Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XVI

Novella XVI - Guglielmo duca di Aquitania, persecutore de’ cattolici, alla fine pentito de’suoi peccati abbandona il ducato, e incognitamente va peregrinando e facendo penitenza, e se ne muore santo
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[p. 329 modifica]che la maritata si era destata e in effetto avendo assai più caldo che non voleva, disse a la maritata, non pensando più innanzi: – Sorella mia, io cangierei volentieri loco con voi, perchè qui in mezzo io mi muoio di caldo e non oso voltarmi verso lo scolare. – Che fa egli, il dormiglione? – soggiunse la maritata. – Egli, – rispose la vedovella, – si dorme come una marmotta, e da che si corcò non si è più mai destato. – E nondimeno da tre volte in su, senza cangiar vettura, avea corso le poste. Cangiò adunque luoco la maritata e andò a lato de lo scolare; il quale, sentendo non molto dopo la vedova dormire, rientrò più volte in possesso de li beni de la maritata, macinando; e così destramente macinò che l’una non si accorse de l’altra già mai. Onde le donne assai liete e contente, come fu giorno, si levarono. La maritata poi una sera, cenando col marito e con lo scolare, disse al marito che le era stato narrato da una sua vicina quanto a lei era successo, ma cambiò li nomi de lo scolare e de la vedovella; e sovente con lo scolare, ridendo, diceva che la vedovella era una gran dormigliona. Ma lo scolare, che sapeva come la cosa stava, avea gran piacere di avere in quello modo le due donne trattate.


Il Bandello al magnifico e dottissimo filosofo


e poeta soavissimo messer Geronimo Bandello


cugino carissimo salute


Mi fu bisogno, come sapete, questo novembre passato, per certi negozii di grandissima importanza passare in Francia e andare a la corte del re Lodovico di questo nome duodecimo, che si teneva a Bles, lungo il fiume Legeri, che da’ francesi volgaremente si chiama Loera. Il viaggio nel vero è stato assai lungo, e da l’Alpi sino a la corte, per essere il verno, molto faticoso per cagione de le continove e altissime nievi e degli indurati ghiacci, che, cavalcando, di continovo forza è calpestare. La medesima fatica si prova al ritorno. Questo bene ci è: che il camino è sicurissimo, e vi si può cavalcare di notte e di giorno con l’oro in mano [p. 330 modifica]senza sospetto di trovar fra via cosa ch’al caminar fosse molesta. Gli alloggiamenti poi sovra ogni credenza per la Savoia e Francia tu trovi tanto agiati, e sì commodamente sei di ogni cosa servito, che meglio essere non si può. Il che è grandissimo alleggiamento a la fatica che si soffre in caminando, perchè li tuoi cavalli sono abondevolmente proveduti di tutto ciò che a quelli conviene. Ora, essendo io in corte, ebbi grandissima dimestichezza col riverendo padre frate Guglielmo Parvi, maestro in sacra teologia e ordinariamente auditore de la sacramentale e auricolare confessione di esso re. Egli, uno giorno che si trovò scioperato da le molte facende che gli occorreno molto sovente, mi narrò la mirabile conversione di uno grandissimo prencipe, che prima era stato grande e publico peccatore e persecutore de la Chiesa catolica. Me la fece poi leggere negli annali de l’Acquitania impressi in idioma francese. E perchè mi parve molto degna e notabile, la tradussi in lingua italiana. Io mi credeva nel mio ritorno passar per la patria nostra; ma mi convenne con diligenzia prendere il dritto camino a Milano. Onde tra me ho deliberato di detta sacra istoria farvene uno dono e scriverla al nome vostro, sapendo quanto de le cose religiose vi dilettate. E già mi pare vedere qualche poetica descrizione da voi sovra essa istoria composta. Ne farete partecipe mio padre, se da Roma è tornato, chè ancora non ne ho nova veruna; e agli altri parenti e amici nostri, che le cose sacre gustano, vi piacerà anco di mostrarla. State sano.

