Orlando innamorato/Libro primo/Canto ventesimosettimo

Libro primo

Canto ventesimosettimo

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Libro primo - Canto ventesimosesto Libro primo - Canto ventesimottavo

 
1   Chi mi darà la voce e le parole,
     E un proferir magnanimo e profondo?
     Ché mai cosa più fiera sotto il sole
     Non fu mirata a lo universo mondo.
     L’altre battaglie fôr rose e vïole:
     A ricontar di questa io mi confondo,
     Perché il valor e il pregio della terra
     A fronte son condutti in questa guerra.

2   Era ciascun di lor tanto adirato,
     Che facean sbigotir chi gli guardava;
     E molti se partîr senza comiato,
     E poca gente se gli avicinava;
     Uscia rovente fuor de gli elmi il fiato,
     E nel suo ragionar l’aria tremava;
     E chiunque stava di lontano un poco,
     Giurava che lor volti eran di foco.

3   E si facean l’un l’altro orribil guardi,
     Parlando con voce aspra e minacciante;
     E benché al cominciar paresser tardi,
     Come io ve dimostrai nel dir davante,
     Ciò fu che di persona sì gagliardi
     E di cor fu ciascun tanto arrogante,
     Che ragionando si stavano adaggio,
     Mostrando non curar alcun vantaggio.

4   Ma poi che Orlando trasse Durindana
     Forte cridando: - Or se vedrà la prova,
     Se a tua prodezza, che è tanto soprana,
     Un altro pare in terra se ritrova! -
     La cosa più non va suave e piana;
     Ponto è Ranaldo: convien che si mova.
     Però prende Fusberta ad ambe mano,
     E verso il conte sprona Rabicano.

5   E menò un colpo terribile e fiero,
     Come colui che ha forza oltra misura;
     Il dio d’amor, che ha il conte per cimiero,
     Volò con l’ale rotte alla pianura.
     L’elmo d’Almonte ben gli fie’ mestiero,
     Ché qua la affatason non lo assicura,
     Poi che Ranaldo a tanta furia il tocca,
     Che gli avria posto le cervelle in bocca.

6   Ma il conte, che d’orgoglio è troppo caldo,
     Quella percossa non cura un lupino;
     E, stretto come un scoglio a l’onde saldo,
     Che non se crolla dal vento marino,
     Lui con gran forza percosse Ranaldo
     Sopra de l’elmo, che fu de Mambrino;
     Ma lui, che è tanto fiero e sì possente,
     Per quel gran colpo se mosse nïente.

7   E risposene un altro con roina,
     Dov’è il scudo e la lancia discoperta,
     E piastra non vi valse, o maglia fina,
     Ché via la tagliò tutta con Fusberta;
     Seco la giuppa alla terra dechina,
     Sì che fece mostrar la carne aperta.
     Per questo d’ira il conte più s’accese,
     Ed a Ranaldo un gran colpo distese.

8   Gionse a traverso del manco gallone,
     E misse a terra gran parte del scudo,
     E usbergo e piastra e grosso pancirone
     Fraccassa con roina il brando crudo;
     Portò seco la giuppa e il camisone,
     Sì che mostrar li fece il fianco nudo.
     Ciascun de ira se accende e di mal fele,
     E la battaglia ognior vien più crudele.

9   Ranaldo prese un cruccio sì diverso,
     Che alla sua vita mai n’ebbe cotanto;
     E menò ad ambe mano un gran roverso,
     Tal che, se l’elmo non fosse de incanto,
     Tutto l’avrebbe spezzato e disperso;
     E per quel colpo orribile e tamanto
     Orlando se stordì per tal maniera,
     Che non sapea quel loco dove egli era.

10 Il suo destrier correndo andava intorno,
     Portandol stramortito in su la sella.
     Dicea Ranaldo: - Io so che al terzo giorno
     Non durarà fra noi questa novella. -
     E per darli di morte ultimo scorno
     Un altro colpo adosso li martella;
     Io non saprebbi ben dir la cagione,
     Ma il conte alora uscì de stordigione.

