Orlando innamorato/Libro secondo/Canto decimottavo

Libro secondo

Canto decimottavo

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1   Fo glorïosa Bertagna la grande
     Una stagion per l’arme e per l’amore,
     Onde ancora oggi il nome suo si spande,
     Sì che al re Artuse fa portare onore,
     Quando e bon cavallieri a quelle bande
     Mostrarno in più battaglie il suo valore,
     Andando con lor dame in aventura;
     Ed or sua fama al nostro tempo dura.

2   Re Carlo in Franza poi tenne gran corte,
     Ma a quella prima non fo sembïante,
     Benché assai fosse ancor robusto e forte,
     Ed avesse Ranaldo e ’l sir d’Anglante.
     Perché tenne ad Amor chiuse le porte
     E sol se dette alle battaglie sante,
     Non fo di quel valore e quella estima
     Qual fo quell’altra che io contava in prima;

3   Però che Amore è quel che dà la gloria,
     E che fa l’omo degno ed onorato,
     Amore è quel che dona la vittoria,
     E dona ardire al cavalliero armato;
     Onde mi piace di seguir l’istoria,
     Qual cominciai, de Orlando inamorato,
     Tornando ove io il lasciai con Sacripante,
     Come io vi dissi nel cantare avante.

4   Dapoi che il conte intese dove andava
     Re Sacripante, ed ove era venuto,
     E come in tema Angelica si stava
     Non aspettando d’altra parte aiuto,
     Il franco cavallier ben sospirava,
     E tutto se cambiò nel viso arguto;
     E senza fare al ponte altro pensiero,
     Calidora lasciò con Isoliero.

5   E Sacripante prese la schiavina
     E la tasca e il cappello e il suo bordone;
     Al re Gradasso via dritto camina.
     Ma torno adesso al figlio di Melone,
     Che cavalcando gionse una matina
     Con Brandimarte ad Albraca il girone;
     Ma non san come far quivi l’intrata,
     Cotanta gente intorno era acampata.

6   Torindo, il re de’ Turchi, e ’l Caramano
     Quivi era in campo, e ’l re di Santaria
     E Menadarbo, il quale era Soldano,
     Che tenne Egitto e tutta la Soria;
     Coperto era a trabacche e tende il piano:
     Non se vidde giamai tanta genia;
     Solo adunata è quella gente fella
     Per donar pena e morte a una donzella.

7   Ma chi per una e chi per altra iniuria
     Intorno a quella dama era attendato;
     Torindo il Turco menava tal furia
     Per Trufaldino, il qual fo spregionato;
     E Menadarbo, quel Soldan, lo alturia,
     Però che fo gran tempo inamorato
     De Angelica la bella; e sempre mai
     Ebbe repulsa e beffe e scorni assai.

8   Onde l’amore avea in odio rivolto,
     E sol per disertarla venuto era.
     Veggendo Orlando il gran popolo accolto,
     Che avea coperto il piano e la costiera,
     Benché egli ardisse e disïasse molto
     Di far battaglia più che voluntiera,
     Tanto vedere Angelica li piace
     Che provar volse di passare in pace.

9   Però se ascose in un bosco vicino,
     E là si stette insino a notte oscura,
     Poi, come quel che ben sapea il camino,
     Intrò dentro alla rocca alla sicura.
     Quando la dama vidde il paladino,
     Di tutto il mondo ormai non ha più cura;
     Non dimandati se ella ebbe conforto,
     Perché certo credea che ’l fusse morto.

10 Molte fôr le carezze e l’accoglienza
     Che Angelica li fece a quel ritorno.
     Il conte di narrarle indi comenza
     Poscia che se partitte il primo giorno,
     Insin che è gionto nella sua presenza;
     Come trovò Marfisa e perse il corno,
     E de Origille quelle beffe tante,
     Sin che in prigion lo pose Manodante;

11 Come Ranaldo quindi era partito
     Per gire in Franza, ed Astolfo e Dudone;
     E ciò che prima e poscia era seguito
     Li disse Orlando a ponto per ragione.
     La dama, benché il tutto avesse odito,
     Pure ascoltando che il figlio d’Amone
     Era tornato in Franza al suo paese,
     De rivederlo ancor tutta se accese.

