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Disegni - I due vecchi

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DUILIO CAMBELLOTTI

[p. 90 modifica] [p. 91 modifica] È[p. 93 modifica] A Shelley, il mondo liberato!

Così — ma con maggior forza di generoso desiderio, che reale corrispondenza di cose - lo scultore Carlo Fontana ha scritto sul bozzetto del monumento da inalzarsi a Shelley, in San Terenzo; di là, donde il Cuor dei Cuori partì per quella favolosa «isola delle belle, isola degli eroi, isola dei poeti» ove, - solo tra i moderni! - parve al Carducci fosse degno entrare questi che egli chiamò «spirito di Titano, entro virginee forme».

Delle opere di Percy Bysshe Shelley, in una rivista come «Novissima» destinata naturalmente ad andare per le mani della parte più eletta e più colta della patria, sarebbe non ozioso, ma certo difficile il dire degnamente, dato i termini di spazio assegnatici. Le opere di Shelley fanno parte della grande poesia mondiale; cantano tutto ciò che è primigenio, continuo ed immortale nell’anima umana, dalla ribellione contro tutto quello che è forza bruta e prepotente, superstizione e religione, frode e bassezza, dalla più alta e trascendentale filosofia, sino al sorriso di due labbra di rosea fanciulla, sino all’umile pianticella che cresce povera ed ignorata tra il lussuoso splendore dei suoi ridenti fratelli di aiuola.

Allorquando Orazio diceva di sè stesso che la sua fama sarebbe durata sino a che la tacita vergine avrebbe salito col sacerdote il Campidoglio, non pensava certo che questa sua orgogliosa auto-apoteosi sarebbe stata superata da millenni di gloria: - così quando fu detto che la poesia di Shelley durerà sino a tanto che si parlerà la lingua inglese, non si pensò che potrà forse venire un giorno in cui la lingua inglese suonerà così diversa dalla odierna come ora l’italica dalla latina, ma che anche allora la poesia di Shelley sarà cercata, studiata, interpretata, ammirata come oggi, perchè essa fa parte di ciò che solo v’ha di immortalmente bello nella vita: il sentimento umano. Ed a me torna ora qui in mente — per affinità di pensiero non del tutto casuale — quello che Giovanni Pascoli dice della poesia: «In verità la poesia è tal meraviglia che se voi fate una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila anni sono».

Shelley fu a lungo misconosciuto. — Come il poema di Lucrezio paurosamente bandito dalle scuole e dalle biblioteche del prete, pauroso di discussione, indagine e verità, così Shelley fu a lungo perseguitato da tale una satanica fama di immoralità di vita e di opere che la società, dopo averlo messo al bando, aveva quasi finito con l’obliarlo. Ora il suo tempo è venuto. Ed è bene - adesso che di lui più si parla e si scrive, ora che la geniale e generosa idea del monumento ha trovato aderenze di entusiasmo, di arte e di mezzi, - che si sappia e si ripeta qualchecosa dei tratti salienti della sua vita e dei particolari a lungo mal noti della sua morte. [p. 94 modifica]Shelley fu de’ pochi poeti che ebbero poetica la vita; sì sé potrebbe anzi dire che tutta la sua vita fu una lirica continuata ed inspirata alle idee da lui difese od avversate ne’ suoi poemi; e come altamente lirica fu la sua vita, così tragicamente poetica ne fu la morte. Nato con la rivoluzione francese (Field Place, presso Londra, 1792), egli dovè bere - quantunque di nascosto dal padre, superbo baronetto inglese, e dalla società reazionaria e formalistica dell’Inghilterra di allora- il liquore inebriante e vivificante delle teorie rivoluzionanie.

Entrato a 16 anni nel collegio di Oxford, ne fu cacciato per avere scritto quella sua Mecessità dell’ateismo che nè l’autorità del rettore del collegio, nè la solennità dell’arcivescovo di Cantorbery riuscirono a fargli sconfessare.

Contrario al giuramento, alle formule legali e religiose del matrimonio, nemico delle differenze di grado e di sangue, sposa - lui figlio di un baronetto inglese! — una giovinetta figlia di un oste, ma le dichiara che egli non dà alcun valore morale a queste formule del prete e del sindaco, alle quali si sottomette solo per meglio affermare il suo atto davanti ai parenti ed al mondo.

Socialista in anticipazione di una buona metà di secolo, egli titola di ingiustizia sociale e di immorale il principio dell’eredità pecuniaria, e il giorno in cui ridotto solo e povero come Giobbe gli viene offerta, dal padre impietosito, una rendita di 50,000 franchi all’anno, rappresentata da un capitale di 120,000 sterline, a condizione però che egli trasmetterà il capitale sulla testa del suo primo figlio nascituro, egli scoppia in un rifiuto indignato e scrive ad una sua amica, miss Hitchener, delle parole che è bene riportare, perchè ove Shelley non avesse all’attivo dell’ammirazione umana che questo gesto, questo dovrebbe bastare a far noto e rispettato il suo carattere. «Ah! — egli grida - vecchi rimbambiti! Con quale faccia possono essi farmi una proposta così insultante, così odiosa! Che io debba assegnare un capitale di 120,000 sterline a qualcuno che io non conosco ancora e che invece di essere il benefattore dei suoi simili potrebbe esserne il flagello... No! Voi non me ne supponete capace, non è vero?»

Ah! Io non voglio qui parlare degli uomini in generale presso dei quali voi potrete sempre trovare chi per un’idea sia pronto più presto a dar la vita che la borsa, ma io parlo dei poeti, che rappresentano la parte ideale dell’umanità, che portano il nome che l’Alighieri ha detto esser quello che più dura e più onora, e cerco e cerco nella mia mente il nome di quale tra quelli che più amo e venero sarebbe stato capace di questo piccolo gesto di cui Shelley non parlò mai, seguitando a sopportare ancora a lungo il morso assiduo della miseria, e che rimase ignorato fuori della cerchia delle mura familiari e non ebbe nè il plauso nè il fremito approvatore della folla.

