Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XV
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reputò esserli fatto uno segnalato favore, che il duca a tal ora fosse degnato sì domesticamente andargli a casa; e ringraziato quello di tanta umanità, li promise far ogni cosa possibile acciò che conseguisse il suo intento. E così il duca di essere a quella ora trovato in casa, con apparente ragione al suo consigliere, avendo prima a la moglie di lui soddisfatto, a lui anco ottimamente soddisfece. Del che più volte poi, con la donna tenendone proposito insieme, gioiosamente ne risero.
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Il Bandello
alla illustre e gentilissima eroina
la signora
Clara Visconti e Pusterla
Venne non è molto da Roma a Milano il dotto messer Marco Antonio Casanuova, per andare a Como a vedere i suoi propinqui; perciocchè, sebbene egli nacque in Roma e fu creato della magnanima casa Colonna, il padre suo nondimeno era cittadino comasco. Egli in Milano fu molto accarezzato da tutti quei che delle buone lettere si dilettavano, per l’arguzia e soavità de' suoi epigrammi. Ma fra gli altri che di continovo li tenne compagnia fu il nostro dotto messer Geronimo Cittadino. Egli uno giorno lo condusse in casa vostra a visitarvi. Voi, che già per chiara fama lo conoscevate, lo raccoglieste con quella singolare umanità con cui siete solita, tutti che a voi vengono, ricevere, ma sovra tutti, i virtuosi e alle muse consacrati. Si ritrovò allora con voi il gentilissimo e di ogni sorta di scienza adornato messer Marco Antonio della Torre, gentiluomo veronese, ma per antica origine disceso dalla nobilissima famiglia de' Torriani, che lungo tempo con gli avi vostri Visconti del principato di questa città e di tutta Lombardia combatterono, seguendo tra loro alcune sanguinose battaglie. Ora, dopo le accoglienze da voi e dal Torre a esso Casanuova fatte, dopo molti ragionamenti fatti si entrò a parlare di una mischia fatta dagli scolari in Pavia contra gli sbirri del podestà; e dalla commessa questione, che il Torre, come seguisse, senza troppi proemi narrò, egli disse una piacevole novella avvenuta in Pavia a uno scolare. Essendo dopo io, secondo il mio consueto, venuto a visitarvi, voi il tutto puntualmente mi diceste, pregandomi che essa novella volessi scrivere; il che per ubedirvi, come a casa tornato fui, descrissi. Ora che le mie novelle in uno vuò raccogliendo, poi che questa per commandamento vostro fu da me scritta, convenevole mi pare che ella, come cosa da voi proceduta, a voi ritorni e resti sempre sotto il valoroso nome vostro appo il mondo, per testimonio de l’osservanza mia verso voi, facendomi a credere che sempre sarà da voi allegramente letta e tenuta cara. State sana.
NOVELLA XIV
Uno scolare in uno medesimo tempo in uno istesso letto
gode due sue innamorate, e l’una non si accorge de l’altra.
Avendovi, signora mia osservandissima, detta la cagione del romore seguìto tra gli scolari, ove erano alcuni auditori miei, contra li sergenti de la corte, e forse avendovi alquanto attristata per la morte di alcuni, che nel menar de le mani tra l’una e l’altra parte seguì, mi pare essere debito de l’officio mio con alcuna piacevole novella levarvi parte de la tristicia da voi, come pietosa che sète, presa. E per cagione di parlar di scolari potendo essere processo il despiacere vostro, col parlar pure di uno scolare mi sforzerò allegrarvi. Ne lo studio de la città di Pavia fu uno scolare, il cui nome per convenienti rispetti mi pare di tacere, il quale, ancora che per essere di elevato ingegno attendesse agli studi filosofici, tuttavia, come su il fiorire de la giovanezza, che volentieri sèguita il vessillo di amore, si diede tutto in preda a una assai bella donna, moglie di uno cittadino che de li beni de la fortuna si trovava commodamente agiato. Seppe sì bene fare lo scaltrito scolare, che si fece molto dimestico di esso cittadino, il quale assai spesso lo invitava a disinare e a cenare seco; di modo che con questo pratticare in casa divenne anco dimestico de la sua amata donna. E così, in breve, andò la bisogna, che a quella narrando il suo amore e aggiungendovi preghiere caldissime, non essendo ella di marmo ma di carne e osse, di maniera insieme si dimesticarono che amorosamente più volte preseno l’uno de l’altro piacere; onde, ogni volta che ci era la commodità, non mancavano a darsi buon tempo e vita chiara. Ma perchè la troppa abondanza talora genera fastidio, e li giovani quante donne el dì veggiono tante ne desiderano, l’appetitoso scolare vide una vedovella che sovente pratticava con la sua innamorata, che era tutta baldanzosa e festevole, che molto gli piacque, e si mise in animo di provare se di quella poteva diventare possessore. Onde cominciò con la coda de l’occhiolino, quanto più destramente poteva, amorosamente vagheggiarla. Ella, veggendo lo scolare in