12 Onde cominciò il conte a confortare,
     Mostrando a lui per diverse cagione
     Come doveva in Francia ritornare;
     E che ormai più dentro a quel girone
     Non è vivanda che possa durare,
     Sì che star non vi può lunga stagione,
     Ed è bisogno aritrovar rimedio
     Onde si campi for di quello assedio.

13 E che ella seco ne volea venire,
     Ove ad esso piacesse, in ogni loco.
     Or quivi non fu già molto che dire,
     Né il conte vi pensò troppo né poco;
     Ma quella notte se ebbero a partire,
     E nella rocca in molte parte il foco
     Lasciarno, che alle torre e nei merli arda,
     Per dimostrar che ancor vi sia la guarda.

14 E poi per l’aria scura e tenebrosa
     Tutto passarno senza impaccio il campo;
     Ma possa che ogni stella fu nascosa,
     E del giorno vermiglio apparbe il lampo,
     Non gli coprendo ormai la notte ombrosa,
     Pigliâr rimedio ed ordine al suo scampo:
     Tutta lor compagnia forse è da venti,
     Tra dame e cavallieri e lor sargenti.

15 E questa alora tutta se disparte,
     Chi qua, chi là, ciascuno a suo comando;
     Rimase Fiordelisa e Brandimarte
     Ed Angelica bella e il conte Orlando.
     Or questi quattro se trasse da parte,
     E tutto il giorno appresso cavalcando
     Ne andarno insino a l’ora della nona
     Senza trovare impaccio de persona.

16 Essendo alora il giorno riscaldato,
     Ciascadun de essi del destrier discese
     Sotto l’ombra de un pin, ad un bel prato,
     Ma non che se spogliasse alcun l’arnese;
     E, stando il conte e Brandimarte armato,
     Né temendo ormai più de altre offese,
     Stavano ad agio parlando d’amore,
     Quando a sue spalle odirno un gran rumore.

17 Onde levati, un poco di lontano
     Videro una gran gente a belle schiere,
     Che via ne vien distesa per il piano,
     Ed ha spiegato al vento le bandiere.
     Questo era Menadarbo, il gran Soldano,
     E ’l re de’ Turchi e l’altre gente fiere,
     Che avean l’assedio a quella rocca intorno,
     Anci l’han presa ed arsa pur quel giorno.

18 Perché, essendo aveduti la mattina
     Che più persona non era in quel loco,
     Intrarno tutti dentro con roina,
     La bella rocca abandonarno in foco;
     Poi Menadarbo al tutto se destina
     Aver la dama e di farli un mal gioco,
     E Torindo gli è dietro e ’l Caramano,
     E tutti gli altri poi di mano in mano.

19 Quando se accorse Orlando de la gente
     Che ratta ne venìa per la pianura,
     Turbosse for di modo nella mente,
     Però che de le dame avea paura;
     Ma Brandimarte se cura nïente,
     Anci diceva al conte: - Or te assicura
     Che, piacendoti far quel che io te dico,
     Quella canaglia non estimo un fico.

20 Io ho, come tu vedi, un bon destriero,
     Quanto alcun altro che n’abbia il Levante,
     E non è tra costor già cavalliero,
     Che ad un per uno io non li sia bastante.
     Quivi voglio arrestarmi in su il sentiero;
     Tu con le dame passarai avante,
     Io con parole e fatti sì faraggio
     Che prenderai andando alcun vantaggio. -

21 A benché il conte cognoscesse a pieno
     Che quello è vero e bon provedimento
     Qual dice Brandimarte, nondimeno
     Lo abandonarlo parria mancamento;
     Ma pur rivolse ne la fine il freno,
     Per far di questo quel baron contento;
     In mezo a le due dame avanti passa,
     E Brandimarte in su quel prato lassa.