11 E risentito, cognobbe Ranaldo,
     Qual gli era sopra per farlo morire.
     Turbato lo scridò: - Giotton ribaldo,
     Mala ventura te ha fatto venire,
     Però che morto sei se tu stai saldo,
     E vergognato se prendi a fuggire.
     Or te diffendi, s’hai cotanto orgoglio,
     Ché averti alcun riguardo più non voglio. -

12 Così dicendo il conte a due man prese,
     Forte turbato, Durindana dura,
     E percosse ne l’elmo, e quel se accese
     A foco e fiamma con molta paura.
     Ranaldo su le croppe se distese
     Per quel gran colpo fuor d’ogni misura:
     Pendon le braccia ed ha aperta ogni mano;
     Via ne l’arcione il porta Rabicano.

13 Ma non fu giamai drago ni serpente,
     Che racogliesse in sé tanto veleno,
     Quanto Ranaldo alor che si risente:
     Il cor avea di foco e il viso pieno.
     Verso de Orlando iniquitosamente
     Prende a due mano il brando e lascia il freno;
     E similmente il senator romano
     Contra lui vene, e mena ad ambe mano.

14 Ferîr l’un l’altro con alto romore,
     Ciascun più furïoso e disperato;
     E sempre cresce la zuffa maggiore,
     E l’arme a pezzi a pezzi vanno al prato;
     Né scorger ben se può chi aggia il megliore,
     Ché in poco tempo cangiasi il mercato;
     Or se veggion ferir de animo accesi,
     Or su le croppe andar morti e distesi.

15 E si feriano con tanta nequizia
     Che a vendetta crudel serìa bastante,
     E con aspro parlar l’un l’altro astizia.
     Diceva al fio d’Amone il sir d’Anglante:
     - Oggi hai trovato il brando di iustizia!
     Confessa le tue amende tutte quante;
     Che sei per fama publico ladrone,
     Io vo’ che tu ’l confessi, e far ragione. -

16 - Tu te credi tuttora essere in Franza, -
     Disse Ranaldo - e gli altri minacciare.
     Chi cambia terra, die’ cambiare usanza;
     Re Carlo quivi non può comandare.
     Tu me di’ villania con arroganza,
     E credi ch’io te ’l voglia comportare?
     Ed a farne la prova in ogni loco,
     Io son meglior di te molto, e non poco.

17 Di che hai superbia, dimme, bastardone?
     Perché occidesti Almonte alla fontana,
     Che era legato in braccio al re Carlone,
     Ora te vanti, e porti Durindana
     Come acquistata per dritta ragione.
     Ben sei proprio figliol d’una puttana,
     Qual, perso che ha l’onor, più non lo stima
     E più sfacciata è dopo il fal che in prima.

18 Datte forse arroganza il re Troiano?
     Né ti vergogni di quella novella,
     Che, ancor ferito a morte e senza mano,
     Te trasse a tuo dispetto de la sella?
     Tu insieme lo occidesti in su quel piano:
     Va, ti nascondi, va, vil feminella!
     Tra gli omini apparere hai ardimento,
     E sei condutto a tanto tradimento? -

19 Diceva Orlando a lui: - Non fa mestiero
     De la nostra bontade disputare;
     Ché tu sei ladro, ed io son cavalliero,
     E tutto il mondo lo sa iudicare;
     E bene aggio ragion s’io sono altiero
     De Almonte e de Troian, che hai a contare,
     Che fur di tanto pregio e di tal raccia,
     Che non gli avresti tu guardati in faccia.

20 Fovi meco Rugiero e quel don Chiaro
     Che era corona d’ogni paladino,
     Quai stati non serian con un tuo paro,
     Ché alcun di lor non era malandrino.
     Or tu te vanti, e pôi bene aver caro,
     De avere occiso il forte re Mambrino;
     Ma non sa dir alcun come andò il fatto,
     Perché tu pur fuggisti al primo tratto.

