Orlando innamorato/Libro secondo/Canto trentesimo

Libro secondo

Canto trentesimo

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Libro secondo - Canto ventesimonono Libro secondo - Canto trentesimoprimo

 
1   Baroni e dame, che ascoltati intorno
     Quella prodezza tanto nominata,
     Che fa de fama il cavallier adorno
     Alla presente etade e alla passata,
     Io vengo a ricontarvi in questo giorno
     La più fiera battaglia e sterminata,
     E la più orrenda e più pericolosa
     Che racontasse mai verso né prosa.

2   Se vi amentati bene, aveti odito
     Ove sia questa guerra e tra qual gente,
     E come il re Sobrin fosse ferito
     Dal pro’ Ranaldo in su l’elmo lucente;
     Ma tanto era feroce il vecchio ardito,
     Che mostrava di ciò curar nïente;
     E vòlto contra il sir de Montealbano
     Sopra la fronte il colse ad ambe mano.

3   Ranaldo a lui rispose con ruina,
     E tra lor duo se cominciò gran zuffa;
     Ma l’una schiera e l’altra se avicina,
     E tutti se meschiarno alla baruffa.
     Benché sia più la gente saracina,
     Ciascun cristian dua tanta ne ribuffa:
     Grande è il romor, orribile e feroce
     Di trombe, di tamburi e de alte voce.

4   Di qua di là le lancie e le bandiere
     L’una ver l’altra a furia se ne vano,
     E quando insieme se incontrâr le schiere
     Testa per testa a mezo di quel piano,
     Mal va per quei che sono alle frontiere,
     Perché alcun scontro non ariva in vano;
     Qual con la lancia usbergo e scudo passa,
     Qual col destriero a terra se fraccassa.

5   E tuttavia Ranaldo e il re Sobrino
     L’un sopra a l’altro gran colpi rimena,
     Benché ha disavantaggio il saracino,
     E dalla morte se diffende apena.
     Ecco gionto alla zuffa Martasino,
     Quello orgoglioso che ha cotanta lena;
     E Bambirago è seco, e Farurante,
     E Marbalusto, il quale era gigante.

6   Alzirdo e il re Grifaldo viene apresso,
     Argosto di Marmonda e Pulïano;
     Tardoco e Mirabaldo era con esso,
     Barolango, Arugalte e Cardorano,
     Gualciotto, che ogni male avria commesso,
     E Dudrinasso, il perfido pagano.
     De quindeci ch’io conto, vi prometto,
     Stasera non andrà ben cinque a letto.

7   Se non vien men Fusberta e Durindana,
     Non vi andranno, se non vi son portati,
     Ma restaranno in su la terra piana,
     Morti e destrutti e per pezzi tagliati.
     Ora torniamo alla gente africana
     E a questi re, che al campo sono entrati
     Con tal romore e crido sì diverso,
     Che par che il celo e il mondo sia sumerso.

8   La prima schiera, qual menò Ranaldo,
     Che avea settanta miglia di Guasconi,
     Fu consumata da costor di saldo,
     E cavallier sconfitti con pedoni.
     Così come le mosche al tempo caldo,
     O ne l’antiqua quercia e formigoni,
     Tal era a remirar quella canaglia
     Senza numero alcuno alla battaglia.

9   Ma de quei re ciascun somiglia un drago
     Adosso a’ nostri; ogniom taglia e percote,
     E sopra a tutti Martasino è vago
     De abatter gente e far le selle vote;
     E così Marbalusto e Bambirago
     Al campo di costui seguon le note,
     E gli altri tutti ancor senza pietate
     Pongono i nostri al taglio de le spate.

10 Il crido è grande, i pianti e la ruina
     Di nostra gente morta con fraccasso,
     Crescendo ognior la folta saracina,
     Che giù del monte vien correndo al basso.
     Re Farurante mai non se raffina;
     Grifaldo, Alzirdo, Argosto e Dudrinasso,
     Tardoco, Bardarico e Pulïano
     Senza rispetto tagliano a due mano.