22 La gente sterminata ne venìa
     Per la campagna senza alcun riguardo;
     Secondo che il destrier ciascun avia,
     Chi giongeva più presto, e chi più tardo;
     Ma avanti a gli altri il re di Satalia
     Venìa, broccando un gran ronzon leardo;
     Sopra la briglia già non se ritiene,
     Più de una arcata avanti a gli altri viene.

23 Sembrava proprio al corso una saetta
     Quel re, che era appellato Marigotto;
     E Brandimarte stava alla vedetta.
     Come lo scorse ben, disse di botto:
     "Costui ha di morire una gran fretta,
     Ché avanti a gli altri vôl pagare il scotto."
     Così dicendo e crollando la testa
     Sprona il destriero e la sua lancia arresta.

24 E Marigotto fece il simigliante:
     Verso di questo venne, e l’asta abassa;
     Ma Brandimarte, che ’l gionse davante,
     Dopo alle spalle con la lancia il passa;
     E d’urto dapoi gionse lo afferante,
     E con ruina a terra lo fraccassa,
     Là dove Marigotto e ’l suo ronzone
     Ne andarno in fascio, a gran destruzïone.

25 Già Brandimarte avea sua spata tratta,
     E dà tra gli altri senza alcun riparo.
     Oh come bene intorno se sbaratta,
     Facendo de lor pezzi da beccaro!
     Onde alla gente che venìa sì ratta,
     Cominciava il terreno a parer caro,
     E non mostrano ormai cotanta fretta,
     Ché più che voluntier l’un l’altro aspetta.

26 Ma Menadarbo vi gionse, adirato
     Che un sol barone arresti tanta gente,
     E stringendo la lancia al destro lato
     Ne vien spronando il suo destrier corrente;
     E colse Brandimarte nel costato,
     Ma de arcione il piegò poco o nïente:
     La lancia rotta in pezzi cade a terra,
     E Brandimarte adosso a lui si serra.

27 Levando alto a due mano il brando nudo,
     Mena con furia al mezo della testa.
     Or lui coperto avea l’elmo col scudo:
     Né l’un né l’altro quel gran colpo arresta,
     Ché il scudo e l’elmo ruppe il brando crudo,
     E cadde Menadarbo alla foresta,
     Partito dalla fronte insino ai denti;
     Or vi so dir che gli altri avean spaventi.

28 Ma non di manco gli stavano intorno,
     E chi lancia da longi e chi minaccia.
     Poco gli stima il cavalliero adorno,
     Ed ora questi ed or quelli altri caccia;
     Così gran parte è passata del giorno,
     Perché la gente che seguia la traccia
     Crescendo ne venìa di mano in mano:
     Ecco gionto è Torindo e il Caramano.

29 Prima gionse Torindo a gran baldanza:
     Con l’asta bassa Brandimarte imbrocca,
     E spezzò sopra al scudo la sua lanza;
     Ma Brandimarte ad una spalla il tocca,
     E quasi lo partì insino alla panza,
     E dello arcione a terra lo trabocca.
     Vedendo quel gran colpo il Caramano
     Volta il destriero e fugge per il piano.

30 Ma quel fuggire avria poco giovato,
     Se non avesse avuto a volar piume.
     Venne la notte, e il giorno era passato,
     Né per quel loco si vedea più lume;
     E ’l Caramano avanti era campato,
     Natando per paura un grosso fiume;
     Poi molte miglia per le selve ombrose
     Andò fuggendo ed al fin se nascose.

31 E Brandimarte, che l’avea seguito
     Cacciando a tutta briglia il suo destriero,
     Dapoi che vide ch’egli era fuggito
     E che a pigliarlo non era mestiero,
     Guardando al prato dove era partito
     Non vi sa più tornare il cavalliero,
     Perché la notte che ha scacciato il giorno
     Avea oscurato per tutto d’intorno.

32 Intrato adunque per la selva alquanto,
     E non sapendo mai di quella uscire,
     Smontò di sella e trassese da un canto,
     Sopra alle fronde se pose a dormire;
     Ma rotto li fo il sonno da un gran pianto,
     Qual quindi presso li parve de odire,
     E sembrava la voce de una dama,
     Che a Dio mercede lacrimando chiama.