21 Quella battaglia fu molto nascosa
     Là dopo il monte, e senza testimonio;
     Chi giurarà come andasse la cosa,
     E se il tuo Malagise col demonio
     Te dette la vittoria sì pomposa?
     Ed odito aggio ancora, o ch’io me insonio,
     Che il fratel Constantin pur fu ferito
     Dopo le spalle, e fu da te tradito. -

22 Così l’un l’altro con grave rampogna
     Se oltraggiavano insieme e cavallieri;
     Ora altro che parole ivi bisogna,
     Perché dal ragionare a i colpi fieri
     Eran venuti, e l’ira e la vergogna
     Gli avea spronati e fatti tropp’altieri;
     E se ferian con tanta crudeltade,
     Che ad ogni colpo fan foco le spade.

23 Ferì con ira Orlando ad ambe mano,
     Sopra Ranaldo gran colpo martella;
     Poco mancò che non andasse al piano
     E stramortito uscisse de la sella.
     Come rivenne il sir de Montealbano,
     Non se accese mai lampa né facella,
     Che non sembrasse del suo lume priva,
     Tant’ha di foco lui la faccia viva.

24 Ad Orlando ferì con gran furore
     Sopra di l’elmo, a forza sì diversa,
     Che ’l paladin, che avea tanto vigore,
     Ha il sentimento e la memoria persa;
     E per la passïone e gran dolore
     Sopra le croppe tutto si riversa;
     E for de l’arcion tanto se disserra,
     Che ogniom credette che l’andasse a terra.

25 E non fu più giamai leon ferito,
     Né drago acceso tanto velenoso
     Come divenne Orlando risentito;
     E ben mostrava in viso furïoso,
     Ché non era a quel colpo sbigotito,
     Ma più fier divenuto ed animoso;
     Verso Ranaldo lasciò un colpo crudo,
     E più del terzo gli tagliò del scudo.

26 Rotto a traverso il scudo andò nel prato,
     Né in questo resta la tagliente spada,
     Ma la maglia gli strazia dal costato,
     E convien che ogni piastra a terra vada.
     La zuppa e il camison tutto è straziato,
     Par che ogni cosa Durindana rada,
     Sì spezza usbergo ed ogni guarnisone;
     E feritte nel fianco il fio de Amone.

27 Ma non se avide alor de la ferita,
     Tanto era riscaldato alla battaglia;
     Ferisce al conte quella anima ardita,
     De cima al fondo il scudo gli sbaraglia.
     Ogni piastra de usbergo ebbe partita,
     E tutto il panciron fraccassa e smaglia;
     E se non fusse che il conte è fatato,
     Gran piaga gli avria fatto nel costato.

28 S’io conto tutti i colpi ad uno ad uno,
     Che facean sempre foco e le faville,
     Verrà la sera e il cel si farà bruno,
     Perché furon i colpi più di mille;
     Sì ch’io nol dico, e può pensar ciascuno
     Che non Ettor di Troia e non Achille,
     Né Ercole il grande, né il forte Sansone
     Potrian con questi star al parangone.

29 E qual misèr Tristano e qual Gallasso,
     Qual altro cavallier de la ventura
     D’un tanto travagliar non serìa lasso,
     Per l’estrema battaglia orrenda e dura?
     Ché sempre combattero a gran fraccasso
     Da sol nascente insino a notte oscura,
     Né mai chiesen riposo a quel furore,
     Ché l’un de l’altro crede esser megliore.

30 Ed era il ciel de stelle tutto pieno
     Prima che alcun parlasse del partire,
     Però che aveano al cor tanto veleno,
     Che se credean l’un l’altro far morire.
     Poi che la luce venne al tutto meno,
     Restarno, per vergogna, di ferire,
     Perché in quel tempo combattere al scuro
     Opra non era di baron sicuro.

31 Diceva Orlando: - Pôi ringrazïare
     Il giorno che è partito, e il vivo sole,
     Che alquanto t’ha la morte a indugïare,
     E certamente me ne incresce e dole. -
     Dice Ranaldo: - Ciò lasciamo andare:
     Io vo’ che meco vinci di parole;
     Ma già di fatto vantaggio non hai,
     Né creder, fin ch’io viva, averlo mai.

