Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XVII

Novella XVII - Castigo dato a Isabella Luna meretrice per inobbedienza ai comandamenti del governatore di Roma
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[p. 340 modifica]di questo, nè per lo contrario fu già mai divorzio alcuno più dannoso di questo commesso, perciò che, rimaritandosi Leonora nel re d’Inghilterra, fu cagione de le crudelissime guerre che tanti e tanti anni la Francia afflissero.


Il Bandello al magnifico signor conte Bernardo da san Bonifacio


mastro di campo de l’essercito francese in Piemonte salute


Il dì medesimo che il signor conte Guido Rangone vi mandò a Chieri, essendo molti buoni soldati adunati insieme, si intrò a ragionar de l’acerbo gastigo che già fu dato nel campo veneziano a Margaritona, femina poco onesta ma prode molto, che in la compagnia del conte di Gaiazzo toccava denari per cavallo liggiero. E certamente ci erano alcuni che passavano a la banca, li quali a paro di lei non meritavano quello stipendio che tiravano. E tra l’altre volte, quando l’essercito de la lega era a Cassano e Antonio Leiva si teneva a Inzago, lontano poco più di duo miglia, essa Margaritona armata su il suo cavallo, quasi nel forte de li spagnuoli, sotto Inzago, a percosse di buone mazzate prese uno spagnuolo uomo d’arme e il condusse innanzi a l’illustrissimo signor Gian Maria Fregoso, che era governatore generale de la serenissima Signoria di Venezia. Esso spagnuolo, conosciuto che da una femina era stato condutto prigione, si volea disperare. La cagione poi di far abrusciare essa Margaritona variamente fra li soldati si diceva, perciò che ci erano di quelli che affermavano quella giustamente essere stata arsa e altri che incolpavano messer Paolo Nani proveditore, insieme col conte di Gaiazzo. E così ragionandosi de questo, messer Giovanni Salerno, che, come sapete, è forte ragionevole e sovente per dir ciò che vuole interrompe li ragionamenti de li compagni, narrò una novelletta che a Roma non è ancora molto che avenne. Essa novelletta fu da me descritta. Pensando poi cui dare la devessi, deliberai de mandarvela; e così ve la mando e dono e al vostro nome consacro. State sano.

NOVELLA XVI [p. 341 modifica]

Castigo dato a Isabella Luna meretrice per la inobedenzia


a li commandamenti del governatore di Roma.


