame e sete e ’l caldo la molesta,
     Onde alla ripa discese per bere;
     Bevuto avendo, posese a giacere.

63 Lo elmo si trasse e il scudo se dislaccia,
     Ché qua persona non vede vicina;
     Prese a posar col capo in su le braccia.
     Così dormendo quella peregrina,
     Era venuta in questo bosco a caccia
     Una dama, nomata Fiordespina,
     Figliola di Marsilio, re di Spagna,
     Con cani e occelli e con molta compagna.

64 Questa cacciando gionse in su la riva
     De la fiumana che io dissi primiero,
     E vide Bradamante che dormiva:
     Pensò che fosse un qualche cavalliero.
     Mirando il viso e sua forma giuliva,
     De amor se accese forte nel pensiero,
     "Macon - fra sé dicendo - né natura
     Potria formar più bella creatura.

65 Oh che non fosse alcun meco rimaso!
     Fosse nel bosco tutta la mia gente,
     O partita da me per qualche caso,
     O morta ancora, io ne daria nïente,
     Pur che io potessi dare a questo un baso,
     Mentre che el dorme sì suavemente
     Ora aver pazïenza mi bisogna,
     Ché gran piacer se perde per vergogna."

66 Parlava Fiordespina in cotal forma,
     Né se puotea mirando sazïare.
     Sì dolcemente par che colui dorma,
     Che non se atenta ponto a disvegliare.
     Ma già vargata abbiam la usata norma
     Del canto nostro, e convien riposare;
     Apresso narrarò la bella istoria:
     Dio ce conservi con piacere e gloria.