Ma tutto fu luce e poesia, e bontà e disinteresse, in questo giovinetto cacciato dalla scuola, in questo giovine misconosciuto dalla famiglia, in questo pazzo Shelley messo al bando della buona società inglese e le cui opere furono chiamate sataniche.

Egli ebbe, durante tutta la sua così piccola vita, tratti di carità così ardente, che andavano dagli uomini tutti sino alle bestie, che talvolta viene involontariamente fatto di rassomigliarlo al mistico fraticello di Assisi.

Povero, quando avrebbe potuto esser ricco, donava il suo poco con tale assenza di pensiero egoistico che ogni volta che donava, il donato diveniva necessariamente più ricco del donatore.

Io insisto su questo lato del carattere di Shelley perchè è bene che si sappia - anche oggi! - che si può avere il cuore generoso e buono e aperto ad ogni più tenero sentimento di carità ed altruismo anche senza credere in Dio — si chiami Jeova, Zeus o Giove o altrimenti e senza aspettarne la centuplicata paradisiaca rimunerazione, di cui forse i preti insegnarono primi la formola al povero pezzente che stende la mano.

Che se poi nella religione si vuol vedere qualchecosa di più nobile che le rigide formalità del culto, allora è ingiusto dire che Shelley non avesse religione. Egli ebbe un’alta religione, ben migliore di quella per cui si bruciano gli incensi in chiesa e gli uomini sulle piazze; egli ebbe una religione a base della quale invece della fede era posta la carità.

Allorquando Shelley si trovava a Marlow, egli fu colpito dalla miseria degli abitanti, e miss Madocks, incaricata da lui di distribuire le elemosine, cinquant’anni dopo la morte del poeta, gli rendeva questa testimonianza: «Ogni luogo che egli ha visitato è sacro; egli portava raramente del denaro sopra di sè, ma noi ricevevamo dei numerosi biglietti, scritti [p. 95 modifica]talvolta su pagine di libri, che ci dicevano di pagare al portatore la somma scritta, e un giorno in cui egli non aveva né carta per scrivere nè denaro egli rientrò in casa senza scarpe perchè le aveva date ad un povero. La sua carità si estendeva sino agli animali: se per via egli incontrava un pescatore, gli comperava il paniere di gamberi per rigettarli nel Tamigi.

In altri queste cose sembrerebbero della posa, ma le anime come Shelley sono oltre il sospetto.

Shelley sosteneva che il male non esiste nell’uomo che in quanto egli lo vuole; sosteneva che l’uomo, evolvendosi, sarebbe riuscito a cacciarlo dalla psiche umana, e, come sempre, uniformava la sua teoria alla sua vita. E per quanto breve questa sia stata, noi non possiamo qui nemmeno riassumerla: ma qualunque dissenzione filosofica o politica si possa avere con lui, non possiamo fare a meno se di cuore sinceri di ammirarlo ed amarlo.

Sia che egli proclami coraggiosamente le sue teorie filosofiche e sociali, sia che egli passi sopra i pregiudizi di sangue e di casta, sia che sacrifichi il suo benessere alle sue idee, sia che soccorra i poveri, sia che vada in Irlanda a sostenere la causa della libertà, sia infine che egli canti i canti più puri ed alati di tutta la lirica inglese, Shelley è tale che non può non percuotere di ammirazione l’anima nostra.

La morte:

Nessuno come Shelley fece mai tanto vero il verso di Menandro che il povero Leopardi metteva a motto di una delle sue più sconfor tate canzoni: «Muor giovine colui che al cielo è caro».

E se la vita di Shelley ci appassiona ed attira come tutto quello che appartiene al genio ed alla bontà, la sua morte interessa particolarmente noi italiani per i luoghi e le circostanze in cui si svolse.

Le quali circostanze, che hanno la poetica terribilità di un dramma, sarebbero state forse dimenticate ove gli ammiratori di lui - ed oramai sono legione anche in Italia - non ne avessero con sottile ed amorosa opera di pazienza ricercato ogni particolare.

Un episodio della giovinezza di Shelley non può fare a meno di tornare alla mente, leggendo della sua tragica fine. Il Dowden racconta che Shelley, giovinetto, se ne stava per ore ed ore costruendo delle piccole barchette di carta, di quelle che i bambini sanno fare, e gioiva a veder poi correre correre giù giù e perdersi. per il largo stagno brumoso della Valle di Health, la sua candida, piccola flottiglia. Forse da questo puerile divertimento sbocciò allora nell’animo del poeta quella passione per il mare che doveva essere la tragedia della sua vita.

Nel 1° di maggio del 1822, Shelley, dopo un lungo girovagare per l’Italia, era venuto a stabilirsi a San Terenzo, nel golfo lunato della Spezia, uno de’ più vari, de’ più ridenti, di tutta la terra.

Shelley aveva allora ventinove anni, ma ne dimostrava appena venti. Era un giovine alto, stranamente flessibile sulla vita, dal sorriso e gli occhi ingenui e pensosi ad un tempo, mite e modesto come una fanciulla, imbarazzato negli atti e nel dire. Nessuno, vedendolo, avrebbe mai presupposto in lui il satanico autore della Necessità dell’ateismo, della Refutazione del deismo, della michelangiolesca concezione del Prometeo liberato, l’uomo che firmava nell’albo della certosa di Montevert, in Isvizzera:

"Εἰμι φιλάνθρωπος δημοκράτικός τ' ἄθεος τε;"

uno di quegli uomini, insomma, che portano nella loro testa una mina per l’ordine sociale del loro tempo.