quella casa molto dimestico così del marito padrone de la casa come anco de la moglie di quello, senza pensarvi alcuna malizia, credette che egli fosse parente loro. E parendole lo scolare tutto costumato e di buona grazia, mostrava non despiacerle che da quello fosse amata. Onde assiduamente conversando in quella casa, e il più de le volte ritrovandovisi lo scolare, ella cominciò farli buon viso e mostrarli che di lui le calesse; ma si governava in modo che non voleva che la donna de la casa se ne avedesse. Accortosi il giovane di questo, per non guastare la coda al fagiano, navigava ancora egli sotto acqua; e non avendo commodità di poterle parlare segretamente, con gli occhi si aiutava. Le scrisse poi una amorosa lettera, la quale destramente le diede. Ella la prese e la lesse, e li fece risposta che non meno amava lui che egli lei amasse, ma che non vedeva commodità di dargli udienza segreta: per uno fastidioso cognato che in casa avea, non era possibile; pregando quello che, in casa ove pratticava e che ella soleva spesso venire, sì guardasse da la padrona de la stanza di non parlare in segreto, perchè ella direbbe ciò che vedesse al fastidioso di suo cognato. Piacque molto a lo scolare che la vedovella non avesse sospetto de la prattica che egli con la padrona de la casa avea, e andava tuttavia chimerizzando come farebbe a godere essa vedovella, la quale medesimamente non meno desiderava provare gli abbracciamenti del giovane, che egli si facesse quelli di lei. Avenne indi a poco che andò fore di Pavia il padrone de la casa, e non era per tornare fra quattro o cinque dì. Il perchè la maritata invitò per cena e a letto il suo scolare, che di grado accettò l’invito. Andò lo scolare buona pezza innanzi cena a trovare la sua donna, perchè, come detto vi ho, egli per la dimestichezza che col marito avea, andava da ogni ora in quella casa senza rispetto veruno. La donna poi, per potere più liberamente da ogni ora essere con l’amante, tenne tal mezzo con quelle sue massare, che tutte le tenevano mano. Ora, mentre che in diversi ragionamenti andavano aspettando l’ora de la cena, ecco arrivare a l’improviso la vedovella, la quale fu da la maritata cortesemente ricevuta. E dopo le consuete tra loro accoglienze disse la vedovella a la maritata: – Io ho inteso che vostro marito è cavalcato, e perchè sète sola, sono venuta cenare vosco. – Siate pure la benevenuta, sorella mia. – E poi alquanto avendo ragionato, lo scolare a le donne disse: – Restatevi in pace, chè io me ne vado a cena. – La maritata allora, levatasi in piede: – Per mia fè, voi non vi partirete, – soggiunse, – chè se bene mio marito non ci è, cenerete pure di brigata con noi. – E così, essendo l’ora de la cena, fu data l’acqua a le mani e servirono le massare, mentre che si cenò ragionando tra loro di piacevoli e varie cose. Finita che fu la cena, essendo già l’ora alquanto tardetta, disse la maritata a lo scolare: – Amico mio, voi per cortesia vostra sarete contento accompagnare questa mia come sorella sino a l’albergo suo, che è a punto lungo la strada che voi, andando a casa, bisogna che facciate. – E rispondendo lo scolare che molto volontieri, la vedovella allora, tutta ridente, disse: – No no, sorella mia. Tu mi hai dato cena, e tu mi darai anco letto, perchè questa notte io intendo giacermi teco. – Sia con Dio! – rispose la maritata, ancora che ne l’animo suo le despiacesse, parendole troppo duro a perdere la buona notte che sperava di avere col suo amante. Egli medesimamente forte si contristava, veggendosi rompere il suo disegno, perchè sperava, andando con la vedovella, di mettere alcuno ordine a li casi suoi, e poi tornarsene a dormire con la maritata. E parlando tra loro dui, senza dare sospetto veruno a la vedovella, andavano pure imaginandosi di trovare qualche modo per cui si potessero godere insieme. Onde disse la maritata a lo scolare: – Io sono disposta per ogni modo che tu questa notte resti meco. Vedi se tu sai imaginarti qualche inganno, col quale possiamo indurre costei che tutti tre si corchiamo nel mio letto, che come sai è grandissimo e ne caperebbe più di quattro. Io monstrerò non volere che tu ti parti. E fra tanto faremo qualche giuoco. – Si misero dapoi tutti tre a giuocare a «Gie l’e». Avendo buona pezza di tempo consumata in giuocare, disse lo scolare: – Egli è ora di andare a letto. Vogliamo noi giocare tutta la notte? Il mio albergo è molto lontano. – Soggiunse allora la maritata: – Io ti insegnerò, amico mio. Quando mio marito è a casa e tu ceni nosco, tu dormi dentro la camera di mezzo: tu lì dormirai questa notte. – Fatto questo, mentre le due donne si corcâro, lo scolare, dato l’ordine con una massara di quanto voleva fare, si andò sovra la camera de le donne, e la massara da una fenestra con una pertica frugava a la fenestra de la camera de la donna, e lo scolare di sopra faceva strepito, di modo che