11 Ranaldo, combattendo tutta fiata
     Contra a Sobrino, il quale avea il peggiore,
     Veduta ebbe sua gente sbaratata,
     Onde ne prese gran disdegno al core,
     E lascia la battaglia cominciata,
     Battendo e denti de ira e de furore.
     Stati per Dio, segnori, attenti un poco,
     Ché or da dovere si comincia il gioco.

12 Battendo e denti se ne va Ranaldo,
     Gli omini e l’arme taglia d’ogni banda;
     Ove è il zambello più fervente e caldo
     Urta Baiardo e a Dio si racomanda.
     Il primo che trovò fu Mirabaldo,
     In duo cavezzi fuor d’arcione il manda;
     Tanto fu il colpo grande oltra misura,
     Che per traverso il fesse alla centura.

13 Questo veggendo Argosto di Marmonda
     Divenne in faccia freddo come un gelo,
     Mirando quel per forza sì profonda
     Tagliar quest’altri come fosse un pelo.
     Ranaldo ce gli mena alla seconda,
     Facendo squarzi andare insino al celo;
     Cimieri e sopraveste e gran pennoni
     Volan per l’aria a guisa de falconi.

14 Di teste fesse e di busti tagliati,
     Di gambe e braccie è la terra coperta,
     E’ Saracini in rotta rivoltati
     Fuggendo e ansando con la bocca aperta;
     Né puon cridar, tanto erano affrezzati.
     Sempre Ranaldo tocca di Fusberta,
     Facendo di costor pezzi da cane:
     Tristo colui che là oltra rimane!

15 Sì come Argosto, che in dietro rimase,
     E Ranaldo il ferì con gran possanza,
     E sino in su l’arcione il partì quase:
     Tre dita non se tenìa della panza.
     E quelle genti perfide e malvase
     Chi getta l’arco e chi getta la lanza,
     E chi lascia la tarca e chi il bastone,
     Tutti fuggendo a gran confusïone.

16 Combatte in altra parte Martasino,
     Che ha per cimiero un capo de grifone,
     E sotto a quello uno elmo tanto fino,
     Che non teme di brando offensïone.
     Costui, veggendo per quel gran polvino
     Sua gente persa e la destruzïone
     Che fa tra loro il sir di Montealbano,
     Là s’abandona con la spada in mano.

17 Gionse a Ranaldo dal sinistro lato
     E ne l’elmo il ferì de un manriverso;
     Quasi stordito lo mandò nel prato,
     Tanto fu il colpo orribile e diverso.
     Tardoco ancor di novo era arivato,
     E Bardarico gionse di traverso
     Con Marbalusto, che è sì grande e grosso;
     Ciascun tocca Ranaldo a più non posso.

18 Lui da cotanti se diffende apena,
     Sì spesso del colpire è la tempesta;
     Ciascun de questi quattro è di gran lena,
     Né l’un per l’altro di ferir se arresta.
     Ranaldo irato a Bardarico mena,
     E colse de Fusberta ne la testa,
     E fesse l’elmo e la barbuta e ’l scudo:
     A mezo il petto andò quel colpo crudo.

19 Ma lui gionse ne l’elmo Marbalusto,
     Il qual portava in mano un gran bastone,
     Che avea ferrato tutto intorno il fusto;
     Lui gionse ne la testa il fio de Amone.
     Cotanta forza ha quel pagan robusto,
     Che quasi lo gettò fuor de lo arcione;
     Già tutto da quel canto era piegato,
     Ma Tardoco il ferì da l’altro lato.

20 Tardoco, il re de Alzerbe, il tiene in sella,
     Ferendo, come io dico, a l’altro canto,
     E Martasino adosso gli martella,
     Ed il cimier gli ruppe tutto quanto.
     E mentre che Ranaldo stava in quella,
     Il popol de’ Pagan, che era cotanto,
     Da Grifaldo guidato e Dudrinasso,
     Di novo i nostri posero in fraccasso.