A San Terenzo, dunque, col 1° maggio del 1822 egli prese in affitto una casa il cui portico si apriva immediato sul mare, tanto che quando le onde del golfo erano irritate venivano a rompersi contro di essa e l’investivano quasi sino al primo piano abitato.

«Più nave, che casa», la chiama Paolo Mantegazza. Erano con Shelley la moglie Mary - che fu il vero rifugio dell’anima sua dopo che la prima l’ebbe abbandonato e tradito prima di suicidarsi ed erano anche con lui l’amico carissimo Williams e la moglie Jane. Il Byron con la Guiccioli e Pietro Gamba, e il Trelawny e il capitano Roberts, tutti in quel tempo residenti a Pisa insieme o in continua frequenza col poeta di Don Juan, erano da principio d’accordo di far parte della villeggiatura con lo Shelley e il Williams. Ma l’altezzoso modo di fare, la condotta di lord Byron e soprattutto la maniera con cui aveva trattato la sua povera parente ed ex-amante Clara Clermont e il frutto di questo amore, la figliuoletta Allegra, rinchiusa e [p. 96 modifica]Non a Shelley - che nel tempio della gloria si innalzava già da sè stesso quell’ideale monumento, aere perennius, che non varranno a screpolare il vento il gelo o la furia degli anni - ma allo shelleysmo.

Come la terza Roma ha innalzato il suo monumento al filosofo del libero pensiero, così noi - là in faccia al libero mar ligure, che sorrise così azzurro di ideali alla giovinezza di Colombo, di Garibaldi e Mazzini, - vogliamo innalzarne uno al poeta; al poeta ed in una a quello che è il capolavoro e il simbolo del suo pensiero: a Prometeo.

Il monumento colossale, alto 14 metri, sorgerà addossato ad una rupe, coi piedi nel mare, in faccia a Casa Magni, e rappresenterà Prometeo che incide col fulmine sul macigno: A Shelley, il mondo liberato!

Constatazione ed augurio.

L’enorme blocco di marmo che lo formerà, e che da solo rappresenta una cifra che difficilmente si sarebbe raccolta in lungo tempo, sarà donato e posto sul luogo da Carlo Andrea Fabbricotti; Carlo Fontana scultore dà l’opera; gli ammiratori di Shelley e del suo pensiero daranno il poco che occorrerà ancora. Le offerte si raccoglieranno presso Sebasti e Reali, qui in Roma.

A noi intanto è piaciuto che l’annuncio solenne di questa nuova cosa partisse dalle colonne di «Novissima».

SANTE BARGELLINI

SCULTORE CARLO FONTANA ROMA

BOZZETTO DEL MONUMENTO A SHELLEY

[p. 97 modifica] — ... Un morto, che pure è un morto, vuole anche lui la casa; e se è un morto per bene, anche bella la vuole; ed ha ragione: da starci comodo, e di marmo la vuole, e decorata; e se può spendere, la vuole anche con qualche profonda allegoria d’un grande scultore come me, e con una bella lapide latina: HIC JACET... chi fu e chi non fu; e con un bel giardinetto attorno, la vuole, con l’insalatina, e una bella cancellata attorno pei cani e pe...

— M’hai seccato! - urlò, voltandosi tutto acceso in faccia e in sudore, Costantino Pogliani.

Ciro Colli levò la testa dal petto, con la barbetta a punta ridotta ormai, a furia di torcerla, un gancio, e stette un pezzo a guardarlo di sotto al cappelluccio a pan di zucchero che teneva appoggiato sul dorso del naso.

— Asino, -disse poi, placido e con profonda convinzione. - Sto parlando come un nume...

Stava seduto quasi su la schiena, con le gambe lunghe distese, una qua, una là, sul tappetino che il Pogliani aveva già bastonato ben bene e messo in ordine innanzi al canapè.

Sentiva. finirsi lo stomaco Costantino Pogliani nel vederlo sdraiato lì, mentr’egli s’affannava a rassettar lo studio, disponendo i gessi in modo che facessero bella mostra, buttando indietro i bozzettacci ingialliti e polverosi, che erano ritornati sconfitti dai concorsi, portando avanti con precauzione i cavalletti coi lavori che avrebbe potuto mostrare, nascosti ora da pezze bagnate. E sbuffava.

— Insomma, te ne vai, sì o no?

— No.- gli rispose il Colli, come se gli avesse detto sì. E il Pogliani, venendogli innanzi:

— Non mi sedere almeno lì sul pulito, santo Dio! O ti caccio via a pedate?

— Questa sarebbe un’ottima idea, ma inattuabile - gli rispose Ciro Colli senza scomporsi minimamente.

— Come te lo devo dire che aspetto signore, signore, signore...

— Non ci credo.

— Te lo giuro, guarda, ti faccio leggere la lettera che ho ricevuto ieri dal commendator Seralli. Qua, eccola:

«Egregio amico,
L’avverto che domattina, verso le undici»...

— Ah! Sono già le undici? [p. 98 modifica]

— Passate! — Non ci credo. Seguita a leggere.

— «verranno a trovarla nello studio, indirizzate da me, la signora Con»... guarda, come dice qua?

— Confucio.

— Che Confucio! Cont o Consalvi, non si legge bene, «è la figliuola, le quali hanno bisogno dell’opera sua. Sicuro che», ecc., ecc.

— Non te la sei scritta da te, codesta lettera? - domandò Ciro Colli, riabbassando la testa sul petto.

— Imbecille! - esclamò, gemette quasi, il Pogliani, che, nell’esasperazione, non sapeva più se piangere o ridere.

TI Colli alzò un dito e fece segno di no.