pareva che ci fossero ladri. La maritata, ciò sentendo: – Oimè, sorella mia, – disse, – li ladri sono in casa! – La massara in questo, correndo verso la camera de la padrona, forte ansando, picchiò a l’uscio, e lo scolare, descendendo con la ignuda spada in mano, gridava: – Ahi traditore, tu se’ morto! – E parea che seguitasse uno. Dapoi tornando di sopra, trovò che la massara era intrata in camera e diceva a le donne che avea visto il ladro fuggire e che con la spada messer lo scolare fieramente lo incalzava. Le altre massare tutte erano già in camera, mostrando di essere sgomentate e piene di gran paura, e tutte aveano veduto più di uno ladro. Lo scolare disse averne cacciati dui, li quali erano saltati giù da una finestra bassa in strada e che egli non avea potuto aggiungergli a tempo, e che avea serrata essa finestra. La maritata allora, mostrando fieramente adirarsi contra le massare, disse loro uno carro di ingiurie; e fingeva per ogni modo di volerle battere, sapendo come avevano espressa commissione dal marito che ogni sera fermassero quelle finestre. Ma lo scolare con buone parole parve che mitigasse assai la simulata còlera de la adirata donna, la quale borbottando dice che non potrà mai dormire sicuramente quella notte, se lo scolare non resta a dormire in quella camera. Di questo la vedovella mostrava non contentarsi; ma la maritata tanto bene le seppe dire e tanto lodò lo scolare, dicendo che era buono e discreto giovane e che non farebbe alcuna cosa meno che onesta, e che se pure volesse passare li termini del devere, che elle erano due e che di liggiero lo castigarebbero, che la vedovella dopo molta resistenza vi si accordò; onde di commune concordia fu messa la vedova in mezzo. Così portati tutti tre in letto, la maritata, che avea costume, dormendo, di sornacchiare, come fu in letto, vinta dal sonno, cominciò grandemente a sornacchiare. Il che despiacendo a la vedova, disse: – Oimè! come è possibile dormire con questo sornacchiamento ne la testa? – Allora lo scolare, soavemente a quella accostatosi e postale una mano su le ritondette e dure poppe, pian piano le disse: – Vita mia, questa è una ventura che la fortuna mi manda. Non la risvegliate a veruno modo; lasciatela dormire a sua posta. – E quivi con molte dolci parole narrandole quanto la amava e quanto le era servitore, e quanta amorosa passione per quella di continovo sofferiva, sì bene seppe cicalare e dire il fatto suo che, da l’agio e il buio e dal caldo de le lenzuola aiutata, la vedovella, che pure l’amava, si lasciò tutta in poter di quello, il quale, con gran piacere di amendue le parti, amorosamente prese il possesso de li tanto desiderati beni. E dando ordine che per l’avenire si potessero insieme talvolta dar piacere, la maritata si risvegliò; e desiderando godere il suo amante, non sapeva come governarsi. Tra questo la vedovella, che era alquanto lassa dal macinare, sentendo che la maritata si era destata e in effetto avendo assai più caldo che non voleva, disse a la maritata, non pensando più innanzi: – Sorella mia, io cangierei volentieri loco con voi, perchè qui in mezzo io mi muoio di caldo e non oso voltarmi verso lo scolare. – Che fa egli, il dormiglione? – soggiunse la maritata. – Egli, – rispose la vedovella, – si dorme come una marmotta, e da che si corcò non si è più mai destato. – E nondimeno da tre volte in su, senza cangiar vettura, avea corso le poste. Cangiò adunque luoco la maritata e andò a lato de lo scolare; il quale, sentendo non molto dopo la vedova dormire, rientrò più volte in possesso de li beni de la maritata, macinando; e così destramente macinò che l’una non si accorse de l’altra già mai. Onde le donne assai liete e contente, come fu giorno, si levarono. La maritata poi una sera, cenando col marito e con lo scolare, disse al marito che le era stato narrato da una sua vicina quanto a lei era successo, ma cambiò li nomi de lo scolare e de la vedovella; e sovente con lo scolare, ridendo, diceva che la vedovella era una gran dormigliona. Ma lo scolare, che sapeva come la cosa stava, avea gran piacere di avere in quello modo le due donne trattate.
Il Bandello al magnifico e dottissimo filosofo
e poeta soavissimo messer Geronimo Bandello
cugino carissimo salute
Mi fu bisogno, come sapete, questo novembre passato, per certi negozii di grandissima importanza passare in Francia e andare a la corte del re Lodovico di questo nome duodecimo, che si teneva a Bles, lungo il fiume Legeri, che da’ francesi volgaremente si chiama Loera. Il viaggio nel vero è stato assai lungo, e da l’Alpi sino a la corte, per essere il verno, molto faticoso per cagione de le continove e altissime nievi e degli indurati ghiacci, che, cavalcando, di continovo forza è calpestare. La medesima fatica si prova al ritorno. Questo bene ci è: che il camino è sicurissimo, e vi si può cavalcare di notte e di giorno con l’oro in mano