NOVELLA XV


Guglielmo, duca di Acquitania, persecutore de li catolici, a la fine


pentito de li suoi peccati, abbandona il ducato e va


incognitamente peregrinando e facendo penitenzia, e se ne more santo.


Ha questo ampissimo reame, che pacificamente tiene il re nostro cristianissimo Lodovico di questo nome duodecimo, ha, dico, molti grandissimi prencipi, li quali da la Chiesa catolica per la santità de la vita loro sono stati ascritti al numero de li santi. E ancora che di molti vi potesse tenere autenticamente proposito, mi piace parlarvi di uno solamente, per ora, che fu duca de l’Acquitania, che da noi si chiama in idioma volgare Ghienna. E questo ho io fra tanti altri scielto a narrarvi, perchè la vita sua fu molto varia, e visse gran tempo discorretto e persecutore de la catolica Chiesa acerrimo. Poi, allumato dal divino lume de lo [p. 331 modifica]Spirito Santo, cangiò di modo di male in bene la sua vita, e fece tanta aspra penitenzia che, lasciando il suo paterno ed avito stato acquitanico, fu, morendo, ne lo numero de li santi del reame de lo cielo meritamente collocato. Il che meravigliosamente può giovare a li peccatori, acciò che veggiano, pur che l’uomo non si desperi, che sempre, volendo, può ritornare a penitenzia e salvarsi, stando di continovo il clementissimo Salvatore nostro per ricevere tutti, con le braccia su la croce aperte, pur che il peccatore, pentuto e confesso de li suoi peccati, a lui, come detto si è, se ne ritorni. Vi dico adunque, che Guglielmo, di cotesto nome quinto duca di Acquitania e conte di Poitiers, ebbe uno fratello detto Raimondo, il quale per fare il passaggio di oltra mare in soccorso di Terra Santa, con molti altri baroni francesi che a quella sacra guerra andarono, si mise a ordine. E per potersi più lungamente su la guerra mantenere, vendette il suo contato de la città di Tolosa a Raimondo, li cui nipoti gran tempo tennero quella nobilissima città. E veramente fu vie di maggior gloria erede in simile caso che non fu il compratore. Mentre i devoti cristiani in Levante contra turchi faceano la sacra guerra, papa Innocenzio, di così fatto nome papa secondo, fu da Guglielmo duca di Calabria con alquanti cardinali fatto prigione. Onde i romani violentemente fecero papa uno de la casa nobilissima de li Perleoni, che era in Roma potentissima, e lo chiamarono Anacleto. Per questo la cristianità si divise, perchè alcune provincie obedivano a Innocenzio come a vero vicario di Cristo, e altre seguivano il pseudopontefice Anacleto. Guglielmo duca di Acquitania, del quale si è cominciato a parlare, si accostò a l’intruso e scismatico Anacleto, e violentemente cacciò via de li loro vescovati Guglielmo vescovo di Poitiers e Eustorgio vescovo di Limoges, perchè mantenevano senza rispetto veruno la parte del vero papa Innocenzio, e predicavano che Anacleto non era vero pontefice, e che non se li devea in modo alcuno prestar obedienza. Guglielmo duca, sprezzando le vere e sante ammonizioni di questi dui buoni e catolici vescovi, col mezzo di uno legato scismatico che Anacleto mandato gli avea, fece fare alcuni vescovi a suo modo e gli intronizzò in luoco de li profanamente discacciati. Viveva in quel tempo san Bernardo abbate di Chiaravalle, uomo, per santità di vita e dottrina sana, di molta autorità e riguardevole pur assai. Egli andò a parlare al duca Guglielmo e si sforzò con efficacissime ragioni ridurlo a l’unione de la Chiesa catolica. Era esso duca a Poitiers, ove san Bernardo, [p. 332 modifica]celebrata la messa, se ne andò col preziosissimo corpo del signor nostro Giesu Cristo in mano, che consacrato avea, dinanzi al duca; e quivi tutto quello che lo Spirito Santo li suggeriva, al duca disse, dimostrandogli il grave errore ove era involto. Ma veggendo che indarno si affaticava e che il duca era ostinato e non voleva aprir gli occhi a riconoscere