— Non me lo dire. Me n’ho per male. Perchè, se fossi imbecille, ma sai che personcina a modo sarei io? ben vestito, ben calzato e con una bella cravatta elioprò ... eliotrò ... come si dice? tropio e il panciotto di velluto come il tuo... Ah, quanto mi piacerei col panciotto di velluto! Senti, facciamo così. Te lo dico per il tuo bene. Se è vero che codeste signore Confucio devono venire, rimetti in disordine lo studio, o si faranno un pessimo concetto di te. Sarebbe meglio che ti trovassero anche intento al lavoro, col sudore... come si dice? col pane... insomma col sudore del pane della tua fronte. Piglia un bel tocco di creta, schiaffalo su un cavalletto e comincia alla brava un bozzettuccio di me così sdraiato. Lo intitolerai Lottando, e vedrai che te lo comprano subito per la Galleria Nazionale. Ho le scarpe... non tanto nuove; ma tu, se vuoi, puoi farmele anche novissime, perchè come scultore - non te lo dico per adularti-sei un bravo calzolaio...

Costantino Pogliani, intento ad appendere alla parete due cartoni, lo lasciava dire. Per lui, il Colli era un disgraziato fuori della vita, un ozioso ostinato superstite d’un tempo già tramontato, d’una moda già smessa tra gli artisti: sciamannato, incolto, noncurante, infingardo... Peccato veramente, perchè poi, quand’era in tempera di lavorare, poteva dar punti ai migliori. E lui, il Pogliani, lo sapeva bene, chè tante volte, li nello studio, con due tocchi di pollice impressi con energica sprezzatura s’era veduto metter su d’un tratto qualche abbozzo che gli cascava di stento. Ma avrebbe dovuto studiare, almeno un po’ di storia dell’arte, ecco, e regolar la propria vita, avere un po’ di cura della persona: così cascante di noia e con tutta quella trucia addosso, era inaccostabile, via! Lui, il Pogliani... ma già lui aveva fatto finanche due anni d’università, e poi... signore, si vedeva.

Due discreti picchi alla porta lo fecero saltare dallo sgabello su cui era montato per appendere i cartoni.

— Son loro! E adesso? - disse al Colli, mostrandogli le pugna.

— Loro entrano ed io me ne vado, - rispose il Colli, senza levarsi. - Ne stai facendo un caso pontificale! Del resto, potresti anche presentarmi, pezzo d’egoista!

Costantino Pogliani corse ad aprir la porta, rassettandosi su la fronte il bel ciuffo biondo riccioluto.

Prima entrò la signora Consalvi, poi la figliuola: questa, in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo di crespo e con in mano un lungo rotolo di carta; quella, vestita d’un bell’abito grigio chiaro, che le stava a pennello su la persona giunonica. Grigio l’abito e grigi i capelli, giovanilmente acconciati sotto un grazioso cappellino tutto contesto di violette.

La signora Consalvi dava a veder chiaramente che si sapeva ancor fresca e bella, ad onta dell’età. Poco dopo, sollevando il crespo sul cappello, non meno bella si rivelò la figliuola, quantunque palliduccia e dimessa nel chiuso cordoglio.

Dopo i primi convenevoli, il Pogliani si vide costretto a presentare il Colli che era rimasto lì con le mani in tasca, una [p. 99 modifica]sigaretta in bocca, il cappelluccio ancora sul naso, e non accennava d’andarsene.

— Scultore? - domandò allora la signorina Consalvi, invermigliandosi d’un subito per la sorpresa. — Colli... Ciro?

O Corocillo, già,- disse questi, togliendosi alla fine il cappello e scoprendo le folte ciglia giunte e gli occhi accostati al naso. E, se si vuole, perchè no? scultore.

— Ma mi avevano detto riprese, impacciata, contrariata, la signorina Consalvi che lei non stava più a Roma.

— Calunnie, rispose il Colli, - non ci creda! Propriamente, non sto nè a Roma, nè altrove. Passeggio... Stavo prima fisso a Roma, perchè avevo vinto la cuccagna; finiti i quattro anni del Pensionato, me ne tornai al paese; ma, poichè al paese non facevo nulla, sono ritornato a Roma, dove non faccio nulla lo stesso.

La signorina Consalvi guardò la madre che rideva, e disse:

— E ora come si fa?

— È una bella combinazione! - aggiunse la madre; poi, rivolgendosi al Pogliani: - Ma si rimedierà in qualche modo... Loro sono amici, non è vero?

— Amici, si rispose subito il Pogliani.

Ma il Colli:

— Non ci creda, sa? Mi voleva cacciar via a pedate...

— E sta’ zitto! - gli diede su la voce il Pogliani. - Prego, signore, s’accomodino. Di che si tratta?

— Io me ne posso andare, disse Ciro Colli.

— No, no, pregò la signorina in gramaglie. - É bene che lei rimanga, scusi.

— Ecco di che si tratta, cominciò la signora Consalvi, sedendo. La mia povera figliuola ha avuto la sciagura di perdere improvvisamente il fidanzato...

— Ah, si? — Oh!

— Terribile. Proprio alla vigilia delle nozze, si figurino! Per un accidente di caccia. Forse loro l’avranno letto su i giornali. Giulio Sorini...

— Ah, Sorini, già! - disse il Pogliani. - Che gli esplose il fucile?

— Su i primi del mese scorso. Il poverino era un po’ nostro parente... figlio d’un mio cugino, che se n’andò in America dopo la morte della moglie. Ora, ecco, Giulietta (perchè si chiama Giulia anche lei)...

Un bell’inchino da parte del Pogliani.

— Giulietta, - seguitò la madre, - avrebbe pensato d’innalzare un monumento nel Verano alla memoria del fidanzato, che si trova provvisoriamente in un loculo riservato; e avrebbe pensato di farlo in un certo modo... Perchè lei, mia figlia, ha avuto sempre veramente una grande passione per il disegno...