33 Chi sia la dama qual mena tal guai,
     Poi oderiti stando ad ascoltare.
     Ma sia de Brandimarte detto assai,
     Ché al conte Orlando mi convien tornare,
     Il qual, partito come io vi contai,
     Verso Ponente prese a caminare,
     Né passato era avanti oltre a sei miglia,
     Che ebbe travaglia e pena a meraviglia.

34 Però che, intrato essendo in duo valloni,
     Chinandosi già il sole in ver la sera,
     Trovò sopra a que’ sassi e Lestrigioni,
     Gente crudele e dispietata e fiera.
     Costoro han denti ed ungie de leoni,
     Poi son come gli altri omini alla ciera,
     Grandi e barbuti e con naso di spana:
     Bevono il sangue e mangian carne umana.

35 Il conte entrato gli vede a sedere
     Ad una mensa che è posta tra loro,
     E sopra quella da mangiare e bere,
     Con gran piatti d’argento e coppe d’oro.
     Come ciò scorse Orlando, a più potere
     Sprona il ronzon per giongere a costoro,
     E ben seguìto lo tenean le dame,
     Ché l’una più che l’altra ha sete e fame.

36 Via van trottando per giongere a cena,
     Ma prestamente fia ciascuna sacia.
     Or vanne il conte, e con faccia serena
     A que’ ribaldi disse: - Pro vi facia.
     Poi che fortuna a tale ora mi mena
     In questo loco, prego che vi piacia
     Per li nostri dinari, o in cortesia,
     Che siamo a cena vosco in compagnia. -

37 Il re de’ Lestrigoni, Antropofàgo,
     Odendo le parole levò il muso.
     Questo avea gli occhi rossi come un drago,
     E tutto di gran barba il viso chiuso;
     De veder gente occisa è troppo vago,
     Come colui che tutto il tempo era uso
     Matina e sera di farne morire,
     Per divorarli e il suo sangue sorbire.

38 Quando costui odì il conte parlare,
     Veggendolo a destriero e bene armato,
     Dubitò forse nol poter pigliare,
     Onde li fece loco a sé da lato,
     Pregando che volesse dismontare;
     Ma il conte aveva già deliberato,
     Se lo invitasse, de accettar lo invito,
     Se non, pigliar da cena a ogni partito.

39 Onde discese de il destriero al basso,
     Ma non se assetta, le dame aspettando,
     Le qual venian però più che di passo.
     Ora odì il conte lor, che mormorando
     Dicevan l’uno a l’altro: - Egli è ben grasso. -
     E quel rispose: - Io nol so, se non quando
     Io il vedo a rosto, o ver quand’io l’attasto;
     E sapròl meglio se io ne piglio un pasto. -

40 Non attendeva Orlando a tal sermone,
     Come colui che alle dame guardava,
     Ma in questo Antropofàgo il Lestrigone
     Da mensa pianamente se levava,
     E, preso avendo in mano un gran bastone,
     Venne alle spalle del conte di Brava,
     E sopra l’elmo ad ambe mano il tocca,
     Sì che disteso a terra lo trabocca.

41 Molti altri se aventarno anco di fatto
     Verso le dame dai visi sereni,
     Perché volevan tutti ad ogni patto
     Aver di quella carne e corpi pieni;
     Ma lor, che se smarirno di quello atto,
     Voltarno incontinente i palafreni,
     E l’una in qua e l’altra in là fuggiva;
     La mala gente apresso le seguiva.

42 Givan piangendo e lamentando forte
     Le damigelle con molta paura,
     E, non essendo nel paese scorte,
     Andarno errando per la selva oscura.
     Tornamo al conte, che è presso alla morte:
     Già tratta gli han di dosso l’armatura,
     E non è ancora in sé ben rinvenuto
     Per il gran colpo che ha nel capo avuto.