l’errore ove era inviluppato, allora il buono san Bernardo si partì e lasciò per autorità del vero papa esso duca scommunicato. Quello medesimo giorno il decano di Poitiers fece gittare per terra l’altare sovra il quale san Bernardo celebrato aveva. Fece il duca uno editto con gravissime pene, che tutti li sudditi suoi ubedissero a Anacleto. L’arciprete che quello in chiesa publicò, come ebbe finito di leggerlo, in quello istante cascò in terra morto. Medesimamente messer lo decano, che roinato avea l’altare, quello giorno istesso infermò, e divenuto rabbioso come uno cane, con uno coltello svenandosi la gola, si ammazzò. Colui che era stato intronizzato vescovo di Limoges cascò giù da la mula e si ruppe di tal modo l’osso del collo, che ne la sua perfidia repentinamente egli se ne morì, uscendoli del capo, che rotto se gli era, il palpitante cervello. Il vescovo che in Poitiers era stato intruso, veduti codesti evidenti segni che nostro signore Dio al mondo dimostrava, riconoscendo il peccato suo, rinonziò al male preso vescovato, cercando l’assoluzione dal vero papa. Onde il duca Guglielmo, intesi questi tanto strani e tremendi accidenti, aperti li occhi de l’intelletto e ben considerato ciò che il devoto Bernardo predicato gli avea, si sentì uno grandissimo rimorso de la giusta sinteresi, che il core li rodeva e agramente lo sgridava de la iniqua persecuzione fatta da lui a la Chiesa contra ogni ragione. Il perchè, la sua malvagia passata vita diligentemente considerata, e tócco nel core di vera contrizione, tra sè senza fine detestava, odiava e fieramente aborriva gli enormi suoi peccati, e a Dio si confessava essere meritevole di ogni supplicio e divotamente li chiedeva perdono, tra sè deliberato di cangiare vita e confessarsi. Indi, non dando indugio a la santa inspirazione, andò a trovar san Bernardo e intieramente con quello si confessò e con gran pianto dimandava misericordia e assoluzione. San Bernardo, lieto oltra modo de la conversione di tanto duca, per l’autorità papale l’assolse. Esso duca volontieri averebbe lasciato il mondo e fattosi monaco ne la religione cisterciense; ma temeva che la prattica degli amici e parenti li devesse recare grande nocumento a la vita santa, che intendeva fare per ammenda degli errori da lui per [p. 333 modifica]lo passato fatti. Conferito questo suo pensiero in segreto con san Bernardo, fu consigliato da quello di ritirarsi in luogo ove da nessuno fosse conosciuto; il che al duca molto piacendo, si deliberò di essequirlo. Pertanto, fatta questa deliberazione, acciò lasciasse le cose degli stati suoi con miglior ordine che si potesse, fece il suo testamento per mano di notaro in autentica forma. Egli aveva due figliuole legittime senza più, Leonora e Fiordeligi: lasciava Leonora, sua primogenita, erede universale del ducato de l’Acquitania e del contado di Poitiers, facendo instanzia grandissima in esso testamento al re Lodovico il grosso, di questo nome sesto re di Francia, che volesse dare per moglie a Lodovico suo figliuolo la detta Leonora. Questo Lodovico fu poi re, doppo il padre, di cotale nome settimo, e fu cognominato da alcuni il «mansueto»; ma per lo più si appella «Ludovico il più giovane». Pregava anco il duca Guglielmo il re che la seconda figliuola Fiordeligi maritasse in alcuno onorato barone, e quella lasciò erede di tutte quelle castella, luoghi e beni immobili, che egli possedeva ne la Borgogna e ne la Piccardia. Tenne segreto il duca questo suo testamento, nè volle che publicato fosse fin che egli non morisse. Non dopo molto, avendo il duca dato ordine a quanto intendeva provedere, correndo gli anni de la nostra salute mille cento trentasette, diede voce, per uno voto fatto, che voleva andare al peregrinaggio del santo apostolo di Galicia; onde nel sacro tempo de la quaresima si mise in camino, con circa venticinque gentiluomini de li