21 Tanta la gente sopra a’ nostri abonda,
     Che non vi val diffesa a ogni maniera,
     A benché alcun però non se nasconda.
     Ma tutta consumata è quella schiera,
     Onde al soccorso mosse la seconda,
     Che alle baruffe entrò ben volentiera;
     Né soi megliori aveva il re de Francia
     Di questi dui, de ardire e di possancia:

22 Del duca d’Arli, dico, il bon Sigieri,
     E ’l bono Uberto, duca di Baiona,
     Usi in battaglia e franchi cavallieri;
     E l’uno e l’altro avea forte persona.
     Via se ne vanno al par de bon guerrieri,
     De arme e de cridi il cel tutto risuona.
     E par che ’l mondo seco se comova;
     Or la battaglia al campo se rinova.

23 Uberto se incontrò col re Grifaldo,
     Sigiero e Dudrinasso l’africante;
     Uscîr d’arcione e duo pagan di saldo,
     Voltando verso il celo ambe le piante.
     Vicino a questo loco era Ranaldo,
     Qual combattendo, come io dissi avante,
     Con quei pagan, condutto era a mal porto,
     Benché de’ quattro Bardarico ha morto.

24 Pur sempre il re Tardoco e Martasino
     E quel gigante il quale è re de Orano
     Toccano adosso al nostro paladino,
     L’un col bastone e’ duo col brando in mano.
     Ora Sigieri, essendo là vicino,
     Presto cognobbe il sir de Montealbano,
     E là per dargli aiuto se abandona:
     A tutta briglia il suo destrier sperona.

25 E mena al re Tardoco in prima gionta,
     E tra lor duo se cominciò la danza,
     Con gran percosse di taglio e di ponta.
     Ma pur Sigieri il saracino avanza,
     Come Turpino al libro ce raconta;
     Al fin gli messe il brando per la panza,
     E le rene forò sotto al gallone,
     Via più de un palmo passò ancor l’arcione.

26 Né avendo ancora il brando rïavuto,
     Ché forte ne l’arcione era inclinato,
     Per voler dare al re Tardoco aiuto
     Aponto Martasino era voltato;
     Ma, poi che il vidde a quel caso venuto,
     Che il freno aveva e il brando abandonato,
     Sopra a Sigieri un colpo orrendo lassa,
     E la barbuta e l’elmo gli fraccassa.

27 Tanta possanza avea quel maledetto,
     Che per la fronte gli partì la faccia,
     E ’l collo aperse e giù divise il petto,
     Ché non vi valse usbergo né coraccia.
     Or bene ebbe Ranaldo un gran dispetto,
     E con Fusberta adosso a lui se caccia:
     Dico Ranaldo adosso a Martasino
     Lascia un gran colpo in su l’elmo acciarino.

28 Forte era l’elmo, come aveti odito,
     E per quel colpo ponto non se mosse,
     Ma rimase il pagano imbalordito,
     Ché la barbuta al mento se percosse,
     E stette un quarto de ora a quel partito,
     Che non sapeva in qual mondo se fosse;
     E, mentre che in tal caso fa dimora,
     Re Marbalusto col baston lavora.

29 Ad ambe mano alzò la grossa maccia,
     E sopra al fio de Amon con furia calla;
     Ranaldo a lui rimena, non minaccia,
     Con sua Fusberta che giamai non falla.
     Meza la barba gli tolse di faccia,
     Ché la masella pose in su la spalla,
     Né elmo o barbuta lo diffese ponto,
     Ché ’l viso gli tagliò, come io vi conto.

30 Smarito di quel colpo il saracino
     Subitamente se pose a fuggire,
     E ritrovò nel campo il re Sobrino,
     Qual, veggendo costui in tal martìre,
     - Ove è, - cridava - dove è Martasino,
     E Bardarico, che ebbe tanto ardire?
     Ov’è Tardoco, il giovane mal scorto?
     So che Ranaldo ogniun di loro ha morto.

31 Non fu dato credenza al mio parlare;
     Da Rodamonte apena me diffese,
     Quando a Biserta io presi a racontare
     La possanza di Carlo in suo paese.
     Se io dissi veritate ora si pare,
     Ché faciamo la prova a nostre spese;
     Or fuggi tu, dapoi che ti bisogna,
     Ché qua voglio io morir senza vergogna. -

32 Così dicendo quel crudo vecchiardo
     Via va correndo e Marbalusto lassa;
     Tagliando e nostri senza alcun riguardo
     E sempre dissipando avanti passa.
     Da ciascun canto quel pagan gagliardo
     Destrieri insieme ed omini fraccassa.
     E ne lo andare il forte saracino
     Trovò Ranaldo a fronte e Martasino.