43 Antropofàgo, il re crudo e superbo,
     Gli pose adosso il dispietato ungione,
     Dicendo a gli altri: - Questo è tutto nerbo:
     Da gli occhi in fora non c’è un buon boccone. -
     Sentendo Orlando lo attastare acerbo,
     Per quella doglia uscì de stordigione,
     E saltò in piede il cavallier soprano;
     Come a Dio piacque, a lor scappò di mano.

44 Dietro gli è il re con molti Lestrigoni,
     Cridando a ciascadun ch’e passi chiuda;
     Chi gli tra’ sassi, e chi mena bastoni:
     Tutta gli è adosso quella gente cruda,
     Né lo lascia partir de que’ cantoni.
     Ora ecco ha vista Durindana nuda,
     Che avean lasciata quei ribaldi a terra;
     Ben prestamente il conte in man l’afferra.

45 Quando se vidde la sua spada in mano,
     Pensati pur tra voi se il fo contento.
     Ove se imbocca quel vallone a piano,
     Eran firmati di costor da cento,
     Tutti di viso ed abito villano;
     Né scudo o brando o altro guarnimento,
     Ma pelle d’orsi e di cingiali in dosso
     Avea ciascun, e in mano un baston grosso.

46 Il conte Orlando tra costor se caccia,
     Menando il brando a dritto ed a roverso,
     E l’un getta per terra, e l’altro amaccia,
     Questo per lungo e quel taglia a traverso;
     Spezza e bastoni e seco ambe le braccia,
     Ma quel rio populaccio è sì perverso
     Che, avendo rotto e perso e piedi e mane,
     Morde co’ denti, come fa lo cane.

47 Convien che spesso il conte se ritorza,
     Perché ciascun de intorno l’aggraffava.
     Ora il suo re, sì come avea più forza,
     Maggior baston de gli altri assai portava,
     Ed era tutto armato de una scorza;
     Giù per la barba gli cadea la bava,
     Che colava di bocca e del gran naso,
     Come un cane arabito, a quel malvaso.

48 Più di tre palmi sopra gli altri avanza
     Questo re maledetto che io vi conto;
     Orlando lo assalì con gran possanza,
     E dritto a mezo il capo l’ebbe gionto;
     Callò il brando nel petto e nella panza,
     Sì che in due parte lo divise a ponto,
     E cadde da due bande alla foresta;
     Il conte dà tra gli altri e non s’arresta.

49 E fece un tal dalmaggio in poco de ora,
     Che di quella canaglia maledetta
     Non vi è persona che faccia dimora
     Avanti al conte: tristo chi lo aspetta!
     Perché col brando in tal modo lavora,
     Che non si trova né pezzo né fetta
     De alcun, che morto al campo sia rimaso,
     Qual sia maggior che prima fosse il naso.

50 Onde lui restò solo in quel vallone,
     Ed era il giorno quasi tutto spento,
     Quando esso se adobbò sue guarnisone;
     E di mangiare avendo un gran talento,
     Venne alla mensa, a quelle imbandisone,
     Le qual mirando quasi ebbe spavento,
     Però che quelle gente disoneste
     Cotte avean bracie umane e piedi e teste.

51 Ben vi so dir che gli fuggì la fame
     A quel convito dispietato e fiero,
     Se ben ne avesse avuto maggior brame.
     Ma torna adietro e prende il suo destriero,
     Deliberato di cercar le dame,
     Ché ritrovarle avea tutto il pensiero.
     E diceva piangendo: "Or chi me aiuta
     Forza né ardir, se mia dama è perduta?

52 Se mia dama è perduta, or che mi vale
     Aver morto costor dal brutto viso?
     Che se io non la ritrovo, era men male
     Esser da lor con quei bastoni occiso.
     O Patre eterno! o Re celestïale!
     O Matre del Segnor del paradiso!
     Datime presto l’ultimo conforto,
     Ch’io la ritrovi, o che io presto sia morto."