suoi. Pervenuto che fu a la venerabile chiesa de l’apostolo, visitate divotamente le sante reliquie, fece al luoco una grossa elemosina e attese a fare il «novendiale», come per nove giorni intieri costumano fare li peregrini che colà vanno. Mentre che il novendiale si facea, il duca uno dì chiamò a sè in camera e segretamente parlò col suo segretario, col maestro di casa e con uno cameriere; e sì, con le lagrime su gli occhi, dolcemente a dir loro cominciò: – Figliuoli miei, io mi persuado che voi ottimamente debbiate sapere come nostro signore benedetto, messer Giesu Cristo, ha preparato il paradiso per li buoni che serbano li suoi commandamenti e fanno penitenzia de li peccati che talora commetteno, e l’inferno ha ordinato per quelli malvagi peccatori, che non si vogliono convertire, ma stanno ostinati nel male, perseverando di male in peggio. Mentre che in questa vita siamo, potemo, mediante la grazia del nostro Salvatore, ammendare li nostri peccati e vivere santamente, perseverando di bene in meglio per acquistare il paradiso. Voi vedete che quelli che sprezzano il [p. 334 modifica]vivere da cristiano, per le sceleraggini loro si rendeno odiosi a Dio e al mondo, e come ribaldi a dito da tutti si mostrano. E che credete voi che di me si dica? pensate voi, perchè io sia duca, che a me si perdoni, o che grandi e piccioli non mi tengano per rubello di Iddio? Ora, figliuoli miei, io considero li perigliosi casi che in questa caduca e frale vita umana tutto il dì avengono, e gli impedimenti che si hanno in tutte le sorti degli uomini, siano di qual grado si voglia, che desederano seguire la vera religione cristiana. Io per me so molto bene come il fatto mio sta, e conosco e liberamente confesso essere assai lungo tempo non già da vero cristiano ma da uno ribaldissimo uomo vivuto, caminando per la spaziosa e patente via de li peccati: de li quali molti enormissimi ho commesso, e lungamente perseverato in quelli; chè se non fosse la misericordia del nostro signore Iddio, ne la quale ho tutta la speranza mia, io porto ferma openione che oggimai in anima e corpo dannato sarei. E tra gli altri gravissimi e publici peccati miei che tutti sapete, io sono stato acerrimo persecutore contra il nostro santo padre sommo pontefice, vero vicario di Cristo in terra, papa Innocenzio. Troppo evidente fu la mia ingiusta persecuzione contra li santi vescovi di Poitiers e Limoges, cacciandoli da li vescovati loro perchè essi mi dicevano la verità. E avendo senza autorità apostolica criati altri vescovi, ho causato, per la mia falsa openione, che preti assai sono da’ scismatici stati ordinati. Ora, avendomi il Salvatore nostro per misericordia e bontà sua infinita fatto grazia di riconoscere il gravissimo mio errore, ove tanto tempo con enorme offesa di quello sono stato immerso, ho preso consiglio da sagge e sante persone che mi esortano, mentre che ho tempo, di fare, in quanto per me si potrà, una austera e gravissima penitenza, acciò che nostro signor Dio mi perdoni. Onde dopo molti e varii discorsi tra me fatti, e il tutto con diligenzia bene considerato, mi sono resoluto non ci essere via più profittevole per salvazione de l’anima mia, reconciliandomi con la divina misericordia, che abbandonare mie figliuole, lasciando loro tutti gli stati e le mie giurisdizioni, e in luogo soletario e deserto ridurmi ove nessuno mi conosca, e in qualche grotta fare la vita mia, fin che piacerà al Salvatore nostro per sua misericordia chiamarmi a sè. E ben che trovi il modo di far questo, che li miei parenti e amici nulla ne saperanno, chè da loro non vorrei per tutto l’oro del mondo essere impedito, nondimeno per più sicurezza mia, mi è ne l’animo caduta una via, la quale penso con l’aiuto vostro debbia facilmente [p. 335 modifica]succedermi a fare che io ottenga l’intento mio. Ma perchè sappiate come, io il vi dirò. Udite