33 Perché, dapoi che in sé fu rivenuto,
     Fu con Ranaldo di novo alle mano,
     Ma certamente gli bisogna aiuto,
     Ché male il tratta il sir de Montealbano.
     Come Sobrino il fatto ebbe veduto,
     Cridava, essendo alquanto anco lontano:
     - Ove son le prodezze e l’arroganze
     Che dimostravi in Africa di zanze?

34 Ove lo ardir che avesti, e quella fronte
     Che dimostravi in quello giorno, quando
     Con tal ruina giù callavi il monte
     E che stimavi tanto poco Orlando?
     Or questo che ti caccia non è il conte,
     Che avevi morto e preso al tuo comando;
     Questo non è colui che ha Durindana,
     E pur ti caccia a guisa de puttana. -

35 Non guarda Martasino a tal parlare,
     E ponto non l’intende e non l’ascolta,
     Ché certamente aveva altro che fare,
     Tanto Ranaldo lo menava in volta.
     Ma il re Sobrin non stette ad aspettare:
     Avendo ad ambe man sua spada còlta,
     Percosse di gran forza il fio d’Amone
     Sopra al cimier, che è un capo di leone.

36 Un capo di leone e il collo e il petto
     Portava il pro’ Ranaldo per cimiero,
     Ma il re Sobrino il tolse via di netto,
     Ché tutto il fraccassò quel colpo fiero;
     Onde prese de ciò molto dispetto,
     E volta a quel pagano il cavalliero;
     Ma, mentre che si volta, Martasino
     Percosse lui ne l’elmo de Mambrino.

37 Come ne l’alpe, alla selva men folta,
     Da’ cacciatori è l’orso circondato,
     Quando l’armata è d’intorno aricolta,
     Chi tra’ davanti e chi mena da lato;
     Lui lascia questo, e a quello altro si volta,
     Ché de ciascun vôle esser vendicato,
     E mentre che a girarse più se affretta,
     Più tempo perde e mai non fa vendetta:

38 Cotale era Ranaldo in quel zambello,
     Sendo condutto a quei pagani in mezo;
     A lui sempre feriva or questo or quello,
     Ed esso a tutti attende e fa ’l suo pezo.
     Ciascuno de quei re sembrava ocello,
     Come scrive Turpino, il quale io lezo;
     Tanto eran presti e scorti nel ferire,
     Ch’io nol posso mostrar, né in rima dire.

39 Come io vi dico, senza alcun riguardo
     Qual dietro mena e qual tocca davante;
     Ma quel bon cavallier sopra a Baiardo
     Pur fa gran prove, e non potria dir quante.
     Mentre ha tal zuffa il principe gagliardo,
     Del monte era disceso il re Agramante,
     E di tanta canaglia il piano è pieno,
     Che par che al crido il mondo venga meno.

40 Poco davanti è Rugier paladino,
     Daniforte vien dietro e Barigano,
     Ed Atalante, quel vecchio indivino,
     Mulabuferso, che è re di Fizano,
     El re Brunello, il falso piccolino,
     Mordante, Dardinello e Sorridano,
     E seco Prusïone e Manilardo
     E Balifronte, il perfido vecchiardo.

41 Re de Almasilla vien Tanfirïone:
     Chi potria racordar tutti costoro?
     Mancavi il re di Septa, Dorilone,
     Che dietro ne venìa con Pinadoro.
     Provato ha l’uno il figlio di Melone,
     E l’altro è copïoso di tesoro:
     Perché e ricchi ebban seguir tutti quanti,
     Mandan gli arditi e’ disperati avanti.

42 Per tal cagione indetro era rimaso
     Il re di Constantina e quel di Cetta,
     E ben confortan gli altri in questo caso
     A gire avanti, ove è la folta stretta.
     Ora me aiuta, ninfa di Parnaso,
     Suona la tromba e meco versi detta;
     Sì gran baruffa me apparecchio a dire,
     Che senza aiuto io non potrò seguire.