32 E fino ad ora io sono apparecchiato
     (Per mostrar ch’io non ho di te paura)
     Di trare al fin lo assalto cominciato,
     Ch’io non te stimo, o giorno, o notte oscura. -
     Rispose il conte: - Ladro, scelerato,
     Che pur convien mostrar la tua natura,
     Come sei uso, tristo, doloroso,
     Far guerra al scuro, nel bosco nascoso.

33 Io vo’ teco azzuffarme al giorno chiaro,
     Perché tu vedi il tuo dolor palese,
     E che prender non possi alcun riparo,
     Né fuggirti da me, né far diffese. -
     Disse Ranaldo: - Adunque e’ m’è ben caro
     Esser tanto lontano al mio paese,
     Per non dar quel dolore al duca Amone,
     Poi che morir convengo a ogni rasone.

34 Io so combatter nel bosco nascoso,
     E nel monte alto e all’aperta pianura,
     E fo battaglia al giorno luminoso,
     Matina e sera e ne la notte scura.
     Or tu sei solo al mondo glorïoso,
     Ed hai de l’onor tuo cotanta cura,
     Che non combatti se no’ al sole altiero,
     Credendo altrui smarir col tuo quartiero. -

35 Stavan gli altri baroni a lor d’intorno,
     Quei de la rocca e quei de la regina,
     Che avean lasciata sua battaglia il giorno
     Per mirar de costor l’alta ruina.
     Tra questi fo ordinato far ritorno
     Sopra quel campo ne l’altra matina,
     E diffinir la ultima battaglia,
     Chi più de ardire e di possanza vaglia.

36 Così tornorno questi nel girone,
     Orlando, dico, e la sua compagnia;
     E gli altri ciascadun al pavaglione.
     Or suonar trombe e gran corni se odìa,
     Diversi cridi de istrane persone;
     Ed alti fuochi al campo se vedia,
     E per le mura d’intorno alla rocca
     Spesse lumere; e la campana ciocca.

37 Angelica, di dame accompagnata,
     Venne a trovare Orlando paladino
     Dentro alla zambra ricca ed apparata:
     Quivi ha frutti, confetti e bon vino.
     La sopravesta il conte avea stracciata,
     E rotto il scudo d’ôr da l’armelino,
     E perduto il cimier del dio d’amore,
     Unde di doglia gli crepava il core.

38 Ed aveva tal doglia nel pensiero,
     Che non sa dir se egli è morto né vivo,
     Se quella dama chiedesse il cimiero,
     O domandasse come ne fo privo.
     Ma de ciò dubitar non fo mestiero,
     Ché lei, ad antiveder troppo cativo,
     Ciò che vedeva che al conte gradava,
     Quel gli chiedeva, e sol di ciò parlava.

39 Ma, così ragionando con diletto
     De la battaglia che era stata al piano,
     Non so come, ad Orlando venne detto,
     Che là giuso era il sir de Montealbano.
     La dama se commosse nello aspetto,
     Odendol nominare a mano a mano;
     Ma come quella che era saggia e trista,
     Coperse il suo pensier con falsa vista.

40 E disse al conte: - Io ho malenconia,
     Ché oggi stetti a le mura tutto ’l giorno,
     E mai tra gli altri io non te cognoscia,
     Cotanta gente ti stava d’intorno.
     Ma se volesse la ventura mia
     Che una sol fiata, de tutte arme adorno,
     Io te vedessi bene adoperare,
     Dio d’altra cosa non voria pregare.

41 Benché spietata sia Marfisa e dura,
     Io certamente pur voglio provare
     Se per un giorno mi farà sicura,
     Tanto ch’io possa una zuffa mirare;
     E solo or penso a cui doni la cura
     Che vada la salvezza ad impetrare.
     Qual serà quel che a lei ne vada avante?
     Io mandarò lo ardito Sacripante. -

42 Così fu dimandato incontinente
     Re Sacripante ad Angelica bella.
     Questo avea il core e le medolle ardente
     D’amor soperchio per quella donzella,
     Come odireti nel libro sequente.
     Or, seguitando la nostra novella,
     La dama, ragionando a lui, divisa
     Quel che impetrar desidri da Marfisa.