― No... cosi... - interruppe, timida, con gli occhi bassi, la signorina Consalvi. - Per passatempo... ecco...

― Scusa, se il povero Giulio anzi voleva che prendessi lezioni...

― Mamma, ti prego... - insistè la signorina. - Io ho veduto in una rivista illustrata il disegno d’un monumento funerario del signore qua... del signor Colli, che mi è molto piaciuto, e...

- Ecco, già, appoggiò la madre, per venire in aiuto alla figliuola che si smarriva.

― Però, soggiunse questa, con qualche modificazione lo avrei pensato io...

― Scusi, qual’è?- domandò il Colli. - Ne ho fatti parecchi, io, di questi disegni, con la speranza di aver qualche commissione dai morti, visto che i vivi...

― Lei, scusi, signorina, - interloqui il Pogliani, un po’ piccato nel vedersi messo così da parte, - ha ideato un monumento su qualche disegno del mio amico? [p. 100 modifica]— No, precisamente, no, ecco, - rispose, vivacemente la signorina. - Il disegno del signor Colli rappresenta la Tera che attira la Vita, se non sbaglio...

— Ah, ho capito! - esclamò il Colli. - Uso scheletro col lenzuolo, è vero? che s’ indovina appena, rigido, tra le pieghe, e ghermisce la Vita, un bel tocco di figliuola che non ne vuol sapere... sì, sì... Bellissimo! Ho capito.

La signora Consalvi non potè tenersi di ridere di nuovo, ammirando la sfacciataggine di quel bel tipo.

— Modesto, sa? - disse il Pogliani alla signora. - La modestia è la sua principale virtù.

— Su, Giulia, - fece la signora Consalvi, levandosi. - Forse è meglio che tu faccia vedere senz'altro il disegno.

— Aspetta, mamma, - pregò la signorina. — È bene spiegarci prima col signor Pogliani, francamente. Quando mi nacque l’idea del monumnento; devo confessare che pensai subito al signor Colli. , per via di quel disegno... ma mi dissero, ripeto, che non non stava più a Roma. Allora m'ingegnai di adattare da me il suo disegno all'idea e al sentimento mio, a trasformarlo, cioè, in modo che potesse rappresentare il mio caso e il proposito mio. Mi spiego?

— A meraviglia! - approvò il Pogliani.

— Lasciai - seguitò la signorina - le due figurazioni della Morte e della Vita, ma togliendo affatto la violenza dell’aggressione, ecco. La Morte non ghermisce... non ghermisce più la Vita; ma questa anzi, volentieri, rassegnata al destino, si sposa alla Morte.

— Si sposa?- fece il Pogliani, frastornato.

— Alla Morte!- gli gridò il Colli. - Lascia dire.

— Alla Morte, - ripetè con un modesto sorriso la signorina. - E ho voluto anzi rappresentare chiaramente il simbolo delle nozze. Lo scheletro sta rigido, come l’ha disegnato il signor Colli, ma di tra le pieghe del funebre paludamento vien fuori una mano che regge l’anello nuziale. La Vita, in atto modesto e dimesso, si stringe accanto allo scheletro e tende la mano a ricevere l’anello.

— Bellissimo! Lo vedo!- proruppe allora il Colli. - Questa è un’altra idea! splendida! un’altra cosa, diversissima!

— Ecco, sì - soggiunse la signorina, invermigliandosi di nuovo a quella lode impetuosa. - Credo anch'io che la concezione sia diversa. Ma è innegabile che ho tratto partito del disegno e che...

— Ma non se ne faccia scrupolo! esclamò il Colli. - La sua idea è molto più bella della mia, ed è sua! Del resto la mia... chi sa di chi era!

La signorina Consalvi alzò le spalle e abbassò gli occhi.

— Se devo dire la verità, - disse, scotendosi, la madre, - lascio fare la mia figliuola; ma a me l’idea non piace per nientissimo affatto!

— Mamma, ti prego... ripetè la figlia; poi volgenfodi Pogliani, riprese: - Ora, ecco, io domandai consiglio al commendator Seralli, nostro buon amico...

— Che doveva fare da testimonio alle nozze, - aggiunse la madre, sospirando.

— E avendoci il commendatore fatto il nome di lei, - seguitò l’altra, - siamo venute per...

— No no, scusi, signorina, - s’affrettò a dire il Pogliani. - Poichè Lei ha trovato qua il mio amico...

— Oh, fa'il piacere! Non mi seccare! - proruppe il Colli, scrollandosi furiosamente e avviandosi per uscire.

Il Pogliani lo trattenne a viva forza.

— Scusa, guarda... se la signorina ha pensato prima a te, non hai inteso? S'è rivolta a me, perchè ti sapeva fuori di Roma...

— Ma se ha cambiato tutto! esclamò il Colli, divincolandosi. - Lasciami! Che c'entro più io? È venuta qua da te! Scusi, signorina; scusi, signora, io le riverisco... [p. 101 modifica]— Oh, sai! - disse il Pogliani, risoluto, senza lasciarlo.

― Io non lo faccio; non lo farai neanche tu, e non lo farà nessuno dei due.

— Ma, scusino... insieme? - propose allora la madre. - Non potrebbero accordarsi?

— Sono dolente d’aver cagionato...-si provò ad aggiungere la signorina.

— Ma no!- dissero a un tempo il Colli e il Pogliani.

Seguitò il Colli:

— Io non c'entro più per nulla, signorina! E poi, guardi, non ho studio, non so più concluder nulla, altro che di dire male parole all’universo intero... Lei deve assolutamente costrin+gere quest’imbecille qua...

― inutile, sai ? - disse il Pogliani. - O insieme, come pro- pone la signora, o io non accetto.

— Permette, signorina? - fece allora il Colli, stendendo una mano verso il rotolo di carta ch’ella teneva accanto sul canapè. - Io mi muoio dal desiderio di vedere il suo disegno. Quando l'avrò veduto...