Chi sia l’Isabella de la Luna spagnuola, credo che la più parte di voi lo sappia, avendo ella lungo tempo seguitato per l’Italia e fora l’essercito de l’imperadore, nel quale altre volte molti di noi che qui siamo avemo militato. Ella, tra molte sue taccherelle puttanesche, ha che in ogni azione sua è la più soperba che trovare si possa. Dopo il discorso suo fatto a’ servigi de li soldati besognosi che volontieri cavalcano per lo piovoso, si ridusse in Roma, ove per l’ordinario attendeva prestare il corpo suo a vettura a chi meglio la pagava. Avenne che, devendo dare a uno mercatante certa somma di danari per robe che da lui prese aveva, andava menandolo in lungo e con parole d’oggi in dimane differendo il pagamento, che volontieri averia scontato con tante vetture del corpo suo. Ma il mercatante, che voleva denari e non la pace di Marcone, non le prestava orecchie, ma la sollicitava che sodisfacesse al debito. Al fatto del pagamento ella faceva sempre il sordo. Il che veggendo il mercatante, e conoscendo che se non usava altri mezzi non era per essere forse mai pagato, andò a trovare il governatore de la città di Roma, che era monsignor de’ Rossi vescovo di Pavia; e narratogli il caso suo, ottenne da lui una citazione a l’Isabella, che devesse il tale dì a tale ora comparire personalmente innanzi al tribunale di esso governatore. Andò il sergente de la corte a trovare l’Isabella al di lei alloggiamento, e ritrovò quella su la strada publica, che si interteneva a parlamento con alcuni compagnoni. Diedele il sergente il commandamento, e a bocca ancora, a la presenza di tutti quelli che con lei erano, le commandò che comparisse al determinato tempo, come è la costuma di fare. Ella, che tra l’altre sue notabili parti bestemmia crudelissimamente Iddio e tutti li santi e sante del paradiso, come ebbe in mano la cedula de la citazione, con disdegnoso viso al sergente, tutta piena di còlera e di stizza, disse: – Pesa a Dios, que quiere esto borrachio vigliaco? – Dopoi le parole, vinta da la soverchia còlera, straziò in più pezzi il papèro de la citazione, e con irreverenza e scherno, a la presenza di tutti gli astanti, così sopra le vestimenta, su le parti deretane, come se il corpo purgato avesse, se ne forbì il mal pertugio; e poi la carta così lacerata sdegnosamente al sergente restituì, dicendoli [p. 342 modifica]che andasse al chiasso. Egli, preso lo straziato papèro, quello presentò al luogotenente del signor governatore, e minutamente li narrò la risposta de l’Isabella e tutti gli atti che quella fatti avea, gabbandosi di lui. Il luogotenente, sentendo tanta enorme temerità e presonzione di una sfacciata meretrice, riferì il tutto al signore governatore, dimostrandogli essere la presonzione de quella femina uno atto molto importante e di pessimo esempio, in gravissimo dispregio de l’officio, e meritevole di acerbo gastigo, acciò che imparassero gli altri a non incorrere così presontuosammente in desprezzare gli officiali del magistrato, e non si fare sì poco conto de li commandamenti di quello. Parve al signor governatore che cotale eccesso non si devesse così di liggiero passare, ma che fosse necessario farne alcuna dimostrazione. Tuttavia, pensando la delinquente essere femina e meretrice publica, non volle in tutto usare quella rigidezza e severità che il caso ricercava. Nondimeno, acciò che impunita la temeraria presonzione de l’Isabella non andasse, la fece dal bargello publicamente pigliare e condurre a le prigioni de la torre di Nona. Esaminata dal giudice, che prima prese il constituto di quella, al tutto rispondeva di modo che pareva che si burlasse e che il fatto non pertenesse a lei. Confessò poi il debito di quei danari che al mercatante era debitrice, e dimandava termine di parecchi mesi a pagarlo. Ma perchè l’anno era già passato che aveva prese le robe, fu condannata a pagarlo intieramente prima che uscisse fore di pregione. E considerando ella che dimorando dentro la prigione la sua bottega grandemente perdeva, non possendo in quello luogo il suo molino macinare ebbe, non so come, modo di pagare il mercatante. Pensando poi essere libera e andarsene a casa senza altra pena, il giudice prononziò contra quella una sentenzia: che dal boia su la publica strada le fossero date su il culo ignudo cinquanta buone stafilate. Publicata la sentenzia, il giorno che si eseguì concorse mezza Roma a così nobile spettacolo. Fu da uno gagliardo sergente levata sovra le spalle, e ne la via publica il boia le alzò li panni in capo e le fece mostrare il colliseo a l’aria, e con uno duro stafile cominciò fieramente a percuoterla su le natiche, di modo che il colliseo, che prima monstrava una candidezza assai viva, in poco di ora tutto si tinse in color sanguigno. Ella, avute sì fiere e vergognose battiture, come le furono calate a basso le vestimenta e dal sergente lasciata in libertà, fece come il cane mastino, che, uscendo fora del covile, de la paglia tutto si scuote e se ne va via. Fece ella il medesimo, e ancora che le natiche le dolessero, nondimeno se ne [p. 343 modifica]andava verso casa senza monstrare in viso uno minimo segno di vergogna, come se da uno paio de nozze se ne ritornasse.


Il Bandello al valoroso e gentile signore


il signore Gieronimo da la Penna perugino salute


Devete, signor mio, ricordarvi che, essendo voi in letto infermo de febre quartana, io venni a visitarvi; e confortandovi, come si suole fare quando uno visita il suo amico amalato, vi dissi che il male vostro non era mortale, usandosi communemente in vece di proverbio dire: – Quartana non fa sonare campana. – Vi dissi anco che altre volte avea inteso da non so chi, come a l’improviso una subita e grandissima paura fatta a uno quartanario, che senza dubbio quello liberava da essa quartana. Voi mi rispondeste che molto volentieri aveste voluto che una grande e spaventevole paura vi fosse stata fatta, affine che voi rimanessi libero da quello fastidioso male, che ogni quarto giorno sì fieramente con quello così freddo tremore e battere di denti vi assaliva e vi tormentava. Ora, essendo io tre o quattro giorni sono nel giardino del nostro gientilissimo signore Lucio Scipione Attellano, vi era anco messer Galasso Ariosto, fratello de l’ingenioso e divino poeta messer Lodovico Ariosto. Esso messer Galasso è continovo ospite del signor Lucio Scipione. Io dissi loro de la vostra molto fastidiosa quartana e quanto insieme avevamo ragionato, Onde a questo proposito esso messer Galasso, a proposito di cacciar via la quartana, ci narrò una istoria. Io subito la descrissi, e descrivendola conchiusi ne l’animo mio che, devendosi mandare fori con l’altre mie, ella arditamente si dimostrasse col vostro nome in fronte. E così ve la mando e dono. Attendete a guarire e vivete di me ricordevole. Bene vi prego che al nostro signor Cesare Fieramosca e a messer Giovanni de la Fratta facciate vedere essa istoria, che per essere da me scritta, so che volontieri la leggeranno. Vi dico di novo che attendiate a guarire e vivere allegramente.