43 E lui se parte, ed al campo se accosta,
     Benché sia oscuro il cel, come io vi conto;
     E fece alla regina la proposta,
     Come davante a lei fo prima gionto.
     Ebbe subito grata e tal risposta,
     Qual seppe dimandare a ponto a ponto;
     La littra è suggillata, e con bel dire
     Fu ogniom securo al ritornare e al gire.

44 Ogni stella del celo era partita,
     Fuor quella che va sempre al sol davante;
     E la rugiada per l’aria fiorita
     Se vedea cristallina e lustrigiante;
     Il celo, a la bell’alba ora apparita,
     D’oro e di rose avea preso sembiante;
     E, per dir questo in simplice parole,
     La notte è gita e non è gionto il sole,

45 Quando la dama, mossa di quel caldo
     Che agiaccia l’intelletto ed arde il core,
     De Angelica dico io, che per Ranaldo
     Se consumava nel foco d’amore,
     Fuora del letto se levò di saldo;
     E non aspetta il giorno o il suo splendore,
     Ché ogni altro tempo li par speso invano
     Fuor che a vedere il sir de Montealbano.

46 E poi che seppe, come io ve contai,
     Che esso nel campo al basso dimorava,
     Tutta la notte non dormì giamai,
     Né prese possa, e sol di lui pensava.
     Sperando in zoia e sospirando in guai
     L’alba serena e il bel giorno aspettava,
     Però che ogni sua voglia e suo desire
     È di veder Ranaldo, e poi morire.

47 Ma il conte Orlando, senza altro pensiero,
     Era dormendo nel letto colcato,
     E sempre, in sogno, quello animo fiero
     Stava alla zuffa del giorno passato;
     Né credo che sia al mondo cavalliero
     Che non si fosse alquanto spaventato
     Mirando il conte in quel sonno dissolto,
     Tanto feroce e orribile è nel volto.

48 La damigella venne a lui soletta,
     E ponto non l’ardiva risvegliare;
     Ma come fa qualunche il tempo aspetta,
     Che l’ora un giorno, e il giorno un mese pare,
     Così la dama, che avea maggior fretta
     Che ’l conte Orlando assai de cavalcare,
     Or col viso suave, or con la mano,
     Svegliò, toccando, il cavallier soprano.

49 - Su, - disse ella - baron! Non più dormire,
     Ché da ogni parte già se scopre il giorno;
     Io me levai, ché me parve de odire
     Là giù nel campo al basso uno alto corno;
     E perché io voglio con teco venire
     E, se a Dio piace, far teco ritorno,
     Son venuta a svegliarti per me stessa;
     E da te voglio un dono in tua promessa. -

50 Il conte al suo bel viso remirando
     Tutto se accese de amoroso foco,
     E la dama abracciò tutto tremando,
     Benché soletti fussero in quel loco.
     Dicea la dama: - Io son al tuo comando;
     Ma se me ami, barone, aspetta un poco,
     Ché quel ch’io dico per farti sicuro,
     Su la mia fede ti prometto e giuro.

51 Io ti prometto che a ogni tuo volere
     Soletta in questo loco, come io sono,
     Ti lasciarò di me prender piacere,
     Se me prometti ed attendi un sol dono,
     Perch’io voglio comprendere e vedere
     Stu me ami come mostri in abandono;
     E quel ch’io voglio e quel ch’io ti dimando,
     È una battaglia sola al mio comando.