53 Piangendo il conte parlava così,
     Come io vi ho detto, e nella selva intrò;
     Errando andò per quella in sino al dì,
     Ma ciò ch’el va cercando non trovò.
     Essendo l’alba chiara, ed ello odì
     Cridar: - Va là! va là! ché ella non può
     Scappare ormai più fuora di quel passo,
     Ché là davanti è ruïnato il sasso. -

54 Dricciosse Orlando ove colui favella,
     E presto del cridar vidde lo effetto,
     Perché cognobbe quella gente fella
     De’ Lestrigoni, il popol maledetto,
     Che avean cacciata Angelica la bella
     Ove se era condutta al passo stretto,
     Che arendersi bisogna a chi la caccia,
     O roïnarsi da ducento braccia.

55 Quando la vidde il conte a tal periglio,
     Non dimandati se fretta menava.
     Era per ira in faccia sì vermiglio,
     Che poco longi un foco dimostrava.
     Urtò il destriero e al brando diè di piglio,
     E quel de intorno a gran furia menava,
     Lasciando ove giongeva un tal segnale,
     Che per guarirlo medico non vale.

56 Eran costor che io dico, da quaranta,
     Che avean stretta la dama in su quel sito,
     Né già de tutti quanti un sol si vanta
     Che senza la sua parte sia partito.
     Se la canaglia fosse due cotanta,
     Ciascuno a bon mercato era fornito
     Di squarci per la testa e per la faccia:
     A chi troncò le gambe, a chi le braccia.

57 Angelica fu scossa in questa via,
     La quale era fuggita in ver ponente;
     Ma Fiordelisa, che a levante gìa,
     Pur fu seguita ancor da questa gente.
     Tutta la notte la brigata ria
     L’avea cacciata, sino al sol nascente,
     E proprio l’ha condutta in quella parte
     Ove dormiva il franco Brandimarte.

58 Ella piangendo a Dio se accomandava,
     Ed era già sì stracco il palafreno,
     Che, pur fuggendo, indarno il speronava.
     De Lestrigoni intorno il bosco è pieno,
     Ché ciascun de pigliarla procacciava,
     Onde essa di paura venìa meno,
     E già, ponendo il corpo per perduto,
     A Dio per l’alma adimandava aiuto.

59 Già riluceva alquanto pure il giorno,
     Come io vi dissi, e l’alba era schiarita,
     E Brandimarte, il cavalliero adorno,
     Dormia lì presso in su l’erba fiorita,
     Onde svegliosse; e guardando de intorno
     Vidde la dama trista e sbigotita,
     Che da que’ Lestrigoni avia la caccia;
     Ben la cognobbe incontinenti in faccia.

60 Onde fo presto al suo destrier salito,
     E con roina verso lei si mosse;
     Avendo tratto il suo brando forbito,
     Incontrò un Lestrigone e quel percosse.
     Non vi restava apena integro un dito,
     Ché tagliate gli avrebbe ambe le cosse,
     Né a quel ch’è in terra il cavalliero attende,
     Ma tocca un altro e insino al petto il fende.

61 Erano allora trenta Lestrigoni,
     O forse qualcun manco, a dire il vero,
     E qual tutti con sassi e con bastoni
     Chi dava a Brandimarte e chi al destriero,
     Ma lui facea de lor tanti squarcioni,
     Che pieno avea de intorno a quel sentiero
     Di teste e braccia; e tuttavia tagliando,
     Carco avea tutto di cervelle il brando.

62 Ivi de intorno alcun più non appare
     Di quella gente brutta e maledetta;
     Lui Fiordelisa corse ad abracciare,
     E ben mez’ora a sé la tenne stretta,
     Prima che insieme potesse parlare;
     Ma poi piangendo quella tapinetta
     Contava al cavallier con disconforto
     Come alla terra Orlando ha visto morto.

63 Così dicea perché l’avea veduto
     Tra i Lestrigoni alla terra disteso;
     Or Brandimarte per donarli aiuto
     A quella parte se ne va disteso.
     Ma io sono al fin del canto già venuto:
     Segnori e dame, che l’avete inteso,
     Dio vi faccia contenti e di tal voglia,
     Che ritornati a l’altro con più zoglia.