adunque. Io fingerò essere gravamente infermo, e punto non mentirò perchè non potrei essere più infermo de l’anima di quello che sono. Mostrerò poi d’ora in ora aggravarmi ed essere fora di speranza di potere di questa infermità sanare. Voi una notte darete la voce che io sia morto. E acciò che la cosa meglio riesca, io oggi a la presenza di tutti li nostri dirò che, sentendomi fieramente mancare, a voi tre ho commesso la cura de le cose mie e del corpo, insieme con la sepoltura di quello. Voi accommoderete una bara funebre, piena di qualche cosa pesante a par del corpo mio. Io nascosamente mi partirò, vestito di quelle vestimenta che feci fare da peregrino, e me ne anderò in tale luogo, ove voi, fatti li funerali senza pompa ma con grosse elemosine a’ poveri, ve ne verrete, nulla agli altri dicendo. Indi poi prenderò congedo da voi e me ne anderò in luoco ove possa servir a Dio incognitamente. – Quando li tre fedeli servitori udirono cotale volontà del loro signore, non fu in poter di nessuno di loro, da tenerezza di amorevole core vinti, ritenere le pietose lagrime; e stettero buona pezza impediti da li singhiozzi, che mai non potêro formar parola. A la fine Alberto segretario, a la meglio che puotè, in sè raccolto, disse: – Aimè, signor nostro, che cosa è quella che voi ci dite? Voi volete porre la vita di noi altri in grandissimo periglio, perchè impossibile parmi che indi a pochi dì questo fatto non si diceli e venga a le orecchie del re di Francia, il quale ci potrebbe dare uno acerbissimo gastigo. Oltre di ciò, signor mio, considerate alcune cose che io, come vostro fedele servitore, sono ubligato a ricordarvi. Primieramente pensate che voi già sète forte attempato, e che la vostra delicata natura, arrivata a la vecchiezza e dal corso degli anni e tante altre fatiche assai debilitata, manca grandemente del suo nativo vigore e più non potrà mantenersi nè sopportare li disagi, che tra li deserti e inabitati luoghi patire il più de le volte si sogliono. Non so poi come là farete, convenendovi dormire su la nuda terra, mangiare le radici de l’erba e bere acqua in vece di vino, liquore certamente soavissimo e vero sostenimento de la vita nostra, quando moderatamente si beve. Egli è, signor mio, rigeneratore degli spiriti vitali, rallegratore del core, restauratore potentissimo di tutte le facoltà e operazioni corporali, e non senza cagione chiamiamo «vite» la pianta che lo produce, perchè invero egli dà la vita a’ mortali. E ancora che voi siate moderato bevitore, tuttavia in questo viaggio, perchè non vi sono di quelli generosi e dilicati [p. 336 modifica]vini che avemo ne le contrade del vostro ducato, io vi ho sovente veduto attristarvi e desiderare di quei nostri vini. Sapete bene come sète uso a vivere, e che volete i miglior cibi che si possino trovare, con tante variatati di manicaretti, conditi con odorate e preziose speziarie; cose tutte che ne le soletudini non si trovano. Voi stare solo non volete, anzi di continovo amate la compagnia di compagni allegri e che vi tengano gioioso; nè sapete vivere senza la flessianima melodia de la musica. Onde avete nel dominio vostro tanti e tali cantori, che in tutta Franza non si troveriano già mai li migliori musici. In vece di questi sarete astretto udire urlare lupi e gli strani rumori de le spaventose voci di selvaggi e fieri animali. Taccio mille e mille altri incommodi che vi converrà patire. Però, signor mio, io vorrei che voi pensassi che ne lo stato ove sète, e in casa vostra, averete meglio il modo di poter fare molto migliori e più sante opere e vie più grate a Dio, che andarvi a perdere in uno eremitaggio. Voi in quelli luoghi solitarii a nullo giovarete se non a voi stesso, ove, remanendo ne lo ducato vostro, con li vostri beni temporali che nostro signor Dio abondevolmente con larga mano vi ha donati, potrete nodrire poveri