43 Re Carlo tutto il fatto avea veduto,
     E a’ soi rivolto il franco imperatore
     Dicea: - Filioli, il giorno oggi è venuto,
     Che sempre al mondo ce può fare onore.
     Da Dio dovemo pur sperare aiuto,
     Ponendo nostra vita per suo amore,
     Né perder se può quivi, al parer mio:
     Chi starà contra noi, se nosco è Iddio?

44 Né vi spaventi quella gran canaglia,
     Benché abbia intorno la pianura piena;
     Ché poco foco incende molta paglia,
     E piccol vento grande acqua rimena.
     Se forïosi entramo alla battaglia,
     Non sosterranno il primo assalto apena.
     Via! Loro adosso a briglie abandonate!
     Già sono in rotta; io il vedo in veritate. -

45 Nel fin de le parole Carlo Mano
     La lancia arresta e sprona il corridore.
     Or chi serìa quel traditor villano
     Che, veggendo alla zuffa il suo segnore,
     Non se movesse seco a mano a mano?
     Qua se levò l’altissimo romore;
     Chi suona trombe e chi corni, e chi crida:
     Par che il cel cada e il mondo se divida.

46 Da l’altra parte ancora e Saracini
     Facean tremar de stridi tutto il loco.
     Correndo l’un ver l’altro son vicini:
     Discresce il campo in mezo a poco a poco,
     Fosso non vi è né fiume che confini,
     Ma urtarno insieme gli animi di foco,
     Spronando per quel piano a gran tempesta;
     Ruina non fu mai simile a questa.

47 Le lancie andarno in pezzi al cel volando,
     Cadendo con romore al campo basso,
     Scudo per scudo urtò, brando per brando,
     Piastra per piastra insieme, a gran fraccasso.
     Questa mistura a Dio la racomando:
     Re, caval, cavallier sono in un fasso,
     Cristiani e Saracini, e non discerno
     Qual sia del celo, qual sia de l’inferno.

48 Chi rimase abattuto a quella volta,
     Non vi crediati che ritrovi iscampo,
     Ché adosso gli passò quella gran folta,
     Né se sviluppâr mai di quello inciampo;
     Ma la schiera pagana in fuga è volta,
     E già de’ nostri è più de mezo il campo;
     Ferendo e trabuccando a gran ruina,
     Via se ne va la gente saracina.

49 Essendo da due arcate già fuggiti,
     Pur li fece Agramante rivoltare;
     Allora e nostri, in volta e sbigotiti,
     Incominciarno il campo abandonare,
     Fuggendo avanti a quei che avean seguiti:
     Come intraviene al tempestoso mare,
     Che il maestrale il caccia di riviera,
     Poi vien sirocco, e torna dove egli era.

50 Così tra Saracini e Cristïani
     Spesso nel campo se mutava il gioco,
     Or fuggendo or cacciando per quei piani,
     Cambiando spesso ciascaduno il loco,
     Benché e signori e’ cavallier soprani
     Se traesseno a dietro a poco a poco.
     Pur la gente minuta e la gran folta
     Com’una foglia ad ogni vento volta.

51 Tre fiate fu ciascun del campo mosso,
     Non potendo l’un l’altro sostenire.
     La quarta volta se tornarno adosso,
     E destinati son de non fuggire.
     Petto con petto insieme fu percosso;
     L’aspra battaglia e l’orrendo ferire
     Or se incomincia e la crudel baruffa:
     Questo con quello e quel con questo ha zuffa.

52 Re Pulicano e Ottone, il bono anglese,
     Se urtarno insieme con la spada in mano;
     Rugiero al campo de’ Cristian distese,
     Ciò fu Grifon, cugin del conte Gano.
     Ricardo ed Agramante alle contese
     Stettero alquanto sopra di quel piano,
     Ma al fin lo trasse il saracin de arcione,
     Poi rafrontò Gualtier da Monlïone,

53 E Barigano, el duca de Baiona,
     E Gulielmier di Scoccia, Daniforte.
     De Carlo Mano la real corona
     Feritte in testa Balifronte a morte.
     Re Moridano avea franca persona,
     Né de lui Sinibaldo era men forte,
     Sinibaldo de Olanda, il conte ardito:
     Costor toccâr l’un l’altro a bon partito.