52 Ma se tu forse sei tanto inumano,
     Che prenda il tuo piacere al mio dispetto,
     Tenuto ne sarai sempre villano,
     E tornarate in pianto quel diletto,
     Perch’io me occiderò con la mia mano,
     E passaromme in tua presenza il petto;
     Sì ch’in te solo e in tuo arbitrio dimora
     Se vôi ch’io mora, o vôi che viva ancora. -

53 Al fin delle parole lacrimando
     Abassò il viso con molta pietate;
     Non puotè più soffrire il conte Orlando,
     Ma più di lei piangeva in veritate;
     E con somessa voce ragionando,
     Sempre chiedea perdon con umiltate,
     Dando la colpa del passato errore
     Al core ardente ed al superchio amore.

54 Poi l’un promesse a l’altro in sacramento
     Di servar le dimande tutte a pieno.
     Il lume della luna era già spento,
     E il sole uscia del mare al ciel sereno,
     Quando quel cavallier pien de ardimento,
     Che mai di sua bontà non venne meno,
     Per provvederse alla cruda battaglia
     Tutto di piastra si copre e di maglia.

55 E benché fusse d’animo virile
     E non temesse il mondo tutto quanto,
     Pur tutte l’arme guarda per sotile,
     Ambedue le scarpette e ciascun guanto,
     Ché ben cognosce il cavallier gentile
     Che ’l suo inimico si donava il vanto
     D’alta prodezza in ogni baronaggio;
     Però non vôl ch’egli abbia alcun vantaggio.

56 Poi che di piastra fu tutto coperto
     Ed ebbe il suo bon brando al fianco cinto,
     Angelica la bella gli ebbe offerto
     Un cimiero alto e un scudo d’ôr destinto.
     Era il cimiero uno arboscello inserto,
     E il scudo a tale insegna ancor dipinto.
     L’elmo s’allaccia quel baron soprano,
     Monta a destriero e prende l’asta in mano.

57 Li altri, per fare ad esso compagnia,
     Senza arme in dosso giù calarno al piano;
     Quivi Aquilante e Grifon se vedìa,
     Brandimarte vien presso e il re Ballano;
     Il conte dopo questi ne venìa,
     Ed Angelica seco a mano a mano
     Sopra d’un palafren bianco ed amblante;
     Il re Adrïan vien dietro e Sacripante.

58 Rimase nella rocca Galafrone,
     E seco Chiarïon, che era ferito.
     Or diciamo de Orlando campïone:
     Come fo gionto nel prato fiorito,
     Sonando il corno sfida il fio d’Amone,
     Qual già nella campagna era apparito
     Tutto coperto a piastra e maglia fina;
     E seco al par Marfisa la regina.

59 Lei senza l’elmo el viso non nasconde:
     Non fu veduta mai cosa più bella.
     Rivolto al capo avea le chiome bionde,
     E gli occhi vivi assai più ch’una stella;
     A sua beltate ogni cosa risponde:
     Destra ne gli atti, ed ardita favella,
     Brunetta alquanto e grande di persona:
     Turpin la vide, e ciò di lei ragiona.

60 Angelica a costei già non somiglia,
     Che era assai più gentile e delicata:
     Candido ha il viso e la bocca vermiglia,
     Suave guardatura ed affatata,
     Tal che a ciascun mirando il cor gli empiglia:
     La chioma bionda al capo rivoltata,
     Un parlar tanto dolce e mansueto,
     Ch’ogni tristo pensier tornava lieto.

61 Questa ne andava con Orlando a mano,
     Come poco di sopra io ve ho contato;
     E quella col segnor de Montealbano,
     Che incontra gli venìa da l’altro lato,
     Con l’arme in dosso sopra Rabicano.
     Torindo e il duca Astolfo disarmato,
     Prasildo e Iroldo pien di vigoria,
     Fanno a Ranaldo onore e compagnia.

62 Ma poi che fôrno gionti a i verdi prati,
     Ciascun si stette dal suo lato alquanto;
     Suonando il corno si fôrno sfidati
     Quei duo che han di prodezza al mondo il vanto.
     Pregovi, bei segnor, che ritornati
     Ad ascoltarme nel seguente canto,
     Perché de l’altre zuffe ch’io contai
     Questa è più fiera ed è maggior assai.