assai, governare in pace li vostri popoli, difendere le vedove e pupilli, maritare assai povere giovanette che non hanno il modo di mettersi a l’onor del mondo, riparare i luoghi sacri, fondare altri monisteri per religiosi e donne, e molte altre opere di carità che meglio di me voi sapete. Questo voglio, signor mio, con ogni debita riverenza avervi detto per sodisfare in parte a l’obligo de la mia verso voi fedelissima servitù. – Qui tacque egli, e gli altri dui compagni furono pure del medesimo parere di Alberto. Il duca, udito che ebbe il suo segretario, e vide gli altri dui essere de la openione unitamente di quello, in questa guisa loro rispose: – Figliuoli miei carissimi, a questo animo che verso me dimostrate, io conosco apertamente l’amore che mi portate non essere armato di vera carità ma tutto carnale, perchè avete molto più riguardo a la sanità del mio corpo che a la salvazione de l’anima mia, la quale incomparabilemente merita vie più di deversi procurare e apprezzare. Voi mi dite che sono vecchio, come in effetto sono; e perciò, per le follie commesse ne la mia giovanezza, voglio macerare questa mia fastidiosa vecchiezza e ammendare, quanto per me sarà possibile, le sconcie cose per me perpetrate, acciò che nostro signore Iddio in grado prenda la mia buona volontà e meco usi de la sua infinita misericordia. Sì che, se per lo passato ho sempre avuti tutti gli agi e tutte le commodità che ho saputo desiderare, [p. 337 modifica]vuole la ragione che, in quanto per me si può, con la sofferenza de li disagi venga a sodisfare al peccato de le superflue e morbide delicatezze inutilmente passate con offesa del prossimo e di Dio. Devete poi sapere che, quanto più mancherò de la compagnia degli uomini e non udirò suoni e canti de’ musici, che io porto fermissima openione e salda speranza che tanto più mi accosterò a messere Domenedio, che potrà la sua mercè farmi sentire l’armonia de li santi angeli. A quello poi che voi dite, che, retirandomi in luogo ove conosciuto non sia, io non farò bene se non a me stesso, ove dimorando nel mio ducato potrei giovare a molti e far opere pie e lodevoli assai, vi dico che io non sono più valevole che possa molto giovare al publico. A mie figliuole ho fatto buona provisione, e così a molte chiese e ospitali ho fatto varii provedimenti di grasse elemosine, come voi vederete per questo mio testamento autenticamente fatto. E perciò non sia più nessuno di voi che mi dica parola contra questa mia santa deliberazione. Quanto a voi tre, la provisione vostra è ne li miei forzeri, in tanti sacchetti signati di mia mano e del solito mio picciolo suggello. – Non fu persona de li tre servitori che osasse più dirli motto, ma si offersero largamente di fare quanto egli ordinarebbe. Finse dunque il buono duca essere gravemente infermo, e, non volendo cura nessuna di medico corporale, si confessò molto divotamente e si communicò a la presenza di tutti li suoi, a li quali, doppo, con voce languidissima disse come egli si sentiva essere giunto al fine de la vita, e che di quanto intendeva che de le cose sue si facesse, avea pienamente informato Alberto suo segretario col maestro di casa e il cameriere, e che nessuno altro il curasse se non li tre sovradetti. A mezzanotte il duca in abito di peregrino nascosamente si partì. E perchè Alberto avea detto volere andare col duca, esso duca, prima che partisse, ordinò che dopo la finta sepoltura il mastro di casa col camerieri andasse di lungo a trovare il re. Ora prepararono li tre la cassa, e acconcio uno lenzuolo con non so che dentro, che parea uno corpo d’uomo nel lenzuolo involto, diedero voce il duca a mezzanotte essere morto. Avea il maestro di casa la cassa bene inchiodata e turata, ne le fissure, de pece. Il mattino, sparsa la nuova de la morte del duca, tutto il popolo correva per vederlo; ma ritrovarono la cassa coperta di uno