— Oh, non s’immagini nulla di straordinario, per carità! - premise la signorina Consalvi, svolgendo con mani tremolanti il rotolo. — So tenere appena la matita... Ho buttato giù quattro segni, tanto per render l’idea... Ecco...

— VESTITA?!- esclamò subito il Colli, come se avesse rice- vuto un urtone, guardando il disegno.

— Come... vestita?-domandò, timida e ansiosa, la signorina.

— Ma no, scusi! - riprese con calore il Colli. - Lei ha fatto la Vita in camicia... cioè, con la tunica, diciamo! Ma no, nuda, nuda, nuda, la Vita dev’esser nuda, signorina mia, che c'entra!

— Scusi, - disse con gli occhi bassi la signorina Consalvi. - La prego di guardare più attentamente.

— Ma sì, vedo, - replicò con maggior vivacità il Colli. - Lei ha voluto raffigurarsi qua, ha voluto fare il suo ritratto; ma lasciamo andare che Lei è molto più bella; qua siamo nel camposanto dell’arte, scusi, e questa vuol essere la bémol Vita che si sposa alla Morte. Ora, se lo scheletro è panneggiato, la Vita dev’esser nuda, c’è poco da dire, tutta nuda e bellissima, signorina, per compensare col contrasto la presenza macabra dello scheletro involto! Nuda, Pogliani, non ti pare? Nuda, è vero, signora? Tutta nuda, signorina mia! Nudissima, dal capo alle piante! Creda pure che altrimenti, così, verrebbe una scena d'ospedale: quello col lenzuolo, questa con l’accappatoio... Dobbiamo fare scultura, e non c’è ragioni che tengano!

— No no, scusi, - disse la signorina Consalvi, alzandosi con la madre. - Lei avrà forse ragione, dal lato dell’arte; non nego; ma io voglio dire qualche cosa, che soltanto così potrei espri- mere. Facendo come vorrebbe Lei, dovrei rinunziarvi.

— Ma perchè, scusi? perchè Lei vede qua la sua persona e non il simbolo, ecco! - disse il Colli.

— Appunto, - convenne la signorina: la mia persona, il mio caso, la mia intenzione. E penso anche al luogo dove il monumento dovrà sorgere, e mi sembra più conveniente che sia così. Non potrei transigere.

Il Colli allora aprì le braccia e s’insaccò ne le spalle.

— Opinioni!

— O piuttosto, - corresse la signorina, con gli occhi bassi e un mestissimo sorriso, - un sentimento da rispettare... ecco...

Stabilirono che i due amici si sarebbero intesi per tutto il resto col comm. Seralli, e poco dopo la signora Consalvi e la figliuola in gramaglie tolsero commiato.

Circa una settimana dopo, Costantino Pogliani si recò in casa Consalvi per invitar la signorina a qualche seduta per l’ab- bozzo della testa.

Dal comm. Seralli, amico molto intimo della signora Con- salvi, aveva saputo che il Sorini, sopravvissuto tre giorni allo [p. 102 modifica]sciagurato accidente, aveva lasciato alla fidanzata tutta intera la cospicua fortuna ereditata dal padre, e che però quel monumento doveva esser fatto senza badare a spese.

Epuisé s’era dichiarato il comm. Seralli delle cure, dei pensieri, delle noie che gli eran piombati addosso per quella sciagura; noie, cure, pensieri aggravati dal caratterino un po’... emporté della signorina Consalvi, la quale, sì, poverina, meritava veramente compatimento; ma pareva, buon Dio, si compiacesse troppo nel rendersi ancor più grave la pena. Oh, uno choc orribile, chi diceva di no? un vero fulmine a ciel sereno! È tanto buono lui, il Sorini, poveretto! Anche un bel giovine, sì. E innamoratissimo | L’avrebbe resa felice senza dubbio, quella figliuola. E forse per questo era morto.

Pareva anche che fosse morto e fosse stato tanto buono per accrescer le noie al comm. Seralli.

Ma figurarsi che la signorina non s’era voluta disfare della casa che egli, il fidanzato, aveva già messa su di tutto punto: un vero nido, un joli réve de luxe et de bien-étre. Ella vi aveva portato tutto il suo bel corredo da sposa, e stava lì, gran parte del giorno, non a piangere, no: a straziarsi fantasticando intorno alla sua vita di sposina così miseramente stroncata... arrachée ...

Difatti il Pogliani non trovò in casa la signorina Consalvi. La cameriera gli diede l’indirizzo della casa nuova, in via di Porta Pinciana. E Costantino Pogliani, andando, si mise a pensare all’angosciosa amarissima voluttà che doveva provare quella povera sposina, già vedova prima che maritata, pascendosi nel sogno - lì quasi attuato - d’una vita che il destino non aveva voluto farle vivere.

Tutti quei mobili nuovi, scelti chi sa con quanta cura amorosa da entrambi gli sposi, e disposti festivamente in quella casa che fra pochi giorni doveva essere abitata, quante promesse chiudevano?

Riponi in uno stipetto un desiderio: aprilo: vi troverai un disinganno. Ma lì, no: tutti quegli oggetti avrebbero custodito con le dolci lusinghe i desiderii e le promesse e le speranze. E come dovevano esser crudeli gli inviti che venivano alla sposina da quelle cose intatte attorno!

— In un giorno come questo! - sospirò Costantino Pogliani.

Si sentiva già nella limpida freschezza dell’aria l’alito della primavera imminente; e il primo tepore del sole inebriava.

Nella casa nuova, con le finestre aperte a quel sole, povera signorina Consalvi, chi sa che sogni e che strazio!