54 Apresso Daniberto, il re frisone,
     Col re de la Norizia, Manilardo;
     Brunello il piccolin, che è un gran giottone,
     Stava da canto con molto riguardo.
     Ma poco apresso il re Tanfirïone
     S’affrontò con Sansone, il bon picardo;
     E gli altri tutti, senza più contare,
     Chi qua chi là se avean preso che fare.

55 È la battaglia in sé ramescolata,
     Come io ve dico, a questo assalto fiero;
     De crido in crido al fin fu riportata
     Sin là dove era il marchese Oliviero,
     Che combattuto ha tutta la giornata
     Contra a Grandonio, il saracino altiero,
     E fatto ha l’un a l’altro un gran dannaggio,
     Benché vi è poco o nulla d’avantaggio.

56 Ma, sì come Olivier per voce intese
     L’alta travaglia ove Carlo è condotto,
     Forte ne dolse a quel baron cortese:
     Lasciò Grandonio e là corse di botto.
     Così fu reportato anche al Danese,
     Qual combatteva, e non era al desotto,
     Anci ben stava a Serpentino al paro;
     De la lor zuffa vi è poco divaro.

57 Ma, come oditte che ’l re Carlo Mano
     Entrato era a battaglia sì diversa,
     Subitamente abandonò il pagano,
     Io dico Serpentin, l’anima persa,
     E via correndo il cavallier soprano
     Poggetti e valli e gran macchie atraversa,
     Sin che fu gionto sotto a l’alto monte
     Ove azuffato è Carlo e Balifronte.

58 Così a ciascun che al campo combattia,
     Fu l’aspra zuffa subito palese,
     Ove il re Carlo e la sua baronia
     Contra Agramante stava alle contese.
     L’un più che l’altro a gran fretta venìa
     A spron battuti e redine distese,
     E sì ve se adunarno a poco a poco,
     Che ormai non è battaglia in altro loco.

59 Però che ’l re Marsilio e Balugante,
     Grandonio di Volterna e Serpentino
     E l’altre gente sue, ch’eran cotante,
     Mirando per quel monte il gran polvino,
     Ben se stimarno che gli era Agramante,
     Ed ormai gionger dovea per confino,
     Onde tornarno adietro a dargli aiuto;
     Ma già con lor non viene Feraguto.

60 Però che era fiaccato in tal maniera
     Dal pro’ Ranaldo, come io vi contai,
     Che, stando a rinfrescarsi alla riviera,
     Più per quel giorno non tornò giamai.
     Vago fu molto il loco dove egli era,
     De fiori adorno e de occelletti gai,
     Che empìan di zoia il boschetto cantando,
     E là in nascosto stava ancora Orlando;

61 Perché, poi che esso lasciò Pinadoro
     (Non so se ricordate il convenente),
     Venne in quel bosco e scese Brigliadoro,
     E là pregava Iddio devotamente
     Che le sante bandiere a zigli d’oro
     Siano abattute e Carlo e la sua gente;
     E pregando così come io ve ho detto,
     Lo trovò Feraguto in quel boschetto.

62 Né l’un de l’altro già prese sospetto
     Come se fôrno insieme ravisati;
     Ma qual fosse tra lor l’ultimo effetto,
     Da poi vi narrarò, se me ascoltati.
     Or l’aspro assalto che di sopra ho detto,
     Quale ha tanti baron ramescolati,
     Si rinovò sì crudo e sì feroce,
     Che io temo che al contar manchi la voce.

63 Onde io riprenderò di posa alquanto,
     Poi tornarò con rime più forbite,
     Seguendo la battaglia de che io canto,
     Ove l’alte prodezze fiano odite
     Di quel Rugier che ha di fortezza il vanto.
     Baron cortesi, ad ascoltar venite,
     Perché al principio mio io me dispose
     Cantarvi cose nove e dilettose.