ricco drappo e il maestro de la casa che facea vestire di nero tutta la famiglia. Le esequie si fecero tali, quali a sì gran prencipe si convenia, e la cassa fu interrata innanzi l’altare maggiore in la chiesa di San Giacomo. Poi rimenando la compagnia verso Guascogna, egli con il camerieri [p. 338 modifica]a buone giornate se ne andò a trovare il re Lodovico Crasso, cui diede la nuova come il duca Guglielmo era morto in Gallicia, e li presentò il testamento che esso duca fatto avea. Il re, condolutosi de la morte del duca, ebbe molto cara la disposizione che il duca fatto avea de li mariaggi de le figliuole. Alberto segretario pigliò congedo da li compagni, dicendo che, poi che il duca suo signore era morto, egli voleva rendersi religioso; e secondo che al duca avea promesso, lo andò a trovare, e vestito con lui da romito attese ancora egli a fare penitenza. Il duca, in luoco di uno mordente cilicio, si avea vestita una corazza di ferro sopra la carne nuda, e sotto il capuccio avea concio una pure di ferro celata, per più aspramente macerare la sua carne. Sarebbe troppo lungo parlamento a narrare e discorrere di uno in uno tutti quei peregrinaggi che il duca, con Alberto in compagnia, sempre caminando a piede, sofferendo mille disagi, pazientissimamente fece. Andò a Roma, ed ebbe il modo di baciar il piede al sommo pontefice Innocenzio, cui era stato lungo tempo sì aspro rubello; e a lui si manifestò chi fosse e con grandissima umilità e abondanti lagrime li dimandò perdonanza. Il papa lo accarezzò molto caritativamente e, mille volte benedicendolo, quello esortò a perseverare nel suo santo proponimento. Partito da Roma, se ne andò a visitare il santo sepolcro in Gierusalem. Colà visitò tutti quei divoti luoghi di Terra Santa, e assai vicino a Gierusalem edificò uno monastero di religiosi, ove egli dimorò circa nove anni, facendo di continovo una vita molto austera. Alberto medesimamente seguiva in tutto le vestigie del duca. Ritornò poi in Italia il duca, e in Toscana nel territorio di Pisa in una selvaggia contrada, negli anni di nostra salute mille cento cinquantasei, fece uno eremitorio, ove si congregarono molti romiti, vivendo santissimamente insieme. Dopoi il duca ebbe rivelazione come il fine de la vita sua si appropinquava; onde uno giorno, chiamato a sè Alberto, amorevolmente in questa guisa li disse: – Figliuolo e compagno mio carissimo, per quanto è piaciuto al nostro Salvatore messere Giesu Cristo rivelarmi, l’ora de la morte mia si appropinqua, volendo esso Signore metter fine a li miei travagli e per sua infinita bontà e clemenzia darmi eterno risposo. Il perchè ti prego che tu voglia andare al castello qui vicino e chiamare uno sacerdote, per confessarmi a quello e da lui ricevere li santi sagramenti de la Chiesa. – A questo annonzio il buono Alberto, teneramente piagnendo, al suo signore rispose: – Aimè, signor mio, egli conviene adunque che io resti solo in questo solitario luogo? che potrò io più fare? chi mi darà più consolazione alcuna? – [p. 339 modifica]Figliuolo e amico mio, – soggiunse il duca, – non temere e non piangere, perciò che prima che io mora, nostro signore Iddio manderà qui uno uomo di molto maggiore consolazione e giovamento per te, che io non sono stato. – Si erano partiti il duca e Alberto pochi giorni innanzi da l’eremitorio, che era nel contado di Pisa, e ridutti in uno luoco selvaggio del vescovato de la città di Grosseto. Andò Alberto a ritrovare il sacerdote e lo condusse al romitorio, ove trovarono il santo duca disteso su la ignuda terra, con le mani innanzi al petto giunte e gli occhi elevati e indirizzati verso il cielo. Ed ecco in quello istesso punto arrivare uno, nominato maestro Rainaldo, dottore di medicina, che in quelle contrade era molto famoso e di grandissima stima, il quale, abbandonando quanto possedeva, veniva a quello romitorio per