La trovò che disegnava innanzi a un cavalletto il ritratto del fidanzato. Lo ritraeva ingrandito con molta timidezza da una fotografia di piccolo formato, mentre la madre, per ingannare il tempo, leggeva un romanzo francese del comm. Seralli.

Veramente la signorina Consalvi avrebbe voluto star sola, lì, in quel suo nido mancato. La presenza della madre la frastornava. Ma questa, temendo fra sè che la figliuola, nell’esaltazione, si lasciasse andare contro sè stessa a qualche atto disperato, voleva seguirla e star là, gonfiando in silenzio e sforzandosi di frenar gli sbuffi per quell’ostinato capriccio intollerabile.

Rimasta vedova giovanissima e lasciata dal marito con quel l’unica figliuola in non liete condizioni, la signora Consalvi non aveva potuto chiudere la propria vita e porvi il dolore per sentinella, come ora pareva volesse fare la figliuola. Non diceva già che Giulietta non dovesse piangere per quella sua sorte crudele; ma credeva come il suo intimo amico commendator Seralli, credeva che... ecco, sì, ella esagerasse un po’ troppo e che, avvalendosi della ricchezza che il povero morto le aveva lasciata, volesse concedersi il lusso di quel cordoglio smodato. Conoscendo purtroppo le crude e odiose difficoltà dell’esistenza, le forche sotto alle quali ella, ancora addolorata per la morte del marito, era dovuta passare per campar la vita, le pareva molto facile quel cordoglio della figliuola; e le sue gravi esperienze [p. 103 modifica]glielo facevano stimare quasi una leggerezza, scusabile, sì, certamente, ma a patto che non durasse troppo, ecco.

Da savia donna, provata e sperimentata nel mondo, aveva già, più d’una volta, cercato di richiamare alla giusta misura la figliuola - invano! Troppo fantastica, la sua Giulietta, aveva non solamente il sentimento del proprio dolore, ma anche l’idea di esso. Ed era un gran guaio, questo. Perchè il sentimento, col tempo, si sarebbe per forza e senza dubbio attenuato, mentre l’idea, no, l’idea s’era fissata e le faceva commettere certe stranezze come quella del monumento funerario con la Vita che si marita alla Morte (bel matrimonio!) e quest’altra qua della casa nuziale da tenere intatta per custodirvi il sogno infranto.

Fu molto grata la signora Consalvi al Pogliani di quella visita.

Le finestre erano aperte veramente al sole e la magnifica pineta di Villa Borghese, sorgente oltre l’abbagliamento della luce, che pareva stagnasse su i vasti prati verdi sottostanti, respirava felice nel tenero limpidissimo azzurro del cielo primaverile.

Subito la signorina Consalvi accennò di nascondere il disegno, alzandosi; ma il Pogliani la trattenne con dolce violenza:

— No, perchè? Non vuol lasciarmi vedere?

— È appena cominciato...

— Ma cominciato benissimo! - esclamò il Pogliani, chinandosi a osservare - Ah, benissimo... Lui, è vero? Il Sorini... Già, ora mi pare di ricordarmi bene, guardando il ritratto... Sì, sì... Ma aveva questa barbetta?

— Oh, no, - s’affrettò a rispondere la signorina. - Non l’aveva più, ultimamente.

— Ecco, mi pareva... Sì, lo vidi tante volte, per via... Bel giovine... bel giovine...

— Non so come fare, - riprese la signorina. - Perchè questo ritratto non risponde... non è...

— E sì! - convenne subito il Pogliani: - meglio, lui, molto meglio... più... più animato, ecco... più sveglio...

— Se l’era fatto in America, questo ritratto, - osservò la madre.- Prima che si fidanzasse.

— E non ne ho altri! - sospirò la signorina. - Per ritrarlo com’era ultimamente...

— Ma guarda, Giulia, - riprese allora la madre, con gli occhi fissi sul Pogliani, - tu dicevi per la linea del mento, volendo levar la barba... non ti pare che, qua nel mento, il signor Pogliani...?

Questi arrossì; sorrise; quasi senza volerlo, alzò il mento e lo presentò, come se con due dita, delicatamente, la signorina Consalvi glielo dovesse prendere per metterlo lì, nel ritratto del Sorini.

La signorina alzò gli occhi a guardarglielo, timida e turbata. (Non aveva proprio alcun riguardo per il suo lutto, la madre!).

— E anche i baffi, - aggiunse la signora Consalvi, senza farlo apposta, - li portava così ultimamente il povero Giulio, non ti pare?

— Ma i baffi, - disse, urtata, la signorina, — pei baffi che ci vuole?

Costantino Pogliani se li toccò istintivamente e poi si carezzò il mento, come per accertarsi che gli era rimasto, e confermò:

— Niente, già...

S’accostò quindi al cavalletto e disse:

— Guardi, se mi permette ... vorrei farle vedere, signorina... così, in due tratti, qua... non s’incomodi, per carità! qua in quest’angolo... - poi si cancella... - com’io ricordo il povero Sorini...

Sedette e si mise a schizzare, con l’aiuto del ritratto, la testa del fidanzato, mentre dalle labbra della signorina Consalvi, [p. 104 modifica]che seguiva i rapidi tocchi con crescente esultanza di tutta l’anima protesa e spirante, scattavano di tratto in tratto dei sì... sì... sì... che animavano e quasi guidavano la matita. Alla fine, ella non potè più trattenere la propria commozione:

— Sì, oh guarda, mamma! - esclamò: - guarda... è lui, è lui... preciso... oh, lasci... grazie... Che felicità, poter così... è perfetto... è perfetto...

— Un po’di pratica...- disse, levandosi, il Pogliani, esausto, con umiltà che lasciava trasparire il piacere di quelle vivissime lodi. - E poi, le dico, lo ricordo tanto bene, povero Sorini! La signorina Consalvi rimase a rimirare il disegno, insaziabilmente.