istarsi con li dui romiti e fare de li suoi peccati penitenza. Questi era di cui predetto ad Alberto avea il duca poco avanti. Ora, veggendo che il duca era in termine di passar a miglior vita, non restò di aprirli l’intenzione sua. Il duca li rispose che fosse il ben venuto e che nostro signore Iddio il mandava, perchè insieme con Alberto, suo carissimo compagno, vivesse in quello romitorio. – Io, – diceva il santo duca, – non posso lungamente dimorare con voi, essendo venuta l’ora de la fine de li giorni miei, per andare a rendere conto de le mie operazioni innanzi a l’eterno giudice. Pertanto vi prego che, dopoi che sarete alquanto dimorato col mio buono amico Alberto in questo luogo, che vogliate tutti dui andare visitando quelli pochi romitorii, che io con la grazia di Dio in Toscana ho fondati, ove troverete alcuni buoni romiti. Non mancherete confortarli e esortarli a perseverare di bene in meglio e non rallentare in modo alcuno il santo proposito di servire al nostro signore Iddio. Voi doppo ritornerete qui, ove attenderete con diligenza adunare degli altri romiti, e ogni dì aumentare il loco e li servi di Dio. – Dati alcuni altri ordini, il santo duca con grandissima divozione si confessò e prese tutti li santi sagramenti de la Chiesa, e il dì seguente rese l’anima al suo Criatore. Concorse miracolosamente tutta la contrada a li funerali del santo uomo e le esequie solennissimamente si fecero. Fu poi da la Chiesa, provati li miracoli, canonizzato. Medesimamente Alberto visse così santamente, che a la fine meritò ancora egli ascendere in cielo. Il testamento di esso duca Guglielmo fu eseguito, perciò che Lodovico giovane, figliuolo di Lodovico sesto, cognominato Crasso, prese per moglie Leonora, primiera figliuola del duca; ma poi che sarebbe troppo lungo a dire, la repudiò. Non fu mai da nessuno re di Francia fatto più felice matrimonio [p. 340 modifica]di questo, nè per lo contrario fu già mai divorzio alcuno più dannoso di questo commesso, perciò che, rimaritandosi Leonora nel re d’Inghilterra, fu cagione de le crudelissime guerre che tanti e tanti anni la Francia afflissero.


Il Bandello al magnifico signor conte Bernardo da san Bonifacio


mastro di campo de l’essercito francese in Piemonte salute


Il dì medesimo che il signor conte Guido Rangone vi mandò a Chieri, essendo molti buoni soldati adunati insieme, si intrò a ragionar de l’acerbo gastigo che già fu dato nel campo veneziano a Margaritona, femina poco onesta ma prode molto, che in la compagnia del conte di Gaiazzo toccava denari per cavallo liggiero. E certamente ci erano alcuni che passavano a la banca, li quali a paro di lei non meritavano quello stipendio che tiravano. E tra l’altre volte, quando l’essercito de la lega era a Cassano e Antonio Leiva si teneva a Inzago, lontano poco più di duo miglia, essa Margaritona armata su il suo cavallo, quasi nel forte de li spagnuoli, sotto Inzago, a percosse di buone mazzate prese uno spagnuolo uomo d’arme e il condusse innanzi a l’illustrissimo signor Gian Maria Fregoso, che era governatore generale de la serenissima Signoria di Venezia. Esso spagnuolo, conosciuto che da una femina era stato condutto prigione, si volea disperare. La cagione poi di far abrusciare essa Margaritona variamente fra li soldati si diceva, perciò che ci erano di quelli che affermavano quella giustamente essere stata arsa e altri che incolpavano messer Paolo Nani proveditore, insieme col conte di Gaiazzo. E così ragionandosi de questo, messer Giovanni Salerno, che, come sapete, è forte ragionevole e sovente per dir ciò che vuole interrompe li ragionamenti de li compagni, narrò una novelletta che a Roma non è ancora molto che avenne. Essa novelletta fu da me descritta. Pensando poi cui dare la devessi, deliberai de mandarvela; e così ve la mando e dono e al vostro nome consacro. State sano.

NOVELLA XVI