— Il mento, sì... è questo... perfetto... Grazie, grazie... Ma in quel punto il ritratto del Sorini con la barbetta scivolò dal cavalletto; e la signorina Consalvi non si chinò a raccoglierlo. Li buttato per terra, quel ritratto apparve più malinconico, come se comprendesse che la fidanzata più che il mento privo della barbetta stesse ad ammirare la bravura del disegnatore.

Si chinò a raccoglierlo il Pogliani.

— Grazie, - gli disse la signorina. - Ma io adesso mi servirò del suo disegno, sa? Ora mi par tanto brutto, questo...

E, levando gli occhi, le sembrò che la stanza fosse più luminosa. Come se quello scatto improvviso d’ammirazione le avesse a un tratto snebbiato la vista e alleggerito il petto dopo tanto tempo, aspirò con ebrezza, bevve con l’anima quella luce ilare viva, che entrava dall’ampia finestra aperta all’incantevole spettacolo della magnifica villa avvolta nel fascino primaverile.

Fu un attimo. Ella non potè spiegarsi che cosa veramente fosse avvenuto in lei; ma ebbe l’impressione improvvisa d’essere come nuova fra tutte quelle cose nuove intorno, e libera, senza più l’incubo che l’aveva oppressa fino a poc’anzi. Un buffo di primavera era entrato con impeto da quella finestra a sommuovere tumultuosamente in lei tutti i sentimenti, ad animare, quasi, tutti quegli oggetti nuovi, a cui ella aveva voluto negar la vita, lasciandoli intatti lì, come a vegliare con lei la morte d’un sogno. E udendo il giovane, elegantissimo scultore con dolce voce lodare la bellezza di quella vista e della casa, conversando con la madre, che lo invitava a veder le altre stanze, seguì l’uno e l’altra con uno strano turbamento, come se quel giovine, quell’estraneo, stesse davvero per penetrare in quel suo sogno morto, per rianimarlo.

Fu così forte questa nuova impressione, ch’ella non potè varcar la soglia della camera da letto, di quel nido roseo di seta; e vedendo il giovane e la madre scambiarsi lì un mesto sguardo d’intelligenza, non si potè più reggere, scoppiò in singhiozzi.

E pianse, sì, pianse ancora per la stessa cagione per cui tante altre volte aveva pianto; ma avvertì confusamente che tuttavia quel pianto era diverso, che il suono di quei suoi singhiozzi non le destava dentro l’eco del dolore antico, le immagini che prima le si presentavano. E meglio lo avvertì, allorchè la madre, accorsa, prese a confortarla come tant’altre volte l’aveva confortata, usando le stesse parole, le stesse esortazioni. Non potè tollerarle; fece un violento sforzo su sè stessa; smise di piangere; e fu grata al giovine che, per distrarla, la pregava di fargli vedere la cartella dei disegni scorta lì su una sedia a libriccino.

Lodi, lodi misurate e sincere, e appunti, osservazioni critiche, che la indussero a discutere, a spiegare; e infine un’esortazione calda a studiare, a seguir con fervore quella sua disposizione all’arte, veramente non comune. Sarebbe stato un peccato! un vero peccato! Non s’era mai provata a trattare i colori? Mai mai?Perchè? Oh, non ci sarebbe mica voluto molto, con quella preparazione, con quella passione...

Costantino Pogliani si profferse d’iniziarla; la signorina Consalvi accettò con entusiasmo; e le lezioni cominciarono [p. 105 modifica]fin dal giorno appresso, lì, nella casa nuova, che invitava e attendeva...

Non più di due mesi dopo, nello studio di Costantino Pogliani, ingombro dell’enorme monumento funerario già tutto abbozzato, Ciro Colli col vecchio càmice lungo di tela grezza stretto fra le gambe, sdraiato sul canapè e fumando a pipa, teneva uno strano discorso allo scheletro, fissato diritto su la predellina nera, che s’era fatto prestare per modello da un suo amico dottore.

Gli aveva posato un po’ a sghembo sul teschio il berretto di carta; e lo scheletro pareva un fantaccino macabro su l’attenti, ad ascoltar la lezione che Ciro Colli, tra uno sbuffo e l’altro di fumo, gl’impartiva:

— E tu perchè te ne sei andato a caccia? Vedi come ti sei ridotto brutto, caro mio? Brutto... le gambe secche... tutto secco... Diciamo la verità, ti pare che questo matrimonio si possa combinare? La Vita, caro...guarda là, che bel tocco di figliuola senza risparmio m’è uscita dalle mani? T puoi sul serio lusingare che voglia sposarti? Ti s’è accostata, timida e dimessa; ma non per ricevere da te l’anello nuziale... levatelo dal capo! La borsa, caro, la borsa... Tu gliel’hai data, e ora che vuoi più? S’è messa a studiar pittura, la Vita, e il suo maestro è Costantino Pogliani. Se fossi in te, parola mia d’onore, lo sfiderei... Hai sentito stamani? Non vuole, mi pro-i-bi-sce assolutamente che io la faccia nuda... Eppure lui, per quanto somaro, è uno scultore e sa bene che, per vestirla, bisogna prima farla nuda... Ma non sa tollerare che si veda su quel nudo là meraviglioso il volto della signorina... È salito lassù, hai visto? tutto arrabbiato, e con due colpi di stecca me l’ha guastato... Sai dirmi perchè, fantaccino mio? Gli ho gridato: « Lascia! Te la vesto subito! Te la vesto!» - Ma che vestire! Nuda la vogliono ora... la Vita nuda, nuda e cruda com’è, caro mio! Sono tornati al mio primo disegno. Tu che ghermisci, bello mio, e lei che non ne vuol sapere... Ma perchè te ne sei andato a caccia? me lo dici?

